Dove va l'Italia del Forum Ambrosetti?

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di Nico Santarelli - Contropiano

In questi giorni si è parlato spesso del Forum Ambrosetti, per la decisione da parte del questore di Como di proibire la manifestazione indetta da USB a Cernobbio, in occasione del summit finanziario. Divieto a cui il sindacato e vari altri soggetti hanno giustamente risposto con un corteo nel capoluogo comasco.

La denuncia del saldarsi della questione sociale e di quella democratica, con i manager e la classe dirigente che, di fronte al proprio fallimento, vogliono impedire qualsiasi espressione di dissenso, è uno dei due lati che emerge da questa vicenda. L’altro è il quadro delineato nel dibattito stesso del Forum.

Ognuna delle tre giornate ha avuto un tema centrale: la prima l’andamento generale dell’economia, la seconda il ruolo dell’UE, la terza le prospettive italiane. Fare un punto delle conclusioni per ciascuna delle sessioni risulta assai utile, andando a ritroso.

Dopo le voci dell’opposizione parlamentare, che ha ovviamente ripetuto la solita litania che sconfessa ogni volta che si trova a governare, ha parlato in pratica metà del governo. Undici ministri (e Tajani il giorno precedente), che hanno dato le coordinate che segue l’esecutivo.

È bene sottolineare alcune delle riflessioni. Piantedosi ci ha ricordato che l’immigrazione clandestina è molto apprezzata dal sistema produttivo, per le opportunità di competitività – ovvero di ricatto salariale – che offre. C’è però da confrontarsi col problema integrazione, e il corollario è dunque la ricerca di un «equilibrio» con i tagliagole a cui esternalizzare i confini.

A Valditara è stato chiesto come si forma il capitale umano futuro, e la sua risposta è stata di piegare ulteriormente la formazione al mercato, in virtù della competitività. Mantra ribadito anche dalla ministra Calderone, che ha ripetuto che il salario minimo non è un obiettivo della legislatura.

Salvini è tornato a parlare di nucleare e, infine, Giorgetti ha rassicurato i mercati dopo la tassa sugli extraprofitti, confermando che l’esecutivo rispetterà i vincoli di bilancio europei. L’unica richiesta è stata di scorporare le spese per l’aiuto all’Ucraina, poiché la guerra euroatlantica va portata avanti.

Nel corso della seconda giornata le premesse del discorso del ministro dell’Economia erano state messe da Gentiloni, il Commissario UE all’Economia. Egli aveva infatti ribadito come per la fine dell’anno il Patto di Stabilità sarebbe stato riattivato.

Per l’ex presidente del consiglio italiano gli aiuti di stato, per quasi l’80% assorbiti da Germania e Francia, non sono lo strumento adatto per ottenere competitività. Non certo per mettere in dubbio tale gerarchia continentale, ma perché ne vanno pensati alcuni più «europei», a conclusone del Next Gen EU.

A fargli eco è stato il ministro degli Esteri Tajani, il quale ha affermato che “serve una vera politica industriale della Ue che punti a un sistema di concorrenza globale”. Dunque, ritorno ai vincoli fiscali, investimenti decisi a livello centrale e completamento dell’unità bancaria.

A complemento di ciò serve allargare lo sguardo all’Africa, ai Balcani e all’America Latina, per trovare le risorse e i mercati adatti a competere con Russia e Cina. Ovviamente, senza “apparire predatori o neocolonizzatori”… ma solo apparire, la sostanza è quella.

L’ultimo tassello di questo discorso è fare passi avanti sulla difesa comune, elemento cardine anche per Josep Borrell, il fautore del “giardino europeo contro la giungla”. L’alto rappresentante Ue per la politica estera vi ha posto accanto altri cinque nodi.

Portare l’Ucraina alla vittoria; ricalibrare l’approccio alla Cina secondo gli interessi UE; gestire l’emergere dei Brics – ovvero di un mondo multipolare –; ripensare il proprio concetto di sicurezza; allargarsi e passare, infine, a un sistema di voto a maggioranza qualificata. Tappe che mirano, ancora una volta, ad assumere un ruolo strategico proprio sullo scenario internazionale.

Ma la UE ha grossi problemi, a partire dai fondamenti dell’economia. La prima giornata, seppur non solo su questo tema, ha dato molto spazio alle difficoltà del modello produttivo comunitario, e sul peso dell’inflazione e delle politiche della BCE per contrastarla.

Molti economisti pensano a una pausa nel rialzo dei tassi su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma gli indicatori europei sono meno rosei di quelli statunitensi. L’irrigidirsi dell’accesso a finanziamenti per l’investimento è la preoccupazione di tanti imprenditori presenti a Cernobbio, mentre la recessione diventa sempre più una realtà concreta.

Mandare in crisi l’economia per rallentare la corsa inflattiva mostra già quanto le teorie dominanti siano oggi illogiche e criminali, ma per di più il risultato atteso è ancora ben lontano. Per questo Enrico Marchi, presidente di Banca Finint e di Save, l’aeroporto di Venezia, ha detto che “l’importante è non fissarsi sul feticcio dell’inflazione al 2%”.

Nei palazzi europei devono pensare, dice l’ad di Edison Nicola Monti, che la transizione green farà alzare i prezzi della costruzione dei nuovi impianti, e bisogna perciò ragionare sul lungo periodo. Ma a Francoforte non tutti la pensano allo stesso modo.

Isabel Schnabel, del board esecutivo della BCE, appena qualche giorno fa ha sottolineato che, nonostante l’attività manifatturiera sia crollata a livelli tipici delle recessioni profonde, non si può sapere se non saranno necessari ulteriori aumenti dei tassi. Nonostante la stabilità dei prezzi verrebbe scambiata con un atterraggio brusco dell’economia continentale.

Ad ogni modo, non si prevede di raggiungere il target sull’inflazione prima del 2025. Fino ad allora, tutti i costi verranno scaricati sui settori popolari, come anche al Forum Ambrosetti tutti hanno implicitamente confermato.

Per questo serve sostenere e firmare la proposta di salario minimo di Unione Popolare, sul piano immediato del conflitto capitale-lavoro, e costruire un largo e autonomo fronte di opposizione sociale e politica nelle piazze alle politiche governative. Questo autunno ci pone questi come obiettivi.

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