Il nuovo mondo multipolare: effetti e conseguenze di una complessa transizione (II)

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Il nuovo mondo multipolare: effetti e conseguenze di una complessa transizione (II)


di Federico Pieraccini

Questa analisi è la seconda e conclusiva parte inerente il nuovo mondo multipolare. La prima parte è disponibile qui.
 
Alleati storici di Washington
 
Non possiamo accomunare l’evoluzione della situazione in Europa con la deriva che ha preso il Medio Oriente, il Nord Africa e persino il Golfo Persico. Eppure per quanto possano sembrare situazioni diametralmente opposte, restano in verità accomunate da un fattore comune: il ruolo sempre più marginale degli Stati Uniti.

I fini analisti pro-Washington continueranno ad accostare questo mutamente ad una scelta strategica consapevole degli Stati Uniti. Il Pivot-to-China (Pivot verso la Cina) a discapito del framework europeo della sicurezza atlantica, lo shale gas americano e l’indipendenza energetica piuttosto di un coinvolgimento importate in medio oriente a difesa e al traino degli alleati regionali (Qatar, Sauditi, Turchia).

La realtà dei fatti è totalmente diversa e molto meno favorevole agli Stati Uniti. Il pivot-to-china è una dottrina fittizia inventata dall’amministrazione Obama per giustificare la continua perdita di influenza di Washington in Europa e Medio Oriente.

Non esiste alcun ribilanciamento delle forze Americane in Asia, semplicemente gli attori locali, di piccole dimensioni, in una visione multipolare preferiscono avere buone relazioni con Cina e con gli Stati Uniti evitando di precludersi possibili alternative. Washington insiste, sapendo di mentire, nel dipingere questo scenario come uno shift (geo)politico epocale della regione Asiatica verso est, la realtà è ben diversa e le infinte problematiche nel raggiungere un accordo sul TPP lo dimostrano chiaramente.

Al contrario le conseguenze di questa fittizia riorganizzazione strategica della politica estera di Washington hanno provocato un terremoto più che reale nelle importanti relazioni estere tra Washington e alleati decennali. Dall’Egitto all’Arabia Saudita, passando per la Turchia e l’Unione Europea, tutti hanno subito le conseguenze di una politica estera americana inefficace.

Analisti nel campo eurasiatico commettono lo stesso errore dei colleghi americani affermando che si ha spesso l’impressione che gli Stati Uniti abbiano deciso volutamente un disimpiego dalle regioni citate, causando il deterioramento dei rapporti con gli alleati.

Una tesi del genere non si differenzia molto da quelle occidentali secondo cui vi è un ribilanciamento della potenza verso est. Sono entrambe sbagliate e basate su un errore di fondo: la presunzione che gli Stati Uniti dettino l’agenda consapevolmente, in un senso o nell’altro. Nulla di più sbagliato, ancora una volta è l’integrazione multipolare tra popoli e nazioni che rimuove Washington quale fulcro unipolare, riducendo la sua influenza. È la cooperazione tra Iran-Russia e Cina (che trascinano con sé decine di altre nazioni) che crea i giusti anticorpi alle guerre ibride finanziarie e scoraggia da tentativi di aggressione militare diretta. 
 

Scoraggia ma non impedisce. 
 
Le iniziali aggressioni ad Ucraina e Siria potrebbero essere gli ultimi tentativi concreti di condizionare le regioni del Medio Oriente-Nord Africa e l’Europa, con tecniche di guerra ibrida (rivoluzioni colorate, primavere arabe) per mantenere attiva l’influenza di Washington.

La situazione Europea ad esempio è la perfetta rappresentazione de il vaso di coccio tra i due vasi di ferro (USA e Russia). Alla lunga questa evidente vulnerabilità esistenziale, iniziata con la vicenda Georgiana e culminata con gli eventi di Kiev, ha aperto una breccia nel pensiero intellettuale del vecchio continente provocando vittorie inaspettate di movimenti politici con agende anti-sistemiche.

È il primo segnale di un più ampio risveglio che porterà inevitabilmente a valutare e privilegiare i propri interessi Europei rispetto ad una usuale, autolesionistica e completa devozione alla causa statunitense. Arguti analisti nel 2014 prevedevano con lungimirante anticipo che nel medio termine, la crisi provocata dal colpo di stato a Kiev avrebbe risuonato nelle menti dell’oligarchia Europea come un campanello d’allarme.

Nessuno è indispensabile.

In Nord Africa, Medio Oriente e nel Golfo Persico la situazione ha avuto sviluppi ancor più drammatici con il completo fallimento della guerra ibrida denominata primavera araba-rivoluzione colorata. Le diverse sinergie ottenute dal rapporto combinato tra Mosca-Pechino-Teheran ha permesso a nazioni aggredite quali Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Tunisia, Yemen ed Egitto di volgere lo sguardo e rifugiarsi nell’embrionale mondo multipolare, contrastando l’aggressione di Washington in maniera più o meno efficace.

Altro che pivot verso l’asia e indipendenza energetica: gli Stati Uniti hanno terminato il loro quarto di secolo unipolare ed iniziano a subire le conseguenze inarrestabili di un mondo multipolare sempre più volenteroso di integrarsi.

Non dovrebbero stupire la reazione di alleati quali Arabia Saudita, Qatar, Israele e Turchia che consapevoli della vera non-strategia di Washington (caos ad ogni costo, in assenza di una programmazione strategica che latita) tentano di favorire i propri interessi ad ogni costo, senza curarsi delle conseguenze e dell’opinione di Washington. Rimane da sottolineare come la situazione di stallo, in MO soprattutto, sia una conseguenza diretta dell’azione multipolare che ha neutralizzato ogni intervento diretto degli attori regionali nel contesto Iracheno, Siriano o Yemenita.

Il conseguente e recente nervosismo di Ankara, Riad, Doha e Tel Aviv è una reazione scomposta ad una totale incapacità di modificare gli eventi nella regione, di influenzare in maniera profonda il quadro politico e di ottenere un coinvolgimento maggiore degli Stati Uniti. Le carte da giocare sono terminate e ciò che resta è una situazione che inevitabilmente volge al peggio per gli ex alleati di Washington. Esattamente come l’Europa vive un rischio esistenziale come conseguenza dei disastri scaturiti in Medio Oriente e nell’Europa dell’est, Turchia, Israele, Qatar e Arabia Saudita si trovano di fronte alla necessità di riequilibrare il proprio assetto (geo)politico adattandosi ad una realtà multipolare. 

 
Cambiare per sopravvivere.
 
La sfida per Doha, Tel Aviv, Ankara e Riad è riuscirvi senza affogare nella rete americana delle rivoluzioni colorate e primavere arabe.

Ricordiamoci che paradossalmente sono proprio queste quattro nazioni le più esposte e le più vulnerabili ad un’aggressione di tipo economica essendo totalmente coinvolte nel sistema finanziario occidentale. Ancor più importante, sono anche l’ultimo strumento indiretto che Washington possiede per condizionare ed influenzare gli eventi nella regione.

Con questo in mente, è più facile comprendere come mai dalla Turchia all’Arabia Saudita ci siano situazioni allarmanti e pienamente confacenti alle usuali trame atlantiche di guerra-ibrida. Generali Turchi vorrebbero una maggior cooperazione con l’Iran, Sauditi vorrebbero iniziare a commerciare in Yuan con la Cina, Doha avrebbe piacere nel cooperare con Teheran nel settore gassifero e Israele si coordina sotto molteplici aspetti con Mosca. Aspetti taciuti, nascosti, occultati e smentiti dai protagonisti stessi, ma nientedimeno reali, tangibili e spesso causa di tensioni con Washington.

Ancora una volta un precario equilibrio su cui si basa la transizione inarrestabile quanto complicata verso un mondo multipolare.

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