Facebook down: prove tecniche di dittatura

Facebook down: prove tecniche di dittatura

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Ieri Facebook, WhatsApp e Instagram sono andate giù in tutto il mondo, riportando milioni (miliardi) di utenti ai tempi della pietra, ai segnali di fumo, ai tam-tam e ai tazebau.

Il mondo si è fermato, appena il tempo di riscoprire che L’SMS funzionava ancora, che era efficiente come prima, anche se non adatto a trasmettere meme e tiktok comedy.

Internet si è fermata. I più assatanati hanno tirato fuori i telecomandi e acceso vecchi televisori “no HD” – c’erano gli exit-poll.

Eppure tutto il resto funzionava. L’Ansa era raggiungibile. La Reuters era raggiungibile. Ap era raggiungibile. Signal funzionava. Persino Telegram funzionava. Funziona Twitter, Bing, Teams, gmail.

Se abbiamo avuto la sensazione – che è stata più di una sensazione – che internet non funzionasse è perché alcune capitalisti fanno di tutto per far passare le loro app, le loro aziende, i loro servizi, come internet.

Internet non è Facebook. Internet non è Google. Anche se ormai quasi nessuno sa più che cos’è un URL, e come si raggiunge un sito. Bisogna passare per Facebook, bisogna passare per Google, come se fossero (e non lo sono) le porte di acceso a internet, i controllori dell’accesso. Ma non lo sono.

Nel 1969 la DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), un Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, responsabile dello sviluppo di nuove tecnologie ad uso militare, realizza ARPANET, una rete di computer capace di resistere ad un attacco nemico.

Si pensava che un attacco con una bomba lanciata contro il tradizionale sistema di comunicazione, avrebbe potuto mettere in ginocchio il paese.

I sistemi di comunicazioni allora in uso, sia militare che civile, funzionavano tramite una serie di terminali collegati a una o poche unità centrali di controllo. Erano stati progettati come una rete idrica. Come da un acquedotto centrale, si diramavano una serie di connessioni centrali e periferici che raggiungevano ogni casa. Sarebbe stato sufficiente colpire, con un solo attacco mirato, l’acquedotto centrale, per lasciare a secco tutta la popolazione.

L’obiettivo dei militari era progettare e costriere una rete decentrata, dove ogni cliente (client), fosse anche e contemporaneamente grossomodo un punto di rifornimento (un server).

Nel 1973, questa tecnologia militare implementa uno standard di trasmissione dei dati «a pacchetti» interamente coerente con la filosofia decentrata di comunicazione (TCP/IP). I messaggi inviati sono divisi in pacchetti, ogni pacchetto è sparato nella rete, e raggiunge la sua destinazione autonomamente, seguendo anche percorsi alternativi.

Il pacchetto produce la sua strada, genera la mappa, una mappa che non è conosciuta preventivamente. Ciò che è noto è la destinazione, e non la strada per arrivare a segno.

Tutto questo progetto, non c’è bisogno di dirlo, mirava a prevenire un attacco militare atomico. Come non c’è bisogno di dire che esso sconfessava anni e anni di filosofia critica e esistenzialista (Adorno e Heidegger) e soci (Schmitt), che vedevano nella bomba atomica (o nel totalitarismo illuminista e tecnologico) l’azzeramento della comunicazione, la fine stessa della vita.

Ecco, internet era stata costruita per difendersi da questa cosa e da questa filosofia lugubre.

Nel 1974 Arpanet diventa Internet. Non a torto in molti ci videro la fine di un’epoca. La fine di quell’oscurantismo romantico nato come reazione ai disastri della prima guerra mondiale.

Nel primi anni del nuovo millennio il capitalismo comincia a impossessarsi di internet. Costruisce dei portali di accesso, convogliando, con promesse di felicità e di gratuità, milioni e miliardi di consumatori su uno stesso canale.

Si decostruisce Internet. La si trasforma in un mezzo tradizionale di comunicazione. Con un punto centrale a cui sono connessi miliardi di clienti. Una volto colpito il punto centrale tutto crolla in un attimo, come si pensava avrebbe fatto un attacco con un missile a testata nucleare.

Non meraviglia nemmeno che questa manovra capitalistica abbia dato nuovo fiato alle trombe di quei filosofi patibolari che vedono il “totalitarismo” dove invece c’è il capitalismo.

A crollare, ieri, non è stato internet, a crollare è stato un servizio di una azienda che fa profitti. Una azienda che, per sua natura, accentra la produzione e la distribuzione.

Non è la tecnologia che ci ha silenziati, è il capitalismo che ci ha ammutoliti. È il capitalismo che è accentratore, monopolista, totalitario.

Leo Essen

Leo Essen

Ha studiato all’università di Bologna con Gianfranco Bonola e Manlio Iofrida. È autore di Come si ruba una tesi di laurea (K Inc, 1997) e Quattro racconti al dottor Cacciatutto (Emir, 2000). È tra i fondatori delle riviste Il Gigio e Da Panico. Scrive su Contropiano e L’Antidiplomatico.

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