La Nato e il «golpe» turco. L'analisi di Manlio Dinucci

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La Nato e il «golpe» turco. L'analisi di Manlio Dinucci

 
di Manlio Dinucci, il manifesto 19 luglio 2016
 
Erdogan in fuga che vola sull’Europa alla ricerca di un governo che gli conceda l’asilo politico, i golpisti ormai al potere perché occupano la televisione e i ponti sul Bosforo, Washington e le capitali europee, perfino la Nato, colte di sorpresa dal golpe: queste le prime «notizie» dalla Turchia. Una più falsa dell’altra. 
 
Emerge anzitutto il fatto che, pur nella sua tragicità (centinaia di morti e migliaia di arresti), quella in Turchia si presenta come la messinscena di un colpo di stato. I golpisti non cercano di catturare Erdogan, ufficialmente in vacanza sul Mar Egeo, ma gli lasciano tutto il tempo per spostarsi. 
 
Occupano simbolicamente la televisione di stato, ma non oscurano le emittenti private filogovernative e Internet, permettendo a Erdogan di usarle per il suo «appello al popolo». Bombardano simbolicamente il parlamento di Ankara, quando è vuoto. 
 
Occupano i ponti sul Bosforo non in piena notte, ma in modo plateale la sera quando la città è affollata, mettendosi così in trappola. Non occupano invece le principali arterie, lasciando campo libero alle forze governative. 
 
L’azione, pur destinata al fallimento, ha richiesto la preparazione e mobilitazione di migliaia di uomini, mezzi corazzati e aerei. Impossibile che la Nato fosse all’oscuro di ciò che si stava preparando.
 
 In Turchia c’è una rete di importanti basi Nato sotto comando Usa, ciascuna dotata di un proprio apparato di intelligence. 
 
Nella gigantesca base di Incirlik, da cui opera l’aviazione statunitense e alleata, sono depositate almeno 50 bombe nucleari Usa B-61, destinate ad essere sostituite dalle nuove B61-12. 
 
A Izmir c’è il Comando terrestre alleato (Landcom), ossia il comando addetto alla preparazione e al coordinamento di tutte le forze terrestri della Nato, agli ordini del generale Usa Darryl Williams, già comandante dello U.S. Army Africa a Vicenza. Il quartiere generale di Izmir è stato visitato alla fine di giugno dal nuovo Comandante supremo alleato in Europa, il generale Usa Curtis Scaparrotti. 
 
Oltre ai comandi e alle basi ufficiali, Usa e Nato hanno in Turchia una rete coperta di comandi e basi costituita per la guerra alla Siria e altre operazioni. 
 
Come ha documentato anche un’inchiesta del New York Times, nel quadro di una rete internazionale organizzata dalla Cia, dal 2012 è arrivato nella base aerea turca di Esenboga un flusso incessante di armi, acquistate con miliardi di dollari forniti dall’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo, che sono state fornite attraverso il confine turco ai «ribelli» in Siria e anche all’Isis/Daesh. 
 
Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), migliaia di combattenti islamici sono affluiti nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. 
 
È quindi del tutto falsa la «notizia», diffusa in questi giorni, che Washington non gradisce un alleato come Erdogan perché questi sostiene sottobanco l’Isis/Daesh. 
 
Ancora non ci sono elementi fondati per capire se c’è, e in quale misura, una incrinatura nei rapporti tra Ankara e Washington e soprattutto quali ne siano i motivi reali. Accusando  Fethullah Gulen, residente negli Usa dal 1999 e alleato di Erdogan fino al 2013, di aver ispirato il golpe, e richiedendone l’estradizione, Erdogan gioca al rialzo, per ottenere dagli Usa e dagli alleati europei maggiori contropartite per il «prezioso ruolo» (come l’ha definito Stoltenberg il 16 luglio) della Turchia nella Nato. 
 
Intanto Erdogan fa piazza pulita degli oppositori, mentre la Mogherini avverte che, se usa la pena di morte, la Turchia non può entrare nella Ue, poiché ha firmato la Convenzione sui diritti umani.

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