di Alberto Bradanini*
Davanti alle tragedie in corso in Medio Oriente i popoli dovrebbero imporre ai loro governi il rispetto del criterio filosofico, prima ancora che politico, della logica dialettica: la critica – lo affermava anche Mao Zedong – va fatta prima, e non, comodamente, dopo che gli eventi hanno avuto corso[1].
In una sintetica riflessione, Jonathan Cook[2], audace analista britannico[3] della Palestina, una terra dove ha trascorso vent’anni, getta uno sguardo dissonante su quanto accade. Va subito rilevato, tuttavia, che l’irriflessivo sostegno dell’Occidente alla politica di Israele, e alla distruzione di Gaza e dei suoi abitanti, costituisce il punto di caduta di fattori strutturali che meritano una preliminare attenzione.
Sia chiaro che nell’analisi che segue la religione non vi ha posto alcuno. La tragedia sofferta dal popolo ebraico nel secolo scorso per mano dei nazisti tedeschi (e non solo) resterà scolpita per sempre nella nostra memoria e nei nostri cuori. Tantomeno trova posto la nozione di etnia ebraica, anch’essa turpe manipolazione dei mestatori di un razzismo che si spera consegnato per sempre alla spazzatura della storia. Israeliani e Israele stanno dunque a designare i cittadini e lo stato da essi abitato, che persegue fini politici talvolta condivisibili, altre volte no. Quanto precede è banale, oltre che scontato, ma non si sa mai. Sono molti gli episodi di persone accusate di antisemitismo (che poi dovrebbe essere semmai antigiudaismo), per aver espresso critiche politiche allo stato di Israele.
Ora, è un’evidenza ingombrante nella sua centralità che Israele può fare ciò che vuole, senza essere importunato dalla cosiddetta comunità internazionale perché al suo fianco sono schierati, sempre e in ogni circostanza, gli Stati Uniti, i cui interessi imperiali in Medio Oriente viaggiano paralleli con quelli di Israele, o meglio perché come tali vengono incistati nell’establishment americana dalle potenti lobby israeliane, con l’Aipac[4] in prima fila (v. La Lobby israeliana e la politica estera americana J. Mearsheimer e S. Walt, Ed. A. Mondadori). Nessun candidato al Senato, Congresso o alla Casa Bianca può sperare di essere eletto avendo contro le lobby israeliane che negli Stati Uniti controllano una fetta rilevante dell’informazione pubblica[5].
In termini di psicologia politica, la libertà d’azione consentita a Israele, anche contro la legge internazionale e la morale, è figlia dell’ontologia del complesso di colpa per le sofferenze inflitte al popolo ebraico nel secolo scorso dai nazisti-tedeschi[6], anch’essi occidentali.
Inoltre, un’occulta assonanza accomuna la genesi auto-percepita delle due nazioni, entrambe imbevute del convincimento di fruire di uno status superiore, prescelte dalle rispettive divinità, la prima (l’unica nazione indispensabile al mondo, B. Clinton, 1999) per governare un mondo inquieto, la seconda (il popolo eletto, il migliore disponibile sulla faccia della terra) per qualche incarico misterioso, mentre tutte le altre nazioni, anch’esse presumibilmente create dal medesimo dio, non meriterebbero la stessa considerazione.
Nella sua riflessione, Cook sostiene che l’obiettivo dell’aggressione reattiva contro donne, vecchi e bambini di Gaza (questo ragionare non vale beninteso per chi reputa che i palestinesi della Striscia siano tutti terroristi) sia quello di cacciarli e rubar loro altra terra. Nel suo libro “Disappearing Palestine”, egli ripercorre i tratti che hanno portato alla colonizzazione del territorio, le tecniche di dispersione, l’imprigionamento e l’impoverimento sistematico, quali strumenti di demolizione graduale e sistematica della nazione palestinese. Cisgiordania e Gaza vengono trasformate in laboratori per testare l’infrastruttura del confinamento, creando una redditizia industria della “difesa” attraverso tecnologie pionieristiche di controllo della folla, la sorveglianza, la punizione collettiva e la guerra urbana, sofisticati coprifuoco, posti di blocco, muri, permessi e accaparramento di terre altrui, tutto con il medesimo fine, l’obliterazione della Palestina.
Tale percorso subisce un’accelerazione nel 2007, quando a seguito della vittoria di Hamas i 2,3 milioni di abitanti di Gaza vengono circondati da filo spinato in una prigione inespugnabile, una terra asservita a esperimenti innovativi, contenimento fisico, restrizioni, reclutamento di informatori, bombardamenti, impiego di razzi d’intercettazione, sensori elettronici, sistemi di sorveglianza, droni, riconoscimento facciale, cannoni automatizzati etc.
Oggi Israele paga il prezzo di una miope politica di potenza, perché i prigionieri non si erano rassegnati – prosegue Cook – mettendo in gioco la sola cosa loro rimasta, la vita, e diventano terroristi. È così che almeno per alcuni giorni i palestinesi riescono a bypassare l’invalicabile infrastruttura di confinamento, utilizzando un bulldozer arrugginito e alcuni deltaplani, accompagnati da un forte e prevedibile (ri-)sentimento di “non abbiamo nulla da perdere”. Per tornare ad essere la potenza di un tempo, Israele ha ora bisogno di entrare a Gaza e distruggere quello che trova.
Il secondo punto di riflessione di J. Cook riguarda il diritto internazionale o, meglio, quel poco di esso che si era riusciti a edificare all’indomani della Seconda guerra mondiale, per impedire il ripetersi delle atrocità naziste (-giapponesi) e occidentali, queste ultime spesso occultate, bombardamenti civili (solo per citarne alcuni, Dresda, Stoccarda, Tokyo…) e beninteso le bombe atomiche sul Giappone.
Uno dei cardini delle Convenzioni di Ginevra – che si occupano delle vittime di guerra e degli aspetti umanitari dei conflitti – è il divieto di punizioni collettive, e dunque di rappresaglie contro la popolazione civile, che non è responsabile dei crimini di governi, eserciti o terroristi.
Misteriosamente sotto il profilo etico, ma quanto mai decifrabile sotto quello dei rapporti di potere, le nazioni europee, per non parlare di quell’imbarazzante istituzione che risponde al nome di Unione Europea, stendono un ignobile e pietoso velo su tutto ciò, sebbene oggi Gaza rappresenti la più flagrante violazione del diritto internazionale dell’intero pianeta terra.
Anche in tempi normali, ricorda Cook, agli abitanti di Gaza (un milione di essi minori) erano negate le libertà più elementari, il diritto a entrare e uscire dalla Striscia, l’assistenza sanitaria, le medicine e l’uso di attrezzature mediche, l’acqua potabile e l’elettricità, per gran parte della giornata. Ora poi, con l’esercito israeliano alle porte, le condizioni di ristrettezza e la paura di morire rendono la sofferenza di questa gente inimmaginabile.
Hamas ha commesso atti di terrorismo contro cittadini di Israele, colpevole di aver espropriato i palestinesi della loro patria e averli imprigionati in un ghetto sovraffollato. Israele ora punisce il popolo di Gaza, invece dei terroristi. Questa condotta, il cui nome è vendetta, è priva di logica morale e illegittima per il diritto internazionale. Per Israele, tuttavia, come per lo zio Sam suo inossidabile protettore, il rispetto del diritto non è un obbligo, ma solo una scelta, talvolta conveniente, altre volte, da 16 anni, no.
I militari israeliani hanno la consegna di non fare distinzioni tra militanti nemici e popolazione civile. Il primo ministro israeliano, Netanyahu, ha intimato alla popolazione di Gaza di andarsene, ma ha omesso di dire dove quelle misere esistenze umane potrebbero trovare protezione dalle bombe.
J. Cook ricorda che già nel 2009 (al tempo di un’altra guerra Gaza-Israele) Orna Ben-Naftali, a quel tempo preside israeliana della facoltà di giurisprudenza di Tel Aviv, aveva dichiarato al quotidiano Haaretz: “ribaltando la legge, a Gaza edifici civili e uomini adulti sono considerati come obiettivi legittimi”. Sempre allora, David Reisner, suo predecessore, aveva spiegato ad Haaretz la strategia israeliana con queste parole: “stiamo assistendo a un ipocrita processo di revisione del diritto internazionale. Se un’azione illegittima viene ripetuta per un tempo sufficientemente prolungato e tollerata da un certo numero di paesi, il mondo finisce per accettarla ed essa diventa ammissibile, anche se illegittima per il diritto internazionale”.
Una pratica questa che era iniziata ancor prima. Riferendosi all’attacco israeliano del 1981 che distrusse il presunto reattore nucleare iracheno di Osiraq, un atto di guerra condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Reisner afferma: “Israele aveva commesso un crimine. Oggi però tutti affermano che si trattò di legittima difesa preventiva, come se il diritto internazionale progredisse non attraverso una precisa pattuizione tra le nazioni, ma a seguito di una sua costante violazione”. Egli aggiunge che Israele aveva convinto il governo americano ad accettare un’applicazione elastica degli obblighi giuridici internazionali di Israele nei riguardi dei palestinesi, ciò che si sarebbe rivelato prezioso anche per gli Stati Uniti per giustificare l’invasione di Afghanistan e Iraq.
Sempre nel ragionare di Cook, Israele avrebbe lavorato all’evoluzione del diritto internazionale anche su altri aspetti, introducendo il concetto di preavviso: con un preannuncio di pochi minuti, per di più nei modi più diversi, la distruzione di un edificio o di un quartiere diviene legalmente praticabile, e i civili, anziani, donne e bambini, disabili inclusi, sono trasformati in obiettivi legittimi, colpevoli di non essersi allontanati in tempo dal luogo destinato a essere distrutto. Una pratica, conclude Cook su questo aspetto, che prima o poi la Comunità Internazionale finisce per digerire.
Il citato articolo di Haaretz del 2009 (quello con l’intervista a Orna Ben-Naftali) definiva Yoav Gallant, all’epoca comandante militare responsabile di Gaza, un cowboy che non aveva tempo per le sottigliezze legali. Gallant è ora ministro della Difesa, incaricato di attuare l’assedio completo di Gaza, vale a dire, niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante, tutto chiuso“. Egli nega ogni differenziazione tra Hamas e la popolazione palestinese, che definisce animali umani. Si tratta del medesimo linguaggio utilizzato dai nazisti nel secondo conflitto mondiale nei riguardi dei russi (chiamati untermenschen, subumani/sotto-uomini). Il regresso della civiltà giuridica occidentale è sotto gli occhi di tutti.
Non solo, poiché in punta di diritto internazionale il criterio di punizione collettiva attuato a Gaza sfiora il recinto giuridico del genocidio, sia nella forma che nella sostanza. Persino il criterio giuridico della moderazione e della proporzionalità è stato cancellato dai governi occidentali che sostengono “il diritto di Israele di difendersi” (che nessuno mette in discussione), senza alcuna restrizione.
Nel Regno Unito, ad esempio, tralasciando il governo dal quale nulla di buono può arrivare, persino il leader laburista e probabile prossimo Primo Ministro, Keir Starmer, ha sostenuto che l’assedio di Gaza (un crimine contro l’umanità!) deve intendersi come “diritto di Israele a difendersi”. Starmer, noto quale difensore dei diritti umani – cogliendo le implicazioni politiche per la sua carriera e ricordando il destino del suo predecessore, Jeremy Corbyn, accusato di antisemitismo dalle lobby pro-israeliane e obbligato a dimettersi – ha messo da parte etica e verità e ha incolpato Hamas di sabotare in tal modo il “processo di pace”, che anche le pietre sanno essere stato sepolto da Israele molti anni fa. Gli uomini di potere politici possono dichiarare qualunque cosa, senza rendere conto a nessuno.
L’aviazione israeliana ha già sganciato (al 16 ottobre 2023) 6.000 bombe su Gaza. Alcuni gruppi per i diritti umani accusano Israele di far uso di armi al fosforo bianco, uno specifico crimine di guerra se usato nelle aree urbane. Defence for Children International afferma che oltre 500 bambini palestinesi sono già stati uccisi. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori occupati, ha coraggiosamente affermato che Von Der Leyen applica i principi del diritto internazionale come un’altalena, tenendo soprattutto presente, aggiungiamo noi, la sua ambizione di prendere il posto dell’attuale Segretario Generale della Nato, J. Stoltenberg.
Dodici mesi orsono, proprio la presidente della Commissione aveva qualificato gli attacchi russi alle infrastrutture civili in Ucraina come crimini di guerra[7]: impedire a uomini, donne e bambini di disporre di acqua, elettricità e riscaldamento costituisce un atto di terrore. Dov’è mai finita la coerenza, se ora – rileva la Albanese – la medesima Von der Leyen passa sotto silenzio tombale i bombardamenti israeliani a Gaza che producono lo stesso risultato?
Nel frattempo, la Francia vieta le manifestazioni contro i bombardamenti a Gaza, perché – nelle parole del ministro francese della giustizia, Éric Dupond-Moretti – l’espressione di solidarietà ai palestinesi potrebbe offendere le comunità ebraiche e deve dunque ritenersi incitamento all’odio.
Il presidente Joe Biden ha deliberato l’invio di armi e finanziamenti, spedendo la portaerei Eisenhower nel Mediterraneo, un monito per i vicini di Israele a non immischiarsi, alla vigilia dell’invasione di Gaza. A sua volta, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutteres, si è limitato a emettere un timido vagito sulla necessità che anche Israele rispetti il diritto internazionale.
Il sostegno privo di riserve a Israele da parte dei governi occidentali costituisce, come si può immaginare, il prezzo che essi sono costretti a pagare per sopravvivere, perché l’alleato imperiale non dimentica il nome di chi disobbedisce. Quanto all’Italia, relegata in un umiliante statuto di vassallaggio, meglio tacere. Nella norma, dunque.
Per Israele, invece, la partita, è certo, non si chiude qui. Dopo aver fatto i conti con il presente, in un modo tragico o ancora più tragico, dovrà tornare a guardarsi le spalle, in una spirale infinita di azioni e reazioni. Quel che resterà di Hamas al termine di questa battaglia, i suoi figli, i suoi emuli o i suoi epigoni riprenderanno la lotta, pronti a immolarsi per restituire alla Palestina la speranza di una patria. Se non vi sarà pace per la Palestina, non ve ne sarà nemmeno per Israele.
[1] https://le-citazioni.it/autori/mao-tse-tung/
[2] Jonathan Cook è un giornalista britannico pluripremiato. Ha vissuto a Nazareth, in Israele, per 20 anni. È tornato nel Regno Unito nel 2021. È autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese, Sangue e religione: lo smascheramento dello Stato ebraico (2006), Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente (2008), Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair (2008).
[3] https://www.jonathan-cook.net/2023-10-13/gaza-britain-israel-crimes/
[4] American Israel Public Affairs Committee (AIPAC
[5] La Lobby israeliana e la politica estera americana (cit.)
[6] Il 7 ottobre 2023, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, al Bundestag, ha affermato: “la nostra storia, la nostra responsabilità derivante dall’Olocausto, ci impone il dovere perenne di difendere l’esistenza e la sicurezza dello stato di Israele, anche se ora è sotto attacco di Hamas e non dei nazisti. E la sicurezza dello stato ebraico è la ragion di stato di quello tedesco. Il solo posto dove stare in questo momento è a fianco di Israele”.
[7] https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-10/von-der-leyen-attacchi-russi-ucraina-crimini-guerra.html
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