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Nella cornice di PropagandaLive, un programma che ha il suo massimo pregio nell'onestà del titolo, Enrico Letta, professore alla grande école Sciences Po Paris, ex presidente del consiglio, e commendatore della Legion d'Onore dello stato francese, ci spiega, tra i sorrisi di approvazione del Gotha progressista che:

"È finito il tempo in cui si andava a scuola, all'università e poi si lavorava. Adesso per tutta la nostra vita dobbiamo adattarci, cambiare ed essere pronti. Il sistema deve aiutare tutto questo."

Il concetto che qui Letta propone non è naturalmente un'uscita estemporanea, al contrario, è l'asse portante del progressismo contemporaneo (progressismo di sinistra come di destra). 

Probabilmente ciò che il prof. Letta ha in mente come modello esemplare è, come di solito accade, sé stesso: "Anch'io dopo tutto studio tutta la vita, mi aggiorno e addirittura mi sono spostato ad insegnare in un altro paese. Visto che bravo? Su dai, è facile, fai come me, getta il cuore oltre l'ostacolo, abbandona il pessimismo e il mugugno: un nuovo futuro ci attende."

Le parole di Letta potrebbero essere naturalmente sottoscritte da Renzi come da Berlusconi, o da qualsiasi rappresentante del Partito Unico Liberale, al governo quasi ovunque. 

Come sempre accade Letta o chi per lui non ha alcun contatto degno di nota con la realtà, che viene vista attraverso lenti distorsive rosé. 

L'apologia della società liquida, dove ciascun soggetto, è sempre pronto a battere i tacchi alle esigenze dei mercati gli viene naturale: è semplicemente l'ortodossia delle élite cosmopolite, che immaginano di essere particolarmente virtuose in quanto pronte a cogliere tutte le occasioni privilegiate che il mondo graziosamente gli offre, e che proprio non capiscono perché quello che a loro riesce così facile, spostandosi da un albergo smart alla seconda o terza casa ecofriendly, non dovrebbe essere la vita di tutti sul globo terracqueo. 

Di questo enorme inflessibile meccanismo organico (un po' come quelli di EXistenZ di Cronenberg) essi conoscono solo la patina luccicosa, e in quella superficie trovano tutta la profondità di cui hanno bisogno.

L'idea della 'formazione permanente' è immaginata come l'approfondimento di ricerca dell'accademico o la 'curiosità' vitale di "Alice che si fa il whisky distillando fiori" (cit.). 

E qui a Letta, come a tutta la sua genia, sfugge l'abisso che sta tra la spontaneità e la costrizione, tra il 'continuare-ad-avere-la-mente-all'erta'-che-è-tutta-salute, e il doversi reinventare competenze del menga per lavoretti che tra cinque anni saranno fatti da un robot, e farlo di nuovo ogni lustro, se non vuoi dormire nei cartoni, fino a quando dopo l'ennesima spremitura verrai rottamato.

L'immagine che Letta ha in mente come modello ideale è in effetti già ributtante per chiunque non abbia l'anima di plastica: è l'immagine di un mondo in costante frenetico movimento, come un infinito alveare mosso dalle 'occasioni di lavoro', cioè dai modi in cui il capitale si sposta per massimizzare la propria resa, un mondo senza investimenti di lungo periodo che non siano monetari: nessun impegno in una terra, in affetti, in radici, in una famiglia, o con tutte queste cose in dimensione di finzione omeopatica e precaria. 

Ma questa è comunque la visione ottimale, quella del mondo liquido come un conto svizzero ben movimentato.

Poi c'è la realtà sottostante a questa visione ottimale, realtà di cui Letta nell'intervista si sbarazza pagando tributo formale alla 'lotta alla precarietà', laddove quel progetto di mondo è la costruzione sistematica ed inesorabile di una precarietà senza fine per tutti.

La realtà di quel mondo è fatta di dislocazione sociale, abbrutimento, solitudine perenne, conflittualità, insicurezza. Quella disposizione pseudo-darwiniana che Letta menziona come l'essere sempre pronti ad adattarsi, è in verità l'accettazione di essere orgogliosi ingranaggi di una meccanismo globale, una macchina planetaria lanciata a tutta velocità e senza meta. 

Di questo mondo i nostri "progressisti" sono i sacerdoti.

Il male allo stato puro, che si reputa in odore di santità.

Andrea Zhok

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Professore di Filosofia Morale all'Università di Milano

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