Strage della Aluminium: ritorna lo stesso fuoco della TyssenKrupp, quello del profitto omicida

Strage della Aluminium: ritorna lo stesso fuoco della TyssenKrupp, quello del profitto omicida

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a cura di Adriana Bernardeschi, direttrice di “Futura Società”

 

La spaventosa esplosione e il conseguente incendio dello scorso 20 giugno alla storica fabbrica Aluminium di Bolzano (130 operai), che ha causato la morte di un operaio mentre altri sette sono ricoverati in ospedale in condizioni critiche e con gravissime ustioni, ci riporta alla mente l’incendio alla ThyssenKrupp di Torino del 6 dicembre 2007, dove rimasero uccisi sette operai, divorati dalle fiamme per uno “straordinario” notturno pagato meno di 10 euro l’ora. Giuseppe Morese, che oggi intervistiamo, nel 2007 lavorava come operaio proprio alla ThyssenKrupp di Torino, amico e collega dei sette operai bruciati vivi, si salvò dalla morte per puro caso. È stato militante Fiom-Cgil, oggi è con noi nel Movimento per la Rinascita Comunista, e pensiamo che la sua voce sia la più adatta per affrontare il tragico tema della strage perpetua sui luoghi di lavoro.

Caro compagno Morese, il terribile incidente alla Aluminium di Bolzano di pochi giorni fa ci ha fatto tornare alla mente la tragedia della ThyssenKrupp del 2007, che tu hai vissuto direttamente. Come possiamo analizzare e ricercare le cause della mattanza ininterrotta sui luoghi di lavoro, e quale dovrebbe essere la reazione dei lavoratori e dei comunisti in primo luogo?

Anch’io di fronte a questo ennesimo massacro ho sentito risuonare dentro l’incidente della TyssenKrupp. Molte sono le disgraziate analogie. Ma prima di ogni altra cosa fammi esprimere le condoglianze più sincere alla famiglia e ai cari di Bocar Diallo, 31 anni, di origine senegalese, morto all’ospedale di Verona con quasi il 60% di ustioni in tutto il corpo e con le immani sofferenze che questo comporta. Mi sento vicino ai famigliari e ai cari di questo lavoratore perché ho vissuto il dolore senza fine delle famiglie dei miei sette colleghi e amici morti alla ThyssenKrupp, un dolore che si è fatto via via nel tempo sempre più straziante di fronte alla verità di morti avvenute per uno “straordinario” notturno di pochi euro e di fronte all’impunità dei padroni della ThyssenKrupp, che sono riusciti a sfuggire alla legge pur di fronte alle loro terribili colpe oggettive, al fatto che hanno mandato alla morte sette operai per aver voluto risparmiare, in modo criminale, sui sistemi di sicurezza. Si è trattato di un omicidio plurimo colposo, quello di Torino, e nessuno dei padroni ha pagato veramente. Pagano solo gli operai, e sulla scorta di questa “sacra” impunità i comunisti, i sindacati, i lavoratori, i cittadini di Bolzano, la magistratura, tutti sono chiamati a smascherare le colpe, colpe oggettive, legate ai processi generali di produzione e allo stato di funzionalità dei macchinari, questioni che competono solo ai dirigenti dell’azienda, mentre sarebbe ora che competessero anche agli operai, a un nuovo potere operaio in fabbrica. Non vorrei che, alla fine, la colpa ricadesse sugli stessi sei lavoratori che sono intervenuti dopo l’esplosione e che il fuoco ha divorato.

Voglio ricordare i nomi dei primi sei operai bruciati nell’esplosione di Bolzano: oltre Bocar Diallo, che purtroppo non ce l’ha fatta, Aboubacar Djette, Mor-Diarra Mboup, Sokol Hyseni, Artan Vila e Oussama Benyahya (il più giovane ha 25 anni e il più “anziano” 48). Tre senegalesi, due albanesi, un tunisino. Tutti stranieri, tutti fuggiti da qualche parte difficile del mondo per trovare la schiavitù, lo sfruttamento, il caporalato e la dura ingiustizia sociale occidentale. Possiamo non ricordare, anche a partire dall’inferno della Aluminium di Bolzano, la morte di Satnam Singh, lo schiavo indiano che lavorava per due ore l’ora, martirizzato e umiliato dal caporalato dell’agro pontino, Satnam il cui braccio gettato nella polvere dagli schiavisti italiani per sempre dovrebbe alzarsi e indicare la strada della lotta e del riscatto degli immigrati, dei contadini, degli operai e dei lavoratori, italiani e stranieri? Possiamo non ricordare che Renzo Lovato, il padre del “datore di lavoro” di Satnam Singh, Antonello Lovato, era già da cinque anni indagato per caporalato e, dunque, per sfruttamento schiavistico, dalla Procura di Latina? E che questa protezione da parte del potere (del potere capitalistico) è la stessa che ha salvato dall’ergastolo i padroni della ThissenKrupp, colpevoli, almeno per la classe operaia, di omicidio plurimo per l’incendio del dicembre 2007?

I primi rilevi relativi all’esplosione avvenuta alla Aluminum di Bolzano ci dicono che essa è avvenuta durante la fase di colatura e raffreddamento dell’alluminio fuso in uno stampo e che lo scoppio è stato di tale potenza da far credere che sia stato generato dal contatto tra acqua e alluminio: forse per un malfunzionamento del forno, forse per un errore umano. Lo ha affermato, peraltro, Giuseppe Pelella, segretario regionale della Uilm, che ha parlato di una possibile “anomalia nel forno”, ai segnali della quale sarebbe accorsa la squadra di operai, investiti dall’esplosione causata dal contatto fra acqua e metallo.

Un “malfunzionamento”, si dice: una parola quasi gentile per descrivere un passaggio difficile di un processo produttivo che se non controllato minuziosamente, se non “curato” da una manutenzione volta alla difesa di di esseri umani che lavorano, e non lasciato alla consapevole incuria del profitto, diventa un atto delinquenziale, lo stesso atto che ha determinato l’incendio della ThissemKrupp e, ora, l’esplosione della Aluminuim.

Ora, dobbiamo attendere le conclusioni dell’inchiesta (che dovrebbe essere accompagnata, per tutto il tempo, se vogliamo che finalmente vinca la giustizia proletaria, dalla mobilitazione operaia e popolare, una mobilitazione che vada ben la di là dello sciopero, giusto, di quattro ore, proclamato dai sindacati confederali per il 24 giugno), ma anche in questo caso, come nel caso della ThyssenKrupp, è davvero difficile non pensare a un deficit delle misure di controllo durante i passaggi più “violenti” dei processi produttivi, quando aumenta il pericolo per gli operai e quindi il livello di protezione dovrebbe essere più alto. D’altra parte, questa nostra linea interpretativa non nasce certo da un pregiudizio: anche se la morte operaia non crea memoria, dovremmo ricordarci tutti dei sette operai morti lo scorso 9 aprile all’interno della Enel Green Power di Bargi, in provincia di Bologna, dove l’acqua sotterranea, per il cedimento delle strutture, ha travolto gli operai annegandoli. E certo dovremmo avere sempre presente che nel nostro Paese, nei primi 5 mesi del 2024, ci sono stati oltre quattrocento morti sul lavoro. In Italia tre operai al giorno muoiono per infortuni sul lavoro, e nel primo trimestre 2024 ci sono state circa 146mila denunce per infortunio all’Inail. Se durante le nostre grandi lotte, le lotte operaie degli anni ’60 e inizio anni ’70, quando occupavamo le fabbriche e le piazze, con la grande Fiom-Cgil di allora, col grande Pci di allora, con l’ampio movimento comunista, operaio e studentesco di allora, quando si lottava non solo per il salario, ma pensando alla trasformazione sociale, persino al socialismo, qualcuno ci avesse detto che, sessant’anni dopo, ancora, nelle fabbriche e nei cantieri, gli operai sarebbero morti come mosche per salari ancora da fame e in contesti produttivi segnati da una caduta verticale dei sistemi di protezione, avremmo davvero fatto fatica a crederlo.

Come ti spieghi tutto ciò?

Partendo da ciò che certo non è la causa scatenante (poiché la causa originaria di tutto – dalle tante morti “bianche” ai salari da pura sopravvivenza, passando per lo sfruttamento bestiale dell’esercito industriale di riserva dell’immigrazione – trova le proprie basi materiali su di un cambiamento dei rapporti di forza sfacciatamente favorevole ai padroni), ma che certo è uno dei segni più probanti degli odierni rapporti di classe e comunque quello più legato alle morti operaie della ThyssenKrupp, della Enel Green Power, della Aluminum: circa trent’anni fa fu introdotto anche in Italia un sistema di organizzazione produttiva che prese il nome di “toyotismo”, un sistema messo in campo in Giappone, presso la Toyota, tra gli anni ’50 e ’70, che partiva dall’idea di “fare di più con meno”, di utilizzare le risorse disponibili nel modo più produttivo possibile, aumentando drasticamente la produttività nelle fabbriche e nelle aziende. Un metodo, quello toyotista, che non entrò nelle fabbriche italiane fino a che il movimento operaio era forte politicamente e socialmente, ma che sfondò appena le forze comuniste, di sinistra e sindacali, tra gli anni ’70 e ’80, iniziarono a perdere la loro natura di classe. Il toyotismo entrò dapprima nei cantieri navali e lì si iniziarono ad abbattere, innanzitutto, i sistemi di protezione dagli infortuni, “troppo costosi” per i cantieri privati e poi persino per la Fincantieri. Assieme all’abbattimento dei sistemi di protezione si innalzarono i ritmi di lavoro e si allargò il tempo totale della produzione, cosicché i sabati, le domeniche, i notturni divennero nuovi e “normali” tempi di produzione. Il sistema toyotista, a cominciare dai cantieri navali, alzò immediatamente il livello delle morti e degli infortuni tra gli operai, innalzò, in tempi non lunghi, il numero dei casi di cecità tra i saldatori e di sordità tra chi lavorava con i martelli pneumatici, innalzando il livello di malattie polmonari tra chi utilizzava, in tempi sempre più rapidi e senza più riposo, le vernici per gli scafi e le stive. Il toyotismo, poi, nelle sue diverse forme, penetrò nelle fabbriche, nei cantieri edili e in tanti altri luoghi della produzione, Alla ThyssenKrupp, anche senza averli teorizzati, dagli anni ’80 sino al massacro del dicembre 2007, i tempi rapidi e ossessivi del toyotismo giunsero a segnare ogni fase della produzione, segnata dalla destrutturazione sempre più profonda dei sistemi di protezione operaia. I miei sette compagni bruciati vivi tra le fiamme della linea 5, dove non era stato sostituito, per salvaguardare il profitto tedesco, il sistema antincendio all’interno del processo produttivo di quella linea, trovarono in questo contesto la loro morte.

Dunque il toyotismo, a tuo e nostro avviso, non è la causa dell’arretramento operaio, sebbene sia un suo segno indiscutibile. Da dove viene, dunque, la sconfitta operaia?

Viene dallo snaturamento e poi dall’autodissoluzione del Pci, che trascinò con sé la Cgil trasformandola pian piano in quel sindacato dei servizi che è oggi, tutto dedito al lavoro di patronato, alla stesura delle dichiarazione dei redditi, senza più lotta di classe. Gli stessi referendum che la Cgil ha lanciato sono una stravaganza: il sindacato operaio conduce le lotte, non raccoglie firme per i referendum. Nel merito, i referendum della Cgil sono giusti, ma come si fa a lanciarli all’interno di rapporti sociali e politici così tanto sfavorevoli al movimento operaio? Non c’è persino il rischio, elevato, di perderli, questi referendum, nel contesto dato? Di perderli, sotterrando le stesse, sacre, questioni referendarie? E non è, invece, il cambiamento, attraverso le lotte, dei rapporti di forza a favore della classe operaia, l’obiettivo che dovrebbe perseguire la Cgil, assieme alle lotte per il salario, per il contratto di lavoro, per prevenire le morti e gli infortuni? Pochi, poi, sembrano consapevoli di quanto sia cambiato il quadro politico e sociale generale italiano dopo la fine del Pci. Occhetto che uccide in modo opportunista, “per seguire i tempi” il Pci proprio nella fase della caduta del Muro di Berlino, della fine dell’Unione Sovietica e della firma del Trattato di Maastricht, con l’inizio della violenza neoliberista dell’Ue, fa proprio l’esatto contrario di ciò che andava fatto rispetto al nuovo mondo che si affacciava, quello delle infinite guerre imperialiste e dell’attacco capitalista in ogni paese, compresa l’Italia. Occhetto doveva, cioè, rafforzare il Partito Comunista, trarlo fuori dalle proprie derive moderate rilanciandolo nella lotta, e invece l’ha sotterrato, facendo il più grande regalo al grande capitale italiano e preparando, poi, l’avvento di Berlusconi.

Come vedi, adesso, la situazione in cui ci troviamo, il quadro politico e sociale generale?

La vedo come la prosecuzione della sconfitta operaia, di sinistra e comunista iniziata con l’involuzione e poi lo scioglimento del Pci, la conseguente morte della Cgil come sindacato di classe, e il frutto dell’incapacità delle forze comuniste venute dopo il Pci di farsi partito comunista di quadri, di massa e di popolo. L’attacco del capitale contro l’attuale movimento operaio italiano è potentissimo e non trova opposizione. La Nato ci porta alla terza guerra mondiale e non c’è un movimento di massa contro la guerra imperialista e contro la Nato. Credo sia venuto il tempo della ricostruzione di un serio e forte partito comunista, in Italia; esso non è dietro l’angolo, ci vorrà tanto lavoro, sacrificio, lungimiranza, ricostruzione dei legami con i lavoratori, ma senza un partito comunista la lotta di classe non riparte, non ci sarà nessun movimento contro la guerra imperialista e contro la Nato e le morti operaie della TyssenKrupp, della Enel Green Power, della Aluminium verranno presto dimenticate.

 

 

 

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