Euro e Germania: le sette bufale ricorrenti dei media
Pubblichiamo un articolo del 2011 di Vladimiro Giacché apparso sul Fatto Quotidiano. In quell'occasione l'economista autore di Anschluss smascherava le sette principali bufale su Germania e euro riportate dal governo tedesco e spesso dalla stampa nostrana. E' interessante riproporlo oggi perché dopo quasi sei anni le "fake news" dei media in tema restano sempre le stesse, come dimostra da ultimo questo delirante articolo di Galli e Cadogno su il Sole 24 Ore.
di Vladimiro Giacché - Il Fatto Quotidiano, 27 Dicembre 2011
1) L’euro ha privato la Germania del marco e la convivenza con valute più deboli è stata un handicap. Secondo Frank Mattern, capo di McKinsey in Germania, è vero il contrario: “La Germania con l’euro ha guadagnato moltissimo”. Negli ultimi dieci anni un terzo della crescita dell’economia tedesca è dovuto all’euro (165 miliardi di euro nel solo 2010). I motivi principali: fine dei costi di transazione e di assicurazione contro il rischio di cambio; crescita del commercio intraeuropeo; e crescita delle esportazioni tedesche proprio per il fatto che l’euro è una valuta più debole di quanto sarebbe stato il marco (il contrario vale per la lira). Inoltre l’euro ha abbassato molto i tassi d’interesse dei Paesi periferici portandoli al livello di quelli tedeschi, con conseguente incremento dei consumi in quei Paesi, a beneficio dell’export tedesco. Il saldo della bilancia dei pagamenti della Germania – in rosso al momento dell’introduzione dell’euro – è cresciuto nel decennio del 41 per cento, sino a 1. 021 miliardi di euro (dati Eurostat).
2) La maggiore competitività della Germania è dovuta al fatto che i tedeschi lavorano più degli altri. I tedeschi non lavorano più degli altri: in Italia ogni lavoratore lavora 1.711 ore, in Germania 1.419. Ma in Italia l’età media degli impianti industriali è di 26 anni, mentre gli investimenti in tecnologie hanno molto accresciuto la produttività dei lavoratori tedeschi. Poco però dei guadagni si è trasferito ai salari: dal 2000 in termini reali i salari tedeschi sono diminuiti del 4,5 % (caso unico nella zona euro). Ciò ha depresso la domanda interna, ma ha spinto le esportazioni. Soprattutto in Europa: l’80 per cento del surplus commerciale tedesco è interno all’Unione europea.
3) La Germania ha i conti in ordine. La Germania ha più volte sforato il tetto del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. Questo è avvenuto già prima della crisi, dal 2003 al 2005. All’epoca, però, la Commissione europea decise di non agire su pressione della stessa Germania (e anche della Francia, che aveva problemi simili). Dopo lo scoppio della crisi la Germania ha poi messo in campo il maggior piano di stimoli per l’economia realizzato in Europa, pari al 3 per cento del suo Pil. Inoltre, dal 2008 ad oggi, ha speso 93 miliardi di euro per salvare le sue banche. Anche lo scorso anno il deficit è stato del 3, 3 per cento, nonostante il peso molto inferiore degli interessi sul debito rispetto alla gran parte degli altri Paesi europei, mentre il rapporto debito/Pil è salito all’ 83 per cento (il tetto di Maastricht è il 60%).
4) La Germania ha pratiche fiscali trasparenti. Secondo stime attendibili, il 40 per cento del debito pubblico tedesco è allocato presso fondi speciali, il cui deficit non figura nel bilancio federale. Per fare un esempio, gli incentivi per la rottamazione, uno dei cardini del sostegno all’industria automobilistica tedesca, non sono stati posti a carico del bilancio dello Stato ma del fondo pubblico ITF, e sono stati giustificati come investimenti per le tecnologie verdi anche se in realtà erano un sussidio ai consumi interni. In questo modo tra il 2009 e il 2011 il governo tedesco ha fatto passare come investimenti ben 20 miliardi di euro di spese a sostegno dell’economia.
5) Anche la Germania sta pagando la crisi del debito, per questo vuole mettere ordine. La caduta della domanda interna nei Paesi europei colpiti dalla crisi del debito ha fatto diminuire le esportazioni tedesche verso questi Paesi, e secondo Patrick Artus di Natixis ciò ha comportato una minore crescita del Pil dell’ 1,5 per cento. Ma la fuga verso i titoli di Stato tedeschi ne ha abbassato gli interessi di oltre il 2 per cento, con un risparmio per lo Stato tedesco di quasi un punto di Pil (0, 9 per cento). La crisi ha comportato anche un significativo deprezzamento dell’euro (-17 per cento circa), con conseguente crescita del volume delle esportazioni extraeuropee del 2,4 per cento: un altro 0,8 per cento di prodotto interno lordo guadagnato. Fatte le somme, il saldo della crisi per la Germania per ora è positivo, sia pure in misura contenuta: lo 0,2 per cento del Pil per il 2011. A questo va aggiunto che le aziende tedesche oggi possono procurarsi prestiti a tassi significativamente inferiori a quelli delle imprese italiane, spagnole, francesi.
6) Per la Germania è inaccettabile che l’Unione europea diventi un’Unione di trasferimenti (Transferunion). È inaccettabile per Angela Merkel, ma non per la SPD. Il capogruppo SPD al Bundestag, Frank-Walter Steinmeier, in un’intervista allo Spiegel ha sostenuto che trasferimenti di ricchezza in Europa avvengono da tempo, ma dal Sud verso il Nord, grazie alla maggiore competitività della Germania, e che servirebbero oggi trasferimenti anche in direzione opposta, proprio per evitare che gli squilibri tra i Paesi facciano saltare l’euro.
7) In Germania l’argomento che Hitler abbia preso il potere dopo l’iperinflazione degli anni Venti impedisce di accettare l’idea di una Bce libera di muoversi, per timore che crei inflazione. Se la Bce accettasse di sostenere illimitatamente i titoli di Stato europei, non si avrebbe una forte inflazione. Negli Usa, dove la Fed ha comprato Buoni del tesoro per oltre 1.600 miliardi di dollari, l’inflazione è intorno al 3, 5 per cento. Inoltre, a portare Hitler al potere non è stata l’inflazione del 1923. Sono state le politiche deflazionistiche dei primi anni Trenta, attuate – in Germania e altrove – proprio per paura dell’inflazione. Lo storico Richard Overy le ha descritte così: “I politici cercarono di evitare qualsiasi cosa che minacciasse la stabilità della moneta e dei bilanci in pareggio. In Francia lo Stato perseguì una rigida politica monetaristica sino al 1936, riducendo gli stipendi dei funzionari pubblici e dei dipendenti dello Stato e tagliando le spese per la difesa e l’assistenza sociale. Nella Germania del 1932 si ebbe una serie di tagli forzosi sui salari pubblici, sulle rendite e sulle pensioni”. (Crisi tra le due guerre mondiali. 1919-1939, Il Mulino). Vi ricorda qualcosa?
Il Fatto Quotidiano, 27 Dicembre 2011