Che si fa quando tutto il mondo deve constatare che, grazie all’aiuto dell’aviazione russa e all’impegno dell’esercito siriano (un esercito di leva: in quattro anni 60.000 morti e soltanto il 10 per cento di diserzioni) si riescono a liberare dai tagliagole dell’ISIS & company vaste zone della Siria e siti archeologici di immenso valore come Palmira? Finora i media filoatlantisti erano rimasti impietriti di fronte a questa
liberazione, oggi cominciano le danze. In prima fila, ovviamente, Il
Fatto Quotidiano che, dando una grande lezione di Giornalismo, fa sua la penna di tale Samantha Falciatori la quale – a quanto ci è dato di sapere – in Siria non c’è mai stata e che, quindi, si limita a riportare le parole di tale Savioli: un archeologo che non mette piede in Siria da almeno cinque anni.
Con queste fonti,
(filo “ribelli”) l’articolo de Il Fatto non poteva che ridursi ad invettive contro l’esercito di Assad e i bombardamenti russi che avrebbero distrutto vestigia archeologiche e a strampalate affermazioni: “Ma se non è solo Isis a distruggere il Patrimonio dell’Umanità in Siria, perché solo di Isis ci scandalizziamo? Se si considera che, secondo lo studio di Casana, i siti in cui lo scavo clandestino è stato totale si trovano per il 42% in zone Isis e il 23% in zone del regime e che c’è una forte relazione, in percentuale, tra i siti occupati dall’esercito siriano e i saccheggi, quanto è corretto parlare di liberazione di Palmyra in difesa della civiltà?”
Ma cos’è questo studio di Casana e come avrebbe fatto a calcolare così precisamente gli “scavi clandestini totali” in un’area di guerra? Questo studio – basato prevalentemente su foto satellitari ed effettuato dall’archeologo Jesse Casana della Dartmouth University – è stato recentemente incensato in un lungo articolo del
National Geographic valutato da non pochi studiosi come una mera campagna mediatica (al pari, ad esempio, del recente film
Monuments Men) finalizzata a presentare gli USA come particolarmente attenti a preservare la cultura dei paesi che stanno distruggendo.
L’impiego di “esperti d’arte” che supporterebbero i commandos USA inviati in Siria anche per stroncare il traffico di reperti archeologici trafugati e la storia delle “tasse” che - sia dall’ISIS che l’esercito siriano - imporrebbero ai trafugatori di reperti (“265.000 dollari su vendite totali di 1,25 milioni di dollari”) non hanno convinto praticamente nessuno. Anche perché l’articolo di National Geographic – al pari di un’altra
bufala pubblicata da Il Fatto Quotidiano – non dice una sola parola su chi siano gli acquirenti di questi reperti archeologici.
Esaurito con il rimando a questo studio tutte le analisi legate alla sua attività di archeologo, a Savioli non resta che abbandonarsi a davvero bizzarre considerazioni: “Inoltre, gli abitanti di Palmyra non l’hanno vissuta come una liberazione: l’esercito siriano e i suoi alleati (milizie sciite libanesi di Hezbollah, irachene e battaglioni iracheni e afghani inviati dall’Iran) non sono stati accolti come liberatori, anzi i civili sono fuggiti. A causa dei continui bombardamenti, la popolazione di Palmyra, a maggioranza sunnita, era già in larga parte fuggita, ma con la ‘liberazione’ l’esodo è stato totale: i civili sono fuggiti in zone sotto controllo Isis, come a Raqqa e Deir Ez Zor, o in territori ribelli, in particolare ad Azaz (nord di Aleppo). Ora a Palmyra non ci sono quasi più civili.”
Peccato per Savioli che gli oramai innumerevoli video (anche di
giornalisti italiani) mostrino tutt’altro. Ma, prima di chiudere, una ovvia domanda: perché mai il governo di Assad dovrebbe accanirsi nella distruzione dei siti archeologici siriani? Una vera follia, considerando che, fino al 2011, il
turismo sosteneva quasi il 20% dell’economia siriana: 6 milioni di turisti stranieri attratti, ogni anno, sopratutto dalle innumerevoli vestigia archeologiche.
Vestigia - sia detto en passant- finora mirabilmente tutelate dal famigerato “regime” e anche da archeologi di tutto il mondo. Speriamo che questi ritornino in Siria al più presto. Magari,non tutti. Meglio che qualcuno se ne resti a casa.
Francesco Santoianni