Centro Mondiale Commerciale, un increscioso articolo altrui e una mia doverosa risposta

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Centro Mondiale Commerciale, un increscioso articolo altrui e una mia doverosa risposta


di Michele Metta 


Sul quotidiano Globalist, è comparso da alcuni giorni un articolo avente titolo L'Apocalisse di Pier Paolo Pasolini, a firma di tal Giovanni Giovannetti.


È opportuno che si sappia, a tal proposito, quanto segue: ho conosciuto tale Giovannetti sul finire del 2015. In quanto lui editore, gli ho, infatti, in quel periodo, inviato i file PDF dei miei due libri dove, grazie a miei documenti esclusivi, mettevo in rilievo gli intrecci tra Centro Mondiale Commerciale - la struttura coperta della CIA, cioè, come ben sa chi segue la mia inchiesta qui su L'Antidiplomatico - e gli omicidi Kennedy e Pasolini. 


Il Giovannetti rispondeva entusiasticamente, dichiarando di voler assolutamente procedere alla pubblicazione di tali miei due volumi.


In modo particolare, il suo entusiasmo era riservato al fatto che, grazie al mio lavoro, finalmente capiva significato e importanza, prima sfuggitigli, di passaggi dell’opera di Pasolini intitolata Petrolio. Passaggi, cioè, prima del mio lavoro, per lui oscuri. Proprio quei passaggi riportati da lui nel suo articolo suddetto per Globalist. Senza però - attenzione - citare il mio nome, in tale articolo. Cosa che sarebbe stata, per quanto appena detto, suo dovere fare. Omissione del mio nome da Giovannetti già compiuta altrove in passato, tra l’altro.


Ecco il raffronto tra l’articolo di Giovannetti ed il testo, frutto di anni di mia personale ricerca, tratto dal primo dei miei libri. Libri a lui sottoposti, come dicevo, in una trattativa editoriale andata a monte - specifico - perché lui si rifiutava, con me, di mettere in atto una sana pratica di trasparenza, e cioè quella di applicare sui miei libri i bollini SIAE, qualora fossero usciti presso la sua Casa editrice. Bollini SIAE ancor più opportuni dato l’avergli indicato la mia volontà di donare in beneficenza una cospicua fetta dei miei proventi.


Scrivo, infatti, nel mio volume incentrato sugli intrecci tra CMC ed omicidio Pasolini:


EPOCHÈ

Non è finita: esiste un altro, lungo passaggio di Petrolio, persino più calzante, persino più tellurico. Soprattutto: inequivocabile. Proprio in questa cornice delle celebrazioni per la Festa della Repubblica servite come espediente per inserire, nel tessuto del proprio libro, il contenuto dei mattinali confidenziali illegalmente, sottobanco, forniti a Cefis dai nostri Servizi, Pasolini immagina una stanza speciale, appartata dal resto dei convitati a tale Festa, nella quale sono riuniti tutti gli intellettuali lì convenuti: stanza dove ha inizio un rituale avente sapore e contenuti a metà tra quello boccaccesco del Decameron – del resto, trasposto in pellicola da Pasolini – e quello dei racconti di De Sade, usati come base per l’altrettanto pasoliniano Salò. Infatti, in tale stanza, quest’intellettuali iniziano, a turno, a narrare. 
Le prime narrazioni sono irritanti, frustrantemente inconcludenti, dagli stessi narratori descritte come, in definitiva, esercizio di masturbazione mentale. Hanno, cioè, un tipo di connotazione che ricalca l’accusa da Pasolini mossa in un’altra porzione del qui, per stralci, già riportato suo celeberrimo articolo, per il Corriere della Sera del 14 novembre 1974, intitolato Che cos’è questo golpe?. La connotazione, vale a dire, d’essersi piegati all’unico mandato che il potere tollera gli intellettuali svolgano:

mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.

Quel mandato – aggiunge Pasolini subito dopo nell’articolo – al venir meno al quale si viene additati come traditori.
Ed infatti, questi primi racconti degli intellettuali posti da Pasolini in Petrolio, di problemi morali ed ideologici, ridondano, con stucchevolissime citazioni filosofiche fini a sé stesse, e che a nulla conducono. […]

Solo l’ultimo, degli intellettuali che, in Petrolio, prendono la parola, aderisce, invece, visibilmente e pienamente, al credo pasoliniano: essere intellettuale per poter svelare le trame occulte del potere.
Tale ultimo narratore inizia il proprio racconto descrivendosi in Nepal. Tuttavia, si tratta con sicurezza d’una collocazione geografica fittizia. A dircelo, poche righe prima, è lo stesso narratore. Perché mai, allora, questa collocazione fittizia? Perché – chiarisce sempre tale narratore che, per quanto or ora spiegato, possiamo interpretare come alter ego di Pier Paolo Pasolini – lui sta, appunto, per condurci a rivelazioni sulle stragi. Rivelazioni provenienti da una fonte; rivelazioni talmente importanti da rendere necessari stratagemmi atti a non far capire la vera identità di questa fonte, il cui incontro viene così tratteggiato:

e, disteso nel fango, vidi un corpo umano: dalle dimensioni massicce e dai vestiti, capii che si trattava di un europeo. Mi chinai e gli sollevai la testa, orribilmente sporca di melma. Mi pareva che la bocca fosse insanguinata. Mi parlava, con un filo di voce. Ma in quel momento la foga delle campanelle era tale che non riuscii a percepire le sue parole. Ma dopo un po’ ne afferrai il senso. Parlava in inglese. Doveva essere americano. Quando però si accorse, dalla mia pronuncia, che ero italiano, cominciò a parlare in italiano anche lui, quasi perfettamente.

[…]

quell’uomo stava morendo. Tutto ciò che io guardando e sentendolo venni a sapere di lui era qualcosa di incancellabile che però stava per essere cancellato

[…]

Ora stava tirando le cuoia, lì, dietro quel cespuglio, nella melma, mentre i rintocchi festosi delle campane del tempio risuonavano sempre più fitti e assordanti. Capii che si disponeva a lasciarmi, in fretta, le sue ultime volontà. Ma non si trattava precisamente di ultime volontà, bensì di una specie di confessione, che egli fece a me in quanto io ero italiano.

[…]

poco dopo venni a sapere che era di origine italiana (ma di madre anglosassone), e che apparteneva alla mafia. Ciò che egli aveva da confessarmi era ciò che egli sapeva. La sua colpa, dunque, consisteva nel sapere. Forse, come quei contadini che lo avevano ammazzato a bastonate, credeva in Dio, e voleva passare all’altro mondo leggero. Chissà. Oppure voleva vendicarsi di qualcuno. Ciò che egli mi raccontò è un breve periodo della recente storia italiana (esattamente sei anni). Il mio [registratore] Nagra funzionava sempre. Perciò tutto quello che egli mi ha detto è registrato su un nastrino, mescolato ai rintocchi ossessivi delle campanelle e alle musiche nepalesi, che continuavano a risuonare in quel tratto di campagna buia e fredda sotto le incombenti montagne.

Segue un ultimo paragrafo, in Petrolio raccolto tra due parentesi quadre; parentesi quadre che, qui, ometteremo, per non confondere i lettori, dato che, finora, ce ne siamo sempre personalmente serviti per, convenzionalmente, indicare o elisione d’una parte di testo citato, oppure intermissione, in un citato, di testo non presente, ma indispensabile a non perdere il senso al brano. Ecco il paragrafo:

Il racconto del morente è in prima persona: lunga storia che comincia in America - omicidio di Kennedy - arrivo in Grecia - fascisti italiani ecc. Il morente racconta ciò che sa: ma anche ciò che è venuto a sapere da altri morenti (tre o quattro) i quali a loro volta, prima di morire, raccontano a lui ciò che sanno. Il morente del Nepal è dunque l’ultimo in ordine di tempo. Sospetto che non sia stato ammazzato dai buoni nepalesi. Comunque egli (metalinguisticamente) insiste a dire che due sono le fasi delle stragi, due, e il narratore lo ripete ai suoi ascoltatori: Due sono le fasi, due

Partiamo proprio da tale – sia permesso dirlo – sconvolgente ultimo paragrafo: è un’annotazione; riassuntiva di dati che Pier Paolo Pasolini, evidentemente, si riservava d’articolare con assai più dovizia nella stesura finale del libro. Sunto schematico che, quando dice «lunga storia che comincia in America - omicidio di Kennedy - arrivo in Grecia – fascisti italiani ecc.», si potrebbe benissimo prendere ed utilizzare come schema da cui ricavare una sinossi di CMC. La centrale occulta della CIA in Italia e l’assassinio di John Kennedy. 
Quella che ci raccontano le carte del CMC, infatti, unite ad altri documenti – della CIA, del Dipartimento di Stato, della Commissione Stragi, ma non solo – è proprio una storia che si snoda dal patto segreto tra massoneria italiana e massoneria USA perché Kennedy non arrivi al potere; un patto che – è evidente – non essendo riuscito nel proprio primo scopo, prosegue il proprio itinerario con ancor più pesante intento strettamente connesso a questo: scalzare John Kennedy dallo Studio ovale a qualunque costo. Una storia che passa, pure, per quei colonnelli greci che, qui in Italia, hanno il più robusto, fattivo punto di riferimento nel membro del CMC Giuseppe Pièche. Grecia nella quale Pièche giunge – «arrivo in Grecia» – portando con sé quei fascisti italiani che poi, compreso Rauti, troviamo nella Strategia della tensione. 
Ulteriore conferma, nel penultimo paragrafo dello stralcio di Petrolio che stiamo esaminando; quello dove Pasolini scrive: 

Ciò che egli mi raccontò è un breve periodo della recente storia italiana (esattamente sei anni).

L’assassinio di Kennedy si compie nel 1963; la strage di Piazza Fontana è del 1969: sei anni. Esattamente sei anni.
Che sia la Strage di Piazza Fontana l’evento del 1969 cui Pasolini vuol fare riferimento, è ribadito da una Nota, posta dal poeta a commento della frase «Il morente racconta ciò che sa: ma anche ciò che è venuto a sapere da altri morenti (tre o quattro) i quali a loro volta, prima di morire, raccontano a lui ciò che sanno». Nota che così inizia:

Uno di questi cade ai suoi piedi di notte dal quarto piano di una clinica (D’Ambrosio).

Chiarissima l’allusione alla morte di Pinelli, che precipita spinto dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano. L’assassinio verrà archiviato come incidente grazie alla discutibilissima decisione emessa da – appunto – quel giudice D’Ambrosio il cui cognome Pasolini riporta nella parentesi tonda: come una sorta di soluzione ad un facilissimo indovinello. 
Ma l’allusione a Piazza Fontana torna pure – attenzione – nell’apparente stravolgimento del luogo in cui Pinelli muore: Pasolini, infatti, invece che di Questura, parla di clinica. Tuttavia, occorre ricordarci di quanto già detto; e cioè, del ricorso, in Petrolio, alla Visione, la quale, come già spiegato, è quella capacità, tramite intelletto, di potenziare la qualità percettiva del reale, per giungere al vero. Spieghiamo come.
Il 21 ottobre del 1971, muore, cadendo da un’altra finestra, Vittorio Ambrosini. Finestra, appunto, d’una clinica – si tratta del Policlinico Gemelli di Roma, nella quale Ambrosini era in quel momento ricoverato. Le analogie sono appena iniziate; ben altre ancora, ve ne sono: Ambrosini, infatti, era un avvocato simpatizzante fascista. Per ciò stesso, aveva avuto modo di prendere parte, la sera del 10 dicembre 1969, ad una riunione, uno dei cui altri partecipanti era il potente onorevole missino Giulio Caradonna: riunione nel corso della quale erano stati, ad un certo punto, messi sul tavolo pacchi ricolmi di soldi, più un assegno, al fine di «andare a Milano a buttare tutto all’aria». Consumatosi, in effetti, ad appena due soli giorni, l’attentato milanese, Ambrosini sente il bisogno di svuotarsi la coscienza, e scrive tre lettere – una proprio a Caradonna; una all’allora Ministro degli Interni Franco Restivo; una a Luigi Longo, all’epoca a capo del Partito comunista – nelle quali sostiene che dietro l’eccidio alla Banca dell’Agricoltura c’è Ordine nuovo, presso la cui sede nazionale, nella centrale, romana, via degli Scipioni, s’era tenuta l’asserita riunione del 10 dicembre. Per smascherare Piazza Fontana – insisteva Ambrosini – , occorreva scavare tra quel gruppo di fascisti andati in viaggio in Grecia a ricevere istruzione ed informazioni dal regime dei colonnelli lì instauratosi. 
Siamo, come si vede, di nuovo di fronte – esattamente – a quel viaggio in Grecia da Pasolini evocato nel passaggio che stiamo esaminando; viaggio organizzato dal membro del CMC Pièche, e da Pier Paolo Pasolini messo in sequenza con l’omicidio di John Kennedy. Siamo di nuovo, pure, come accennavamo, a quel meccanismo della Visione così caro a Pasolini in Petrolio, dove, in una scena, bisogna saperne cogliere un’altra ancora:

la prima resta dentro la seconda, come un ‘doppio’, coperto completamente dalla sua riproduzione, è vero, ma non senza una leggera sfasatura, che permette di poter riconoscerlo e tenerlo sempre presente. Questo ‘doppio’, o Scena Reale, non è contemporaneo, cronologicamente, all’aspetto presente, o Scena della Visione. 
[…] leggera sfasatura, [la quale] traspare nel fondo […] della Visione – […] quasi per un casuale e allucinatorio concentrarsi su esso dello sguardo -[…].

Insomma: quasi una sorta d’onirismo cinematografico, in cui si veda comparire alla finestra della Questura la sagoma di Giuseppe Pinelli, si veda la Questura trasfondersi in clinica e, infine, girato il corpo bocconi, oramai precipitato al suolo, di Pinelli, ci si accorga che ha il volto di Vittorio Ambrosini.
Ma l’orribile attentato del 12 dicembre 1969 torna pure una terza volta: nel prosieguo della Nota posta da Pasolini in Petrolio. Dice:

Uno muore cadendo nella tromba dell’ascensore

Ebbene: qui, Pasolini, con tutta evidenza, sta citando l’ulteriore morte d’Alberto Muraro, avvenuta il 13 settembre 1969. Muraro ex carabiniere e, soprattutto, portiere dello stabile padovano, posto in Piazza Insurrezione, residenza dell’importante missino, nonché estremista neofascista, Massimiliano Fachini. Stabile dove il precedente 16 giugno, verso le ore 19, s’era recato l’altrettanto neofascista Giancarlo Patrese; passando, così, inevitabilmente, innanzi alla guardiola del Muraro. Nel mentre, svariati minuti dopo, se ne stava allontanando, un tempestivo intervento delle Forze dell’ordine l’aveva, però, colto in possesso d’un involto contenente un ordigno rudimentale. Il Patrese, a quel punto, aveva tentato di tutto per pretendere che Massimiliano Fachini non avesse nulla a che fare con la faccenda: compreso sostenere d’essere entrato nello stabile in compagnia d’un’altra persona. Era stata – millanta – tale terza persona, e non il Fachini, a dargli l’involto. La cosa è ovviamente del tutto assurda: perché mai, infatti, andar proprio nel palazzo di Massimiliano Fachini, per dar luogo ad una consegna con un qualcuno che in quell’edificio, viceversa, non abitava affatto? L’intento depistante di Patrese ha, ovviamente, la sua ragion d’essere: coinvolgere il Fachini, significava non solo smascherare i sovversivi intenti d’un militante del Movimento sociale gerarchicamente molto rilevante, gettando così discredito sull’intero Partito neofascista, ma significava ancor di più mettere gli inquirenti in grado d’arrivare a dimostrare quel che c’era a monte di Fachini, e cioè una cellula veneta stragista ricomprendente Franco Freda e Giovanni Ventura. A mettere la menzogna del Patrese spalle al muro, tuttavia, c’era appunto la testimonianza del Muraro: Patrese, nello stabile, era entrato assolutamente solo; e solo altrettanto n’era uscito. Testimonianza però fermata, a due giorni appena dalla convocazione del portiere innanzi al giudice titolare, Aldo Fais, da una stranissima caduta, sopraggiunta dopo anonime minacce di morte. Caduta, appunto, nella tromba vuota dell’ascensore, e con un chiaro segno, sulla testa, di percossa con un corpo contundente ben distinta dai danni riportati nel precipitare. 
Caduta sulla cui natura criminale aveva ben chiare le idee il magistrato Emilio Alessandrini; in un’intervista degli anni Settanta a l’Espresso così, infatti, dichiara:

Sono sempre stato convinto che Muraro sia stato buttato giù. Doveva essere stato colpito in testa e stordito al terzo piano […].

Affermazione collimante con i riscontri scientifici: oltre al già accennato livido sul cranio non compatibile con la caduta, il Muraro, pur essendo giunto al suolo di faccia, e non di schiena, non ha danni rilevanti alle braccia, come di norma, invece, dovrebbe accadere, visto che chiunque, in una caduta simile, protenderebbe istintivamente gli arti superiori per proteggersi. In una caduta in stato d’incoscienza, le braccia non verrebbero appunto sollevate, così come il soggetto non griderebbe; ed i testimoni sono concordi: nessun grido è stato udito. Mancanza di grido e mancanza di danni notevoli alle braccia che – per inciso – sono, guarda caso, pure caratteristica della morte in clinica di Vittorio Ambrosini. Infine, ci sono le ciabatte indossate dal Muraro il giorno fatale: rimaste sulle scale, e non, come sarebbe logico, nella tromba dell’ascensore; e, per giunta, una al primo piano, l’altra tra il secondo e il terzo. Come – ci risiamo – d’un corpo svenuto portato di peso da sicari lungo le rampe, ed a cui, ovviamente, le pantofole si sfilano nel mentre. 
L’eliminazione dello scomodissimo Muraro sarà stura ad una campagna di delegittimazione contro il principale motore di quell’indagine sulla bomba rudimentale trovata in possesso del Patrese: il commissario di Pubblica sicurezza Pasquale Juliano. Campagna la cui cassa di risonanza viene affidata a quel già citato La giustizia è come il timone: dove la si gira va: al subdolo libro, cioè, il cui editore è proprio Giovanni Ventura, ed il cui autore è proprio Franco Freda. 
Pier Paolo Pasolini, dunque, a conti fatti, sta in Petrolio dicendo non solo che delle gole profonde l’avevano messo in grado di comprendere che la decifrazione della vera natura della strategia della tensione passa per un filo unico che dall’agguato a Kennedy si riconnette fino al terribile attentato meneghino presso la Banca dell’Agricoltura, ma pure che si tratta di fatti per impedire il cui smascheramento il potere ricorre a quant’accaduto a Pinelli, Ambrosini e Muraro: omicidi volontari camuffati, travestiti, d’altro. Cioè, la stessa identica morte, in effetti, toccata a Pasolini all’Idroscalo: esecuzione premeditata di gruppo, camuffata in incontro omosessuale sfociato in tragedia.
Un filo unico a reggere il quale ci sono gli Stati Uniti, in ultima analisi. Molto utili, a conferma, le parole contenute nel passaggio:

Parlava in inglese. Doveva essere americano. Quando però si accorse, dalla mia pronuncia, che ero italiano, cominciò a parlare in italiano anche lui, quasi perfettamente.

Assai probabile Pasolini stia dicendo: Mi hanno dato documenti USA che, per fortuna, ho avuto modo di farmi tradurre. 
Degna di riflessione, altrettanto, la frase nella quale Pasolini descrive il perché chi è sua fonte proprio a lui, per quella «specie di confessione», si sia rivolto. Afferma Pasolini: 

egli [la] fece a me in quanto io ero italiano

Una confessione presuppone, di rigore, una colpa: quale miglior destinatario, per affidare un’ammissione chiaramente di connotazione liberatoria come quella da Pasolini descritta, se non chi sia stato vittima di tale colpa? La strategia della tensione ha devastato l’Italia; e dunque: giusto ed ovvio che a ricevere la confessione sia un qualcuno scelto «in quanto […] italiano».
Importantissima, assolutamente non di meno, la conclusione dell’ultima frase dello stralcio di Petrolio che abbiamo riprodotto:

Comunque egli (metalinguisticamente) insiste a dire che due sono le fasi delle stragi, due, e il narratore lo ripete ai suoi ascoltatori: Due sono le fasi, due

Impossibile non correre nuovamente al Che cos’è questo golpe?. Se è vero che quel pezzo uscito sul Corriere della Sera esordiva con accuse d’impatto, ma, in un certo qual modo, generiche, tuttavia è altrettanto vero che Pasolini, più in là nell’articolo, si faceva, e più volte, assai specifico; ad esempio, dichiarando:

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Ecco cosa, dunque, sommando il tutto – e cioè, articolo e romanzo – sta spiegando Pasolini: Laddove io, nell’articolo, affermavo d’aver capito che le stragi sono stragi di Stato, stavo semplicemente usando la mia intelligenza; laddove divenivo così dettagliato, è perché, com’è ovvio che sia se fornisco tanto specifici dettagli, stavo citando una fonte. In altri termini: Il mio informatore «insiste a dire che due sono le fasi delle stragi, due», ed io, Pasolini, mi faccio carico di riferirle, mi rendo «il narratore [che] lo ripete ai suoi ascoltatori [sul Corriere ed in Petrolio]: Due sono le fasi, due».
Imponente anche quando, in questo passaggio di Petrolio, Pasolini dice:

Il mio [registratore] Nagra funzionava sempre. Perciò tutto quello che egli mi ha detto è registrato su un nastrino. 

Sta avvisando: Di tutto quello che mi hanno riferito, io, a differenza di quel che ho detto nel mio articolo sul Corriere, le ho, in realtà, le prove.
Cosa, del resto, sulla quale esiste un ampio paragrafo proprio all’inizio stesso di Petrolio, laddove Pier Paolo Pasolini scrive:

verrà adoperato un enorme quantitativo di documenti storici che hanno attinenza coi fatti del libro: specialmente per quel che riguarda la politica, e, ancor più, la storia dell’Eni. Tali documenti sono: giornalistici (reportage di rotocalchi, l’Espresso ecc.) e in tal caso sono citati per intero; testimonianze orali ‘registrate’, per interviste ecc., di alti personaggi o comunque di testimoni; documentari cinematografici rari (e qui ci sarà una ricostruzione critica analoga a quella figurativa e letteraria – non solo filologica ma anche stilistica e attribuzionistica – per es. “Chi è il regista di tale documentario?” ecc.). L’autore dell’edizione critica ‘riassumerà’ quindi, sulla base di tali documenti – in uno stile piano, oggettivo, grigio ecc. – lunghi brani di storia generale, per legare fra loro i ‘frammenti’ dell’opera ricostruita.

E, ove mai il tutto non fosse già abbastanza chiaro, dove l’ha messa, Pasolini, questo fin qui commentata confessione in punto di morte? Nell’Appunto 103; che reca, come sottotitolo: L’Epochè. Storia delle stragi. 
Epochè è traslitterazione in alfabeto latino d’una bellissima parola del Greco antico, ?ποχ?, molto impiegata in due attigue discipline: la Logica e la Filosofia. In entrambe, vale il contrario di pregiudizio, al quale si contrappone. Laddove il pregiudizio piega i fatti alle nostre convinzioni, o addirittura li ignora, l’epochè formula le proprie convinzioni solo ed unicamente derivandole dall’ascolto dei fatti. Credo davvero non occorra aggiungere altro, in proposito.
Da notare – ultimo ma non ultimo – la citazione della mafia: abbiamo visto in qual vasta misura la disamina delle vicende del CMC passi per collegamenti tra eversione nera, apparati dello Stato, stragismo e, appunto, Cosa nostra. Coagulo incarnato – esemplarmente, purtroppo – dal membro del CMC Spadafora. Mette perciò più d’un brivido constatare come, in un’altra delle pagine di Petrolio, compaia questa frase:

I fascisti siciliani ricattano […] Carlo quando è il momento di ammazzare Mattei; e Carlo si fa complice (sia pure solo col silenzio). A proposito della Mafia.

Frase nella quale Pasolini, quando scrive “Carlo”, intende Carlo Troya. Vale a dire, come ben sappiamo: l’Eugenio Cefis che intreccia i propri destini con il Monti il cui braccio destro siciliano è, appunto, Gutierez Spadafora. Frase che, quindi, una volta decrittata, suona:

I fascisti siciliani ricattano […] Cefis quando è il momento di ammazzare Mattei; e Cefis si fa complice (sia pure solo col silenzio). A proposito della Mafia.

Ricatto ad Eugenio Cefis che, inevitabilmente, ci fa venire in mente quanto vulnerabile lui certamente fosse per via dei propri non esattamente esemplari comportamenti durante la lotta partigiana in Val d’Ossola. Frase – va, infine, aggiunto – ad appena cinque righe dall’evocazione pasoliniana della Strage dell’Italicus di cui già s’è detto.
A conforto che il ragionamento fin qui tenuto sia giusto, accorre lo stesso Pasolini, del resto. Innanzitutto, grazie ad alcuni passaggi tratti dalla sua opera intitolata Empirismo eretico: in questa, in realtà consistente in una raccolta di scritti già pubblicati su quotidiani e riviste, Pasolini parla con non poca ampiezza dei fatti di Dallas del 22 novembre 1963, e perennemente chiarissimo appare come in lui domini l’idea, la convinzione, che dietro quegli spari ci fosse un complotto. Varie, le frasi nelle quali esprime il concetto che ad agire contro il trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti sia stato un gruppo di persone, e non, come invece in malafede preteso dalla Commissione Warren, un singolo, pazzo e solitario. Pasolini parla, per esempio, di presenza «del suo assassino, o dei suoi assassini, che sparava o che sparavano». Cosa che diviene addirittura immediatamente univoca nel paragrafo successivo, quando, passando al solo plurale, parla di «linguaggio dell’azione degli assassini». E altrettanto lo fa quando parla di «complici». Lo fa, nuovamente, quando – dato assolutamente interessantissimo – descrive l’assassinio di John Kennedy come districabile, risolvibile. Come? Attraverso l’analisi intelligente dei fatti. Un’analisi, cioè, il cui caposaldo sia quanto, vari anni dopo, sempre Pasolini sottolinea sul Corriere della Sera come chiave di volta per trovare la verità sulle stragi: la capacità intellettuale di coordinare tra loro i frammenti, trovando il senso. Procediamo al raffronto. Pasolini, 1975, Corriere:

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

Pasolini, 1967, nell’articolo poi riproposto in Empirismo eretico:

Ora facciamo ancora una supposizione: cioè che tra gli investigatori […] ci sia una geniale mente analizzatrice.
La sua genialità non potrebbe dunque consistere che nella coordinazione. Essa, intuendo la verità – da una attenta analisi dei vari pezzi […] –, sarebbe in grado di ricostruirla, e come? Scegliendo i momenti veramente significativi dei vari piani-sequenza soggettivi, e trovando, di conseguenza, la loro reale successività. Si tratterebbe, in parole povere, di un montaggio [cinematografico]. In seguito a tal lavoro di scelta e di coordinazione, i vari angoli visuali si dissolverebbero, e la soggettività, esistenziale, cederebbe il posto all’oggettività; non ci sarebbero più le coppie, commoventi di occhi-orecchie (o macchine da presa-magnetofoni) a cogliere e riprodurre la fuggente e così poco affabile realtà, ma al loro posto ci sarebbe un narratore.

Eccolo tornato: il narratore. Il narratore figura centrale per giungere alla verità, come abbiamo visto, anche in Petrolio; e proprio raccontando di Kennedy.
Non solo: a tal proposito, siamo particolarmente fortunati: Graziella Chiarcossi, che dell’edizione postuma di Petrolio è la curatrice, riporta, infatti, dopo quella che, per lo meno fino a quel momento, era l’ultima pagina del romanzo, cinque ulteriori, supplementari pagine. Sono tutte costituite d’annotazioni, ed una di queste annotazioni di Pasolini è, con certezza assoluta, riferibile proprio alla serie di racconti d’intellettuali posti dal poeta nella propria ultima opera. Leggiamo:

Tutti i racconti inseriti sono la rappresentazione concreta e vivente di fatti o personaggi che nel testo sono frutto di pura deformazione astratta. 
1) Per es. il primo gruppo di racconti ‘rappresenta’ i personaggi politici che nel testo [parola illeggibile; il seguito, lascerebbe presupporre potrebbe trattarsi d’un “alimentano”] - astrattamente - la politica dello sviluppo e i due gruppi di stragi politiche - 
Solo uno dei narratori - alla fine - racconta un racconto vero - Omette i nomi - ma racconta in concreto i fatti, appunto, delle sue stragi nella loro sistemazione storica (finge che un agente della Cia abbia confidato tutto in punto di morte) […]

L’ultimo dei racconti – quello la cui successione dei fatti mette assieme in un unico schema l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il viaggio dei fascisti italiani per ricevere addestramento dalla dittatura greca, la strategia della tensione – , e solo quello, è vero. Quel che lì viene raccontato è vero. Omette la fonte, ma è vero. Come la omette? 

finge che un agente della Cia abbia confidato tutto in punto di morte

Il curioso lapsus – Agente della CIA – è l’unica discrasia rispetto a quanto abbiamo letto prima: l’uomo disteso nel fango che al registratore Nagra finalmente confida i veri segreti della strategia della tensione si descrive come uomo della mafia, e non della Central Intelligence Agency, come si ricorderà. Lapsus; oppure ripensamento, nel senso che quelle annotazioni finali hanno aspetto d’una sorta di promemoria atto a servirsene per limare, nella versione definitiva del libro, la storia, descrivendo, appunto, l’uomo nel fango come Agente della CIA: un’indecisione, quella di Pasolini tra un personaggio mafioso oppure un personaggio della CIA, della quale, a ben guardare, c’è traccia allorquando Pasolini di questi parla descrivendolo come europeo, nel mentre, poche righe sotto, quando dice che parlava americano, possiamo ben dire d’essere innanzi ad elementi che rafforzano l’ipotesi che quei dati arrivassero da fonti con robusti canali negli Stati Uniti: come, per certo, era Edgardo Pellegrini.

Fine della citazione dal mio libro, da Giovannetti perfettamente conosciuto. 

Ora, andiamo ad esaminare il testo dell’articolo di Giovannetti, visitabile alla seguente pagina:

http://www.globalist.it/culture/articolo/2017/12/13/l-apocalisse-di-pier-paolo-pasolini-2016273.html

Leggiamo:

Pasolini in Petrolio (Appunto 103): «...lunga storia che comincia in America – omicidio di Kennedy – arrivo in Grecia – fascisti italiani ecc.» Sappiamo che gli assassini del presidente americano sono stati addestrati in Grecia; trovano poi rifugio a Roma, coperti da fascisti italiani. Ma più verosimilmente, Pasolini qui allude alla viaggio in Grecia, nell'aprile 1968 sul traghetto Egnatia, di una selezionata schiera di giovani fascisti italiani che, nel primo anniversario della presa del potere da parte dei Colonnelli, sono in Grecia per un corso sull'infiltrazione nei gruppi anarchici. Questo viaggio è organizzato da Stefano Delle Chiaie e dal referente italiano dei Servizi segreti greci Giuseppe Rauti detto Pino (l'onorevole era anche sovvenzionato dall'ambasciata degli Stati Uniti). E con loro c'è Mario Merlino di Avanguardia nazionale, l'infiltrato tra gli anarchici del circolo “22 marzo” (quello di Pietro Valpreda), indagato per le trame connesse allo scoppio della bomba di piazza Fontana e in particolare per la contemporanea esplosione di altri tre ordigni a Roma: in un sottopasso della Banca nazionale del lavoro in via San Basilio (14 feriti), all'ingresso del Museo del Risorgimento e sotto il pennone della bandiera all'Altare della Patria in piazza Venezia (4 feriti).
Ma soffermiamoci sull'Appunto 103. L'Epochè: Storia delle Stragi, là dove l'autore, nella finzione romanzesca, dà voce a un anonimo quarantenne dalla bocca insanguinata e moribondo: un mafioso americano di origine italiana incontrato a Bhagdalon in Nepal ad una povera festa contadina. Anzi sarebbero stati loro, i contadini, a ridurlo in fin di vita prendendolo a bastonate: «capii che si disponeva a lasciarmi, in fretta, le sue ultime volontà» scrive Pasolini «Ma non si trattava precisamente di ultime volontà, bensì di una specie di confessione, che egli fece a me in quanto io ero italiano». Costui era venuto a conoscenza di tremende verità sulla «storia di un colpo di Stato fallito» e dal suo racconto l'autore vorrebbe ricavarne «una sinossi di non più di due o tre cartelle dattiloscritte». Il condizionale è d'obbligo, poiché in fondo a questo Appunto non rimane che una nota di lavoro; insomma, un promemoria. Riportiamolo allora per intero:
[Il racconto del morente è in prima persona: lunga storia che comincia in America – omicidio di Kennedy – arrivo in Grecia – fascisti italiani ecc.
Il morente racconta ciò che sa: ma anche ciò che è venuto a sapere da altri morenti (tre o quattro)* i quali a loro volta, prima di morire, raccontano a lui ciò che sanno.
Il morente del Nepal è dunque l'ultimo in ordine di tempo. Sospetto che non sia stato ammazzato dai buoni nepalesi. Comunque egli (metalinguisticamente) insiste a dire che due sono le fasi delle stragi, due, e il narratore lo ripete ai suoi ascoltatori: Due sono le fasi, due.]
*Uno di questi cade davanti ai suoi piedi di notte dal quarto piano di una clinica (D'Ambrosio). Uno muore cadendo nella tromba dell'ascensore.

Alcuni passi di questa nota paiono scritti a ricalco del suo celeberrimo e coevo Cos'è questo golpe, uscito sul “Corriere della Sera” il 14 novembre 1974: in questo articolo Pasolini rimarca le due differenti fasi della strategia della tensione: «Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)». Così come in Petrolio «due sono le fasi delle stragi, due, e il narratore lo ripete ai suoi ascoltatori: Due sono le fasi, due».
All'Appunto 103a che segue, Un incerto punto fermo, lo stesso incompiuto romanzo è immaginato dall'autore diviso nettamente in due parti (in senso strutturale, perché, lo ribadisco, io non sto scrivendo una storia reale, ma sto facendo una forma): la prima parte è un 'blocco politico' imperniato sulla lotta del potere contro l'opposizione comunista; lotta reale, con una tensione reale; la seconda parte è un 'blocco politico' imperniato sulla lotta del potere contro l'eversione fascista: lotta, viceversa, pretestuale, con una tensione pretestuale.

Pasolini sembra anche sapere che il giudice milanese Gerardo D'Ambrosio, indagando su piazza Fontana, ha dovuto giocoforza inciampare sulla morte non proprio accidentale di Vittorio Ambrosini, un avvocato siculo-romano in rapporti con esponenti di destra e di sinistra poiché teorico dell'incontro tra le forze del fascismo rivoluzionario e quelle del socialismo nazionalista (con evidente richiamo ai propositi della Repubblica sociale). Ebbene, librandosi tenacemente in ambienti neofascisti, l'avvocato apprende alcune verità scottanti sugli esecutori materiali della strage di piazza Fontana a Milano e le riferirà ad Achille Stuani, un ex deputato comunista. E Stuani ben conosce Pasolini, è anche tra gli intervistati nel film-documentario 12 dicembre, la contro-inchiesta di Lotta Continua sui fatti di piazza Fontana firmato da Giovanni Bonfanti a cui Pasolini, come vedremo, contribuisce anche economicamente. Sono sue le sequenze alla tomba dell'anarchico Giuseppe Pinelli al cimitero milanese di Musocco, quelle di Carrara, di Milano, di Viareggio – poi tagliate – e di Napoli. Ambrosini verrà “suicidato” a Roma il 20 settembre 1971, precipitando dal quarto piano del policlinico Gemelli in cui è ricoverato, proprio come si legge in Petrolio.
Sappiamo nome e cognome anche di colui che in Petrolio «muore cadendo nella tromba dell'ascensore»: si tratta di Alberto Muraro, un ex carabiniere, portinaio dello stabile padovano in cui abita il terrorista nero Massimiliano Fachini: Muraro si accingeva a confermare al giudice istruttore Carmelo Ruberto la responsabilità del gruppo di Freda e Ventura in alcuni attentati compiuti a Padova poco prima della strage di Milano.
All'appuntamento col magistrato, calendarizzato per il 15 settembre 1969 (tre mesi prima della strage milanese), Muraro non potrà recarsi poiché il 13 settembre viene gettato dal terzo piano nella buca dell'ascensore. Non si avranno autopsie: per gli investigatori si è trattato di “morte accidentale”.
Desta pertanto impressione l'incredibile ricordo di Italo Zaninello, conoscente del Muraro, riportato da Giorgio Boatti nel suo libro Piazza Fontana: «Lo incontrai alle 20.30 davanti alla portineria. Il Muraro dicendomi di essere stato riconvocato dal giudice aggiunse, giacché lo esortavo a dire la verità e a non avere paura; “Hai un bel modo di dire perché tu non ci sei in mezzo. Un giorno o l'altro verrai qui in cerca di me e mi troverai con una legnata in testa in cantina oppure nella buca dell'ascensore”».

Fine del raffronto tra il mio libro e l’articolo di Giovannetti.
Ma anche se andiamo a raffrontare Giovannetti con uno dei miei articoli per L’Antidiplomatico, assistiamo, naturalmente, alla stessa cosa. Scrivo, infatti, nel marzo del 2017 su questo giornale:

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_centro_mondiale_commerciale_ed_il_caso_pasolini__parte_prima/82_19370/

Bene, tirate le somme di quanto fin qui rivelato, possiamo senza dubbio ribadirlo: quel che questa mia inchiesta giornalistica sul Centro Mondiale Commerciale mette in chiaro, è un filo unico tra gli spari di Dallas e la stagione delle stragi iniziata con Piazza Fontana.

È – attenzione – l’identica asserzione che troviamo all’interno d’un’opera sulla quale già avevamo puntato il nostro sguardo: Petrolio di Pasolini. La s’incrocia in un paragrafo al termine d’un racconto, ambientato in Nepal, circa un incontro con un individuo morente e che della Strategia della Tensione conosce i segreti perché ne è stato propagatore diretto: qualcosa di cui, proprio perché alla fine dei propri giorni, vuole, in un’estrema confessione, sgravarsi. Ecco il paragrafo:

Il racconto del morente è in prima persona: lunga storia che comincia in America - omicidio di Kennedy - arrivo in Grecia - fascisti italiani ecc. Il morente racconta ciò che sa: ma anche ciò che è venuto a sapere da altri morenti (tre o quattro) i quali a loro volta, prima di morire, raccontano a lui ciò che sanno. Il morente del Nepal è dunque l’ultimo in ordine di tempo. Sospetto che non sia stato ammazzato dai buoni nepalesi. Comunque egli (metalinguisticamente) insiste a dire che due sono le fasi delle stragi, due, e il narratore lo ripete ai suoi ascoltatori: Due sono le fasi, due 

Sunto schematico che, quando dice «lunga storia che comincia in America - omicidio di Kennedy - arrivo in Grecia - fascisti italiani ecc.», si potrebbe benissimo utilizzare come schema sinottico dell’inchiesta sul Centro Mondiale Commerciale che si sta, tramite questi articoli, qui seguendo. Quella svelataci dalle carte del CMC unite agli altri documenti che via via ho impiegato – della CIA, delle Commissioni parlamentari, degli Atti giudiziari, eccetera – è, infatti, proprio una storia che si snoda a partire dal patto segreto anti-kennediano tra massoneria italiana e massoneria USA. Una storia che passa, pure, per quella dittatura militare installatasi in Grecia nel 1967 e che, qui in Italia, ha, guarda caso, il più robusto, fattivo punto di riferimento nel membro del CMC Giuseppe Pièche. Grecia nella quale Pièche giunge – «arrivo in Grecia» – in un famoso viaggio in cui porta con sé fascisti italiani che, poi, a partire da Mario Merlino, ritroviamo nella Strategia della Tensione.

Ulteriore conferma, in due ulteriori punti. Innanzitutto, nel penultimo paragrafo dello stralcio di Petrolio che stiamo prendendo in considerazione; laddove Pasolini scrive:

Ciò che egli mi raccontò è un breve periodo della recente storia italiana (esattamente sei anni).

L’assassinio di Kennedy si compie nel 1963; la strage di Piazza Fontana è del 1969: sei anni. Esattamente sei anni.

C’è, infine, una Nota lì apposta da Pier Paolo Pasolini. Nota con esplicito richiamo, citandone il cognome, al giudice che per primo istituisce un Processo per la strage meneghina: Gerardo D’Ambrosio.

Fatto anche quest’ulteriore raffronto, aggiungo e concludo: esiste, ad ennesima prova di quanto sto qui esponendo, anche uno scritto di Giovannetti, reperibile al seguente indirizzo, e da lui vergato prima che, per il suo rifiuto ad apporre i bollini SIAE, la trattativa per la pubblicazione dei miei due libri presso la sua Casa editrice andasse a monte:

https://sconfinamento.wordpress.com/2015/12/16/coccodrillo/

Lì, Giovannetti mi cita.

Prova del nove: non esiste prima del mio lavoro, né di Giovannetti né di chicchessia, né articolo né libro che metta in relazione omicidio Kennedy ed omicidio Pasolini. Semplicemente, perché è grazie ai miei documenti esclusivi che tale relazione è emersa.

Ringrazio i lettori de L’Antidiplomatico per l’attenzione, confidando di non dover essere più costretto a dedicare il mio tempo a tal genere di cose, ma di potere, viceversa, concentrarmi solo sulla ricerca della verità su Kennedy, Pasolini, e le stragi.

Buon Natale e Buon 2018 a tutte e a tutti.
 

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