Dall’Iran droni e missili contro il “cane pazzo”

Dall’Iran droni e missili contro il “cane pazzo”

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Il regime sionista, si sa, approfitta del ruolo di vittima perenne per imporre, con la politica dei fatti compiuti e forte del suo ruolo di gendarme degli Usa in Medioriente qualunque violazione dei diritti umani e della legalità internazionale: a cominciare da un’occupazione criminale che, dal 1948, ha espropriato e espulso il popolo palestinese in una successione di massacri, oggi culminati col genocidio che ha ucciso più di 30.000 persone, un terzo dei quali bambini.

Questa volta, però, Netanyahu ha stabilito un altro primato, compiendo un atto di aggressione inedito: l’attacco aereo al consolato iraniano a Damasco, in Siria che, il 1° di aprile, ha ucciso 16 persone, fra cui due generali dei Guardiani della rivoluzione. Un’ulteriore escalation nella provocazione a Teheran, per allargare il conflitto in Medioriente, tirando per la giacca gli Usa e i loro alleati europei - Francia, Gran Bretagna e Germania.  Il governo iraniano ha dichiarato che avrebbe esercitato il proprio diritto all’autodifesa e, il 13 sera, ha fatto partire decine di missili e droni “su dei bersagli specifici all’interno dei territori occupati”: in risposta “ai numerosi crimini commessi dal regime sionista”, nello specifico l’attacco contro la sezione consolare a Damasco. Il mattino di quello stesso giorno, le forze speciali marittime dei guardiani della rivoluzione iraniana si erano impadronite del porta-container Msc Aries, circa un centinaio di chilometri a nord della città emiratina di Foujeyra. Una nave battente bandiera portoghese, ma riconducibile alla società Zodiac che – ha fatto sapere l’agenzia stampa iraniana Irna – “appartiene al capitalista sionista Eyal Ofer”.

Dopo lo schiaffo del 7 ottobre, inflitto dalla resistenza palestinese al regime occupante, il quale ha dato inizio al genocidio programmato da Netanyahu, ci sono stati numerosi attacchi contro navi dirette a Tel Aviv che transitavano nel mar Rosso e nel golfo di Aden o che commerciavano con Israele. Attacchi sempre rivendicati dalle milizie yemenite Houthi, mentre questa volta Teheran ha voluto marcare una risposta simmetrica a un attacco diretto: la prima dal 1948.

Netanyahu e i suoi alleati europei, diretti dagli Usa – Francia, Gran Bretagna e Germania – i cui ambasciatori sono stati convocati da Teheran -, hanno ammesso di aver contrastato direttamente i droni iraniani. Un attacco massiccio ma volutamente dimostrativo che, per essere respinto, secondo il giornale israeliano Yedioth Ahronoth, ha richiesto l’impiego di missili da difesa aerea costati un miliardo di dollari. Gli Stati uniti sono già decisi a compensare “la spesa” con l’invio di nuovi aiuti militari, che i repubblicani maggioritari alla Camera vogliono accelerare.

Aerei statunitensi, britannici e francesi sono decollati dalla portaerei Eisenhower e dalla base aerea di Cipro per intercettare droni iraniani nello spazio aereo iracheno e siriano. I paesi Nato hanno ammesso il loro coinvolgimento diretto, e hanno dichiarato di aver distrutto oltre un quarto delle armi impiegate dall’Iran. Un intervento – hanno detto – richiesto dalla Giordania, alleata degli Usa, che pure ha fatto la sua parte, e che – questo l’avvertimento iraniano – se “continua a cooperare” con Netanyahu sarà “il prossimo obiettivo”.

L’Iran ha diffidato gli Stati uniti, che per ora sembrano intenzionati a tirare il guinzaglio del loro “cane pazzo”, dall’intervenire nel conflitto. Diversamente, vi sarebbero conseguenze per le basi nordamericane nella regione, così come ve ne sarebbero per gli alleati del regime sionista, che morde il freno per trascinare i suoi padrini in un conflitto diretto.

Al segretario dell'Onu Antonio Guterres - che ha parlato di "devastante escalation" -, l’Iran ha poi risposto di aver esercitato "il diritto all'autodifesa", stabilito nell’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite, e ha ammonito Netanyahu a non compiere "altre follie" o la reazione sarà "molto più pesante". Anche Cina e Russia hanno difeso all’Onu il diritto dell’Iran all’autodifesa, mentre i paesi dell’Alba hanno espresso la loro “profonda preoccupazione per l’escalation di violenza in Medioriente”, hanno condannato “una volta ancora il genocidio perpetrato da Israele a Gaza”, e ripetuto l’appello “al Consiglio di Sicurezza Onu, affinché imponga un cessate il fuoco”.

L’Iran – ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Naser Kanani, durante la conferenza stampa settimanale – è una potenza garante della sicurezza, non cerca di sviluppare tensioni nella regione e si attiene alle norme internazionali, e “agirà sempre per dissuadere e castigare qualunque aggressore”. La sua azione, “necessaria e proporzionata, rivolta ad alcuni obiettivi militari del regime sionista, si deve all’inazione del Consiglio di Sicurezza e al comportamento irresponsabile degli Usa e di alcuni paesi europei dopo l’attacco alla sede diplomatica iraniana”.

I media occidentali hanno, però, messo l’accento solo sulla reazione iraniana, occultando l’enormità dell’episodio scatenante sul piano del diritto internazionale, e le sue implicazioni nell’alzare ulteriormente il livello del conflitto. Comunque, pur nell’affanno generale di dimostrare l’efficacia della “risposta di Israele”, è filtrata l’importanza di un’azione “tecnicamente perfetta” condotta da Teheran: sia sul piano organizzativo (i tempi lunghi di avvertimento e gli obiettivi mirati), sia sul piano politico, sia sul piano delle relazioni internazionali, che indicano la ridefinizione di rapporti di forza verso un mondo multicentrico e multipolare.

Sul piano militare, Teheran ha colpito la base aerea israeliana che si trova nel deserto del Negev, la più importante dell’aeronautica, dalla quale sono decollati i droni che hanno ucciso i generali iraniani nel consolato di Damasco. Una risposta analoga era stata diretta contro la base aerea statunitense di al-Asad, in Iraq, dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani.

Il comandante delle Guardie rivoluzionarie iraniane era stato ammazzato all’aeroporto internazionale di Baghdad, nel gennaio del 2020. Un omicidio ordinato dall’allora presidente nordamericano, Donald Trump e compiuto dai missili lanciati da un drone Usa partito da quella base.

Quell’assassinio aveva suscitato un’ondata di sdegno nei popoli del sud, confermando una volta ancora il perché la politica nordamericana abbia prodotto risultati opposti a quelli voluti da Washington, abbia provocato resistenza invece di acquiescenza. Per questo, l’imperialismo Usa impiega poderosi mezzi per costruire una “legittimità” all’intervento militare mostrando al massimo una differenza di “stile” nella sua politica estera, a seconda che governino i democratici o i neo-conservatori. In questo secondo caso, la strategia filo-israeliana dei neo-con apparirà più diretta, com’è accaduto durante le invasioni statunitensi dell’Afghanistan (2001) o dell’Iraq (2003).

Momenti determinanti per comprendere i cambiamenti che si sono determinati nella regione dopo la caduta dell’Unione sovietica, e che riportano alla guerra senza quartiere combattuta fra il comunismo e i rappresentanti del grande capitale internazionale nel secolo scorso. In Afghanistan, la Cia ha cominciato a finanziare operazioni sotto copertura di appoggio all’estremismo islamico contro il governo comunista di Kabul fin dai tempi di Jimmy Carter, nel luglio 1979.

Con l’arrivo di Reagan alla Casa bianca, nel 1981, la Cia incrementò il suo programma di aiuti ai mujaheddin (l’operazione Cyclone), fino a farne “la più lunga e costosa operazione mai intrapresa dal servizio segreto statunitense”. Dopo la caduta di Kabul ad opera dei Talebani, nel 1996, Mohammad Najibullah, il quarto e ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan che aveva applicato un programma di giustizia sociale, venne evirato e squartato vivo per ordine del mullah Omar, e il suo corpo appeso, a monito del Califfato, davanti al palazzo presidenziale.

Con l’invasione dell’Iraq, la strategia filo-israeliana dei neo-con di Bush puntò a debilitare la potenza araba più avanzata, distruggendo il potere e l’identità irachena. All’inizio di quell’aggressione, l’Iran, circondato dalle forze degli Usa e dai loro alleati, sembrava destinato a essere il prossimo bersaglio dei neo-con, votato alla sconfitta. Un insieme di concause oggettive e soggettive – a partire dall’aumento del prezzo del petrolio che seguiva l’andamento della guerra, e poi l’ascesa del potere sciita in Iraq – hanno però consentito all’Iran di uscirne rafforzato, nonostante le sanzioni imposte dagli Usa contro un presunto programma nucleare iraniano.

Anche la Siria, allora presa tra due fuochi (a est, l’esercito Usa, a ovest quello israeliano), e bersaglio di Washington per essersi opposta all’invasione, ha avuto modo di stringere maggiori alleanze con Teheran. La strategia del “caos controllato” con cui gli Usa hanno cercato anche di devastare il Libano per distruggere il movimento Hezbollah, ha avuto come sfondo la questione palestinese e il tentativo di scoraggiare qualsiasi opposizione al regime israeliano, imponendo la “mediazione” nordamericana come unica garanzia. Un tentativo ripreso da Trump, su più vasta scala, con i nefasti Accordi di Abramo, firmati il 15 settembre del 2020.

Eppure, il fatto che il regime sionista non sia riuscito a distruggere Hezbollah nell’estate del 2006, che l’Iran abbia aumentato la propria importanza geopolitica, consolidando quello che viene definito “l’asse sciita”, e che il movimento Hamas sia stato determinante nella resistenza del 7 ottobre, indicano che quella strategia imperialista è destinata al fallimento. Nel contesto di crisi strutturale del capitalismo, e nella “fame” di petrolio e di risorse strategiche determinata dal conflitto in Ucraina, l’imperialismo cerca di mettere in campo nuove prove di guerra dalle conseguenze devastanti. Enfatizzare il “rischio nucleare” che proverrebbe unilateralmente dalla Russia o dall’Iran serve a occultare che, nelle mani del “cane pazzo” al servizio degli Usa ci sono bombe nucleari e che, paesi come l’Italia che servono da portaerei per le aggressioni Nato, sono magazzini di bombe nucleari statunitensi.

Come nel caso del sostegno a Zelensky in Ucraina, i paesi dell’Unione europea svolgono una funzione di supplenza e subalternità ai voleri degli Usa. L’Italia, governata dall’estrema destra di Giorgia Meloni, ha la presidenza pro-tempore del G7, riunito d’urgenza per discutere del “pericolo Iran”. L’aggressione subita da Teheran è passata sotto silenzio, così come sotto silenzio sta passando il genocidio dei palestinesi, in assenza di una vera opposizione parlamentare.

Il Gruppo dei 7 (G7), che a giungo del 2024 si riunisce in Puglia, fa incontrare ogni anno i capi di Stato e di governo delle principali economie capitaliste che lo compongono: Stati uniti, Giappone, Germania, Regno unito, Francia, Italia e Canada. Dal 1975, anno in cui è stato formato e il 2000, è passato dal rappresentare il 70% del Pil mondiale a rappresentarne il 55%. Concentra circa il 10% della popolazione mondiale e il 65% del commercio mondiale, ma la sua importanza è chiaramente messa in questione dal sorgere di un nuovo mondo multicentrico e multipolare. A partire dal 1981, l’Unione europea, a sua volta prona ai voleri Nato, è considerata come “un ottavo membro”.

Al G7 in Puglia, Meloni ha invitato il “pazzo con la motosega”, ovvero il presidente argentino, Javier Milei, di cui apprezza il programma “libertariano”, il quale ha in agenda una riunione in Germania con il cancelliere Olaf Scholz, a Parigi con il suo omologo Emmanuel Macron e in Ucraina con Volodymyr Zelensky.

Intanto, una Roma blindata ha ospitato una conferenza internazionale per celebrare i 75 anni della Nato, di cui l’Italia è uno dei paesi fondatori, e per discutere della nuova agenda di guerra euroatlantica. Il clima è di massima allerta per il timore di attentati, mentre diverse organizzazioni popolari hanno convocato manifestazioni di protesta.

A seguito del genocidio dei palestinesi, e contro l’alto costo della vita dovuto alle scelte dei governi capitalistici che subordinano agli interessi del complesso militare-industriale la difesa dei diritti e delle garanzie, fuori dai luoghi istituzionali sta crescendo un movimento di protesta in tutta Europa. Manifestazioni che si scontrano con la repressione e la censura che, in Germania ma anche in Francia, ha raggiungo insopportabili livelli di isteria.

Il governo tedesco, che il Nicaragua ha denunciato alla Corte Internazionale di Giustizia per complicità nel genocidio di Gaza e per essere il secondo fornitore di armi al regime israeliano dopo gli Usa, ha proibito un convegno sulla Palestina che si sarebbe dovuto tenere a Berlino. Seppur composto da socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ha da tempo mostrato la sua natura liberticida, guerrafondaia e colonialista, arrivando persino a impedire l’ingresso nel paese dell’economista greco Yanis Varoufakis, che non ha potuto parlare neanche in videoconferenza.

(Articolo scritto per Cuatro F)

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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