Nino Galloni: "L'immissione monetaria illimitata delle Banche centrali serve solo alle grandi banche e ai centri finanziari"
"L'euro è la fase finale di un progetto iniziato negli anni '80 che aveva l'obiettivo della desindustrializzazione dell'Italia"
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di Cesare Sacchetti
Nino Galloni. Economista. Ha insegnato all'Università Cattolica di Milano, all'Università di Modena ed alla Luiss. Dal 2010 è membro effettivo del collegio dei sindaci all'INPS. Autore di Chi ha tradito l'economia italiana? e Prendi i tuoi soldi e... scappa? La fine della globalizzazione.
Nino Galloni. Economista. Ha insegnato all'Università Cattolica di Milano, all'Università di Modena ed alla Luiss. Dal 2010 è membro effettivo del collegio dei sindaci all'INPS. Autore di Chi ha tradito l'economia italiana? e Prendi i tuoi soldi e... scappa? La fine della globalizzazione.
- Dottor Galloni, nei giorni scorsi è stata approvata la legge di stabilità 2015 e il Jobs Act . Può dirci gli effetti che si otterranno con questi provvedimenti ?
Questo governo, come già sottolineato da numerosi economisti, continua a scommettere su una ripresa che non si manifesta e mai potrà farlo. L’unico strumento che sia stato utilizzato per favorire la ripresa, dopo la fine della primavera del 2001, anno in cui si può far risalire l’inizio della crisi dal lato reale dell’economia - seguita successivamente dalla crisi finanziaria del 2008 - è stato l’utilizzo di immissione monetarie illimitate da parte delle banche centrali. Un’operazione che non ha sortito gli effetti desiderati, perché quella liquidità, non è servita a sostenere le imprese e le famiglie, ma è andata a sostenere le grandi banche e i centri finanziari; tantomeno ne hanno beneficiato gli Stati nazionali.
L’unico intervento praticato è consistito nella riduzione della pressione fiscale (importante negli USA di Bush e altrove, ma non Italia); ciò ha comportato un progressivo peggioramento dei servizi e delle condizioni del ceto medio, costretto ad aumentare le proprie spese per usufruire dei servizi pubblici essenziali venuti meno. La soluzione sarebbe una riduzione della pressione fiscale e il mantenimento del livello della spesa pubblica, oppure, ancora meglio, aumentare semplicemente quest’ultima.
Dobbiamo tenere a mente un fatto preciso: se non si alzano i livelli di spesa pubblica al netto delle tasse, le possibilità di vedere una ripresa economica nel nostro Paese sono pari a zero. Il Jobs Act, in questo senso, non va nella direzione necessaria per invertire la tendenza recessiva. Mi sembra chiaro che questi provvedimenti mirino a stimolare solo il lato dell’offerta, ma per rendere più chiara l’inutilità di questa misura provo ad esprimermi con un esempio: poniamo che le imprese ricevano molti ordini e siano costrette ad aumentare la produzione, ergo si mettono in cerca di determinate figure professionali e le acquisiscono sul mercato. Se il costo del lavoro per assumere questi profili professionali è alto, ma in compenso ci sono ordini ed aumenta la produzione, sicuramente il datore di lavoro avrà di che lamentarsi perché sta pagando molto per i suoi dipendenti, non sarà contento quando essi vanno in ferie o in malattia, ma intanto si continua ad assumere. Se, specularmente, abbiamo una situazione in cui la domanda è ferma, conseguentemente non ci saranno nuovi ordini e l’economia subirà una stagnazione, nonostante il costo del lavoro sia molto più basso, il datore di lavoro non avrà alcuna valida ragione per assumere.
Qui ritorna ciò che dicevo prima, non è sufficiente ridurre la tassazione per stimolare la ripresa, occorre necessariamente un aumento della spesa. In Italia, abbiamo una situazione anche peggiore, con i livelli di spesa contenuti e la pressione fiscale aumentata a dismisura. Se si somma tutto questo all’attuale recessione, la situazione economica andrà aggravandosi sempre di più, e i governi Monti, Letta e Renzi degli ultimi anni non hanno potuto o voluto fare nulla di concreto per uscire da questa situazione.
L’unico intervento praticato è consistito nella riduzione della pressione fiscale (importante negli USA di Bush e altrove, ma non Italia); ciò ha comportato un progressivo peggioramento dei servizi e delle condizioni del ceto medio, costretto ad aumentare le proprie spese per usufruire dei servizi pubblici essenziali venuti meno. La soluzione sarebbe una riduzione della pressione fiscale e il mantenimento del livello della spesa pubblica, oppure, ancora meglio, aumentare semplicemente quest’ultima.
Dobbiamo tenere a mente un fatto preciso: se non si alzano i livelli di spesa pubblica al netto delle tasse, le possibilità di vedere una ripresa economica nel nostro Paese sono pari a zero. Il Jobs Act, in questo senso, non va nella direzione necessaria per invertire la tendenza recessiva. Mi sembra chiaro che questi provvedimenti mirino a stimolare solo il lato dell’offerta, ma per rendere più chiara l’inutilità di questa misura provo ad esprimermi con un esempio: poniamo che le imprese ricevano molti ordini e siano costrette ad aumentare la produzione, ergo si mettono in cerca di determinate figure professionali e le acquisiscono sul mercato. Se il costo del lavoro per assumere questi profili professionali è alto, ma in compenso ci sono ordini ed aumenta la produzione, sicuramente il datore di lavoro avrà di che lamentarsi perché sta pagando molto per i suoi dipendenti, non sarà contento quando essi vanno in ferie o in malattia, ma intanto si continua ad assumere. Se, specularmente, abbiamo una situazione in cui la domanda è ferma, conseguentemente non ci saranno nuovi ordini e l’economia subirà una stagnazione, nonostante il costo del lavoro sia molto più basso, il datore di lavoro non avrà alcuna valida ragione per assumere.
Qui ritorna ciò che dicevo prima, non è sufficiente ridurre la tassazione per stimolare la ripresa, occorre necessariamente un aumento della spesa. In Italia, abbiamo una situazione anche peggiore, con i livelli di spesa contenuti e la pressione fiscale aumentata a dismisura. Se si somma tutto questo all’attuale recessione, la situazione economica andrà aggravandosi sempre di più, e i governi Monti, Letta e Renzi degli ultimi anni non hanno potuto o voluto fare nulla di concreto per uscire da questa situazione.
- Un paragone che spesso ricorre tra il presente e il passato è quello tra SME ed Euro. Lo SME era un accordo di cambi fissi, dal quale siamo usciti solo dopo pesanti speculazioni finanziarie e uccidendo il modello dello Stato imprenditore. Lei crede che possa ripetersi la stessa situazione di allora, con un’uscita dall’Euro traumatica e frutto della logica di svendita?
Se facciamo un ragionamento teorico, sicuramente l’euro va abbandonato. Con un discorso pratico, le cose si complicano. Una delle soluzioni potrebbe essere stabilire degli accordi di cambi fissi, ripristinare la moneta nazionale, e dare la possibilità di fare spesa pubblica in disavanzo tramite la leva del deficit spending.
Gli strumenti sono fondamentalmente tre: quello positivo è l’aumento della spesa pubblica, che passa da una riduzione della disoccupazione e questo dovrebbe essere il primo tra gli obbiettivi che tutti i paesi europei dovrebbero sottoscrivere e fare in modo che le economie degli stati siano in equilibrio tra di loro; la seconda strada è la svalutazione del cambio, in modo tale da compensare gli squilibri delle bilance commerciali dei differenti paesi, agevolare le esportazioni e rendere più difficili le importazioni; la terza strada è la negazione delle due precedenti, quindi in questo caso non resta altro che svalutare i salari, anche se questo non appiana gli squilibri commerciali tra paesi e non stimola la domanda interna, quindi il risultato sarà un aumento della disoccupazione e un abbassamento dei salari.
Dobbiamo scegliere tra un ritorno alle svalutazioni competitive, anche se questo forse è il minore dei vantaggi che una moneta sovrana concede, oppure attuare la politica del deficit spending, che permetterebbe di aumentare gli investimenti e recuperare il terreno perduto sulla competitività. E’ necessario lasciarsi alle spalle il modello economico mercantilista, fondato sulle esportazioni e sulla politica del beggar thy neighbour, per abbracciare un nuovo modello in cui non siano più le esportazioni a guidare la crescita del PIL, ma il cui vero obbiettivo sia l’aumento della domanda interna. L’euro è stato inventato proprio sulla scorta di quel modello economico non solidale e germanocentrico, volendo impedire all’Italia di svalutare ed essere troppo competitiva. Quando la Germania stava completando la sua riunificazione e la Francia non riusciva più ad essere competitiva sui mercati europei, si pensò di inventare l’euro per limitare la nostra competitività, ma prima era necessario deindustrializzarci con un processo iniziato dagli anni’80 , e la moneta unica è la parte finale di quel progetto.
Gli strumenti sono fondamentalmente tre: quello positivo è l’aumento della spesa pubblica, che passa da una riduzione della disoccupazione e questo dovrebbe essere il primo tra gli obbiettivi che tutti i paesi europei dovrebbero sottoscrivere e fare in modo che le economie degli stati siano in equilibrio tra di loro; la seconda strada è la svalutazione del cambio, in modo tale da compensare gli squilibri delle bilance commerciali dei differenti paesi, agevolare le esportazioni e rendere più difficili le importazioni; la terza strada è la negazione delle due precedenti, quindi in questo caso non resta altro che svalutare i salari, anche se questo non appiana gli squilibri commerciali tra paesi e non stimola la domanda interna, quindi il risultato sarà un aumento della disoccupazione e un abbassamento dei salari.
Dobbiamo scegliere tra un ritorno alle svalutazioni competitive, anche se questo forse è il minore dei vantaggi che una moneta sovrana concede, oppure attuare la politica del deficit spending, che permetterebbe di aumentare gli investimenti e recuperare il terreno perduto sulla competitività. E’ necessario lasciarsi alle spalle il modello economico mercantilista, fondato sulle esportazioni e sulla politica del beggar thy neighbour, per abbracciare un nuovo modello in cui non siano più le esportazioni a guidare la crescita del PIL, ma il cui vero obbiettivo sia l’aumento della domanda interna. L’euro è stato inventato proprio sulla scorta di quel modello economico non solidale e germanocentrico, volendo impedire all’Italia di svalutare ed essere troppo competitiva. Quando la Germania stava completando la sua riunificazione e la Francia non riusciva più ad essere competitiva sui mercati europei, si pensò di inventare l’euro per limitare la nostra competitività, ma prima era necessario deindustrializzarci con un processo iniziato dagli anni’80 , e la moneta unica è la parte finale di quel progetto.
- Nel giugno 1992, avveniva la famosa riunione a bordo del panfilo Britannia, dove si decise di abbandonare il modello dello Stato imprenditore e svendere il patrimonio industriale e bancario italiano; presero parte all’ incontro,tra gli altri, Draghi e Bazoli. Il mese prossimo, dopo le annunciate dimissioni di Napolitano, si deciderà il nuovo Capo dello Stato e tra i nomi avanzati per la successione spiccano quelli di Amato, Draghi e Prodi. E’ una coincidenza che i protagonisti del processo di integrazione europeo siano oggi tra i candidati alla Presidenza della Repubblica?
Tutto questo fa parte di un processo ventennale. Chi apparteneva a quella cordata, ha avuto la possibilità di ricoprire i più alti incarichi . Chi non vi apparteneva, non aveva possibilità di ricoprire tali cariche. Credo che Il candidato più probabile per la Presidenza della Repubblica sia Romano Prodi, e sono convinto che siano già stati fatti degli accordi in tal senso.
- Non crede che Amato possa essere il nome che metta d’accordo centrodestra e centrosinistra sul candidato al Quirinale, sul modello dell’elezione di Ciampi?
Non credo perché è il candidato di Berlusconi, ed escluderei anche Draghi perché nel suo ruolo di presidente della BCE, sta tutelando egregiamente gli interessi della finanza speculativa. Se il nome di Prodi non passa nei primi scrutini, probabilmente riprenderà corpo l’ipotesi di una candidatura femminile. L’interesse del Paese è avere un Presidente che pensi a proteggere e tutelare gli interessi italiani e non quelli europei o sovranazionali. In altre parole, non dobbiamo avere un Presidente che ci costringa a morire per l’euro. Mi auguro che si cerchino accordi con gli altri paesi per trovare una via d’uscita sostenibile per il bene della collettività, e noi avremmo bisogno particolarmente di un Presidente che agisca proprio in tal senso: l’opposto di Napolitano, per dirla più crudamente.
- Uno sguardo alle prossime elezioni in Grecia: Tsipras chiederà una sospensione del pagamento del debito. Il tasso di interesse decennale sui bond greci è attualmente al 8,40%, e si prevede un nuovo rialzo, nel caso di una vittoria elettorale del partito di Tsipras. Lei crede che la Grecia sarà costretta ad abbandonare la moneta unica?
Il piano di Tsipras è meno realizzabile dell’uscita dall’euro stessa. La ristrutturazione può avvenire sul capitale, ma in questo caso affondano le banche tedesche e francesi, e in parte quelle italiane che hanno titoli greci. Se la ristrutturazione invece è sugli interessi, perde di senso il possesso dei titoli poiché gli speculatori li hanno comprati per lucrare proprio su quelli. Quindi non credo affatto che il male maggiore per la Grecia sia l’abbandono dell’euro. La Grecia va aiutata ad uscire dall’euro, senza minacciare guerra nei suoi confronti se prenderà questa scelta.
- Tsipras potrà portare la Grecia fuori dall’euro?
Tsipras non ha manifestato l’intenzione di abbandonare l’euro, il suo obiettivo è la ristrutturazione del debito. Potrebbe, in caso di vittoria elettorale, realizzare il suo progetto solo se avesse a disposizione un’arma di ricatto nei confronti dei suoi creditori. Consideriamo che se la Grecia disponesse di una moneta nazionale, molto più debole, sarebbe un concorrente eccellente per gli altri paesi europei sia per le esportazioni sia per il turismo. Ovviamente per i greci sarebbe meglio tirare una riga e ricominciare da zero con una nuova moneta. Non dimentichiamo che la colpa di questa situazione è dell’Europa, sopratutto della BCE, che ha commesso un errore marchiano rifiutandosi di comprare il debito greco. La monetizzazione del debito greco da parte della BCE era l’unico modo possibile per calmierare gli interessi crescenti sul debito, e mettere al riparo la Grecia dall’aggressione dei mercati. Ribadisco la necessità di un ripristino della sovranità monetaria degli stati, leva necessaria per raggiungere il traguardo della piena occupazione.