Etichettatura Ue: i cittadini italiani vogliono sapere chi produce il cibo che mangiano
Aziende, piccole e grandi, e cittadini uniti in un obiettivo comune: tutelare il “Made in Italy”
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di Francesca Morandi
I cittadini italiani vogliono sapere chi fa il cibo che mangiano e chiedono che l’azienda produttrice sia indicata sull’etichetta degli alimenti, al contrario di quello che prevede la nuova normativa europea (n. 1169/11). Lo hanno detto chiaramente con decine di migliaia di adesioni a diverse petizioni (come quelle lanciate dal Fatto Alimentare, Great Italian Food Trade e Ioleggol’etichetta) e, sul fronte politico, tramite le interpellanze dei parlamentari del Movimento Cinque Stelle, con i deputati Paolo Parentela e Giuseppe L’Abbate in prima fila, alle quali è seguita l’azione di altre forze politiche.
Le istituzioni sono state così costrette a rispondere: alla fine di gennaio il ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi ha convocato un tavolo di confronto fra tutti i rappresentanti della filiera produttiva, dopo che il ministro per le Politiche Agricole Maurizio Martina le ha scritto appoggiando la richiesta di notificare alla Commissione europea la norma italiana che dal 1992 prevede l’obbligo a indicare lo stabilimento di produzione degli alimenti in etichetta. La decisione del ministero dello Sviluppo Economico non è ancora nota ma, se la norma italiana non verrà notificata, la legge comunitaria prevarrà su quella italiana (D. Lgs 109/92), come sta di fatto accadendo. Con il risultato che è possibile omettere in etichetta il nome e l’indirizzo della fabbrica nella quale il cibo è stato prodotto e confezionato.
Secondo le nuove norme, infatti, ad essere indicato obbligatoriamente è soltanto il responsabile legale del marchio, ovvero l’azienda che lo distribuisce, che ha facoltà, ma non l’obbligo, di decidere se indicare o meno l’impresa produttrice. Oggi le grandi multinazionali europee della distribuzione non sono così più vincolate a fornire questa indicazione ed è possibile che decidano di puntare sulla commercializzazione di prodotti con il proprio marchio (i cosiddetti “private label”), delocalizzando gli stabilimenti produttivi fuori dai confini italiani, senza farlo comparire in etichetta. Si intuisce allora che a trarre vantaggio dalle nuova etichettatura UE sono i grandi marchi distributori europei presenti in Italia, ovvero i nostri concorrenti economici, mentre il “Made in Italy” rischia di essere danneggiato.
Secondo le nuove norme, infatti, ad essere indicato obbligatoriamente è soltanto il responsabile legale del marchio, ovvero l’azienda che lo distribuisce, che ha facoltà, ma non l’obbligo, di decidere se indicare o meno l’impresa produttrice. Oggi le grandi multinazionali europee della distribuzione non sono così più vincolate a fornire questa indicazione ed è possibile che decidano di puntare sulla commercializzazione di prodotti con il proprio marchio (i cosiddetti “private label”), delocalizzando gli stabilimenti produttivi fuori dai confini italiani, senza farlo comparire in etichetta. Si intuisce allora che a trarre vantaggio dalle nuova etichettatura UE sono i grandi marchi distributori europei presenti in Italia, ovvero i nostri concorrenti economici, mentre il “Made in Italy” rischia di essere danneggiato.
“A giovarne saranno anche i cosiddetti prodotti ‘Italian sounding’, che spesso coincidono con i ‘private label’, prodotti che hanno una parvenza italiana ma che, in realtà, sono prodotti fuori dall’Italia - spiega l’avvocato Dario Dongo, esperto di diritto alimentare -. I produttori italiani hanno tutto l’interesse a mostrare che i loro alimenti sono prodotti in Italia, in quanto il cibo ‘Made in Italy’ è considerato un’eccellenza dagli stessi consumatori italiani che devono poter scegliere i prodotti del Veneto, della Sardegna o del Lazio anche in virtù di un consapevole sostegno all’occupazione in quelle Regioni, o, semplicemente, per “affinità” culturale”.
Lo hanno capito anche le grandi catene di supermercati italiane che hanno aderito alle petizioni. Nella lista dei distributori a favore del mantenimento dello stabilimento produttivo in etichetta figurano Conad, Coop, Esselunga, Unes, Selex, Simply, Auchan e NaturaSì. Aziende, piccole e grandi, e cittadini, uniti dunque, in un obiettivo comune: tutelare il “Made in Italy” attraverso il ripristino obbligatorio della sede dello stabilimento di produzione, che garantisce inoltre informazioni trasparenti ai consumatori.
Ma a Bruxelles gli interessi dominanti paiono andare in direzione opposta. Lo scorso 27 febbraio, in risposta a un’interrogazione della deputata forzista Elisabetta Gardini, il Commissario lituano Vytenis Andriukaitis ha ammesso che il regolamento n. 1169/11 prescrive il dovere di indicare il Paese di origine ogni qual volta l’omissione possa indurre in errore il consumatore sull’effettiva provenienza, ma ha affermato che la Commissione Ue “non considera l’informazione sull’origine o la provenienza come uno strumento utile né a prevenire le frodi, né a proteggere la salute pubblica”.
Ora il Governo italiano dovrà decidere se portare avanti gli interessi delle proprie industrie e le richieste dei cittadini, notificando alla Commissione europea la disposizione nazionale sull’obbligo di indicare in etichetta lo stabilimento di produzione. Altrimenti sarà l’ennesima battaglia persa in Europa a danno dell’Italia.