Come l'imperialismo Usa ha gradualmente distrutto la Libia

Come l'imperialismo Usa ha gradualmente distrutto la Libia

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo 


di Matteo Capasso


La storia del colonialismo e dell’imperialismo è una storia di massacro assoluto o relativo, a seconda degli equilibri della lotta di classe. Nella nostra epoca attuale, dove crisi multiple e interconnesse (inclusa la pandemia in corso) rivelano il potere devastante dell’accumulazione di capitale neoliberista, la lotta di classe si sta intensificando a livello globale.


Pertanto, non sorprende che la struttura imperialista guidata dagli Stati Uniti abbia progressivamente abbracciato la guerra e il militarismo per rimodellare i modi in cui i paesi del Sud del mondo entrano nei circuiti del capitale. Dopotutto, la scelta è sempre stata tra socialismo o barbarie.


Nel mio recente articolo pubblicato in inglese sulla Review of African Political Economy, e ora disponibile gratuitamente, propongo un’analisi della guerra in Libia che traccia come l’imperialismo americano abbia contribuito alla graduale distruzione del paese.


Comprendere il destino della Libia è cruciale per delineare l’intensificarsi della configurazione dei circuiti di guerra e capitale, poiché il destino della Libia rispecchia il destino dell’imperialismo guidato dagli Stati Uniti, quindi deve essere compreso se vogliamo tracciare un modo diverso di immaginare, combattere e prepararci politicamente per il futuro.


Banalizzare la storia, normalizzare la guerra


Le analisi proposte dai think tank politici sostengono che dal 2011 la Libia sia diventata un ambiente fertile per lo sviluppo di una pervasiva “economia di guerra” dipendente dall’uso della violenza, dai cui vari gruppi armati traggono profitto nel disordine politico. Queste presentano la situazione attuale come un effettivo prolungamento del regime Gheddafiano, basato (a lor dire) su un sistema clientelare e un’economia “rentier” che rifiutava l’implementazione di idee liberali e riforme economiche neoliberiste.


Di conseguenza, la guerra è presentata come un problema di carattere locale, autoinflitto e culturale/tribale. In tal modo, queste analisi di economia politica liberale non solo finiscono per condonare la logica dell’accumulazione di capitale che guida l’agenda imperialista USA; ma – nel processo – riscrivono anche la storia della Libia, banalizzandone il suo passato antimperialista e progressista.


In un tale scenario, la guerra appare come uno stato naturale, se non necessario, affinché la Libia passi a una fase di sviluppo migliore, mentre gli accademici continuano a riflettere sui fallimenti delle “buone intenzioni” occidentali, degli interventi umanitari e della costruzione dello stato.


In opposizione a questa narrativa dominante, il mio articolo attinge al lavoro dell’economista, Ali Kadri, per riconcettualizzare il ruolo della guerra e del militarismo come forma di accumulo di capitale via la creazione di rifiuti (accumulation by waste) nella struttura imperialista guidata dagli Stati Uniti. In tal modo, propongo una nuova storicizzazione del graduale smantellamento della formazione sociale libica nei confronti del sistema interstatale imperialista dal 1969 ad oggi.


La lunga guerra ibrida in Libia


Per comprendere come la Libia abbia raggiunto l’attuale livello di distruzione, è fondamentale delineare il contesto strutturale e storico che ha fatto da preludio alla guerra ibrida scatenata nel paese dall’imperialismo guidato dagli Stati Uniti dall’inizio degli anni ’80, le cui conseguenze hanno innescato significativi cambiamenti socio-economici e politici e conseguentemente provocato conflitto politico nel paese.


Nel 1969, un gruppo di settanta laureati delle forze armate ha intrapreso un colpo di stato contro la monarchia di re Idris. Con questa operazione militare, il cui nome in codice era “Gerusalemme” in onore della causa palestinese, la Libia ha intrapreso un percorso di politica rivoluzionaria in patria e all’estero.


Il governo libico iniziò presto a perseguire un progetto di indipendenza nazionale che allo stesso tempo sosteneva un radicale annullamento dei rapporti di dominio a livello globale. In altre parole, la liberazione nazionale richiedeva una più ampia ristrutturazione del processo di scambio ineguale e delle gerarchie di potere che consentivano all’ordine imperialista guidato dagli Stati Uniti di dominare il Sud del mondo.


Prendendo seriamente in considerazione le idee antimperialiste e socialiste adottate sin dai primi anni della rivoluzione del 1969 (piuttosto che banalizzarle, come fa l’economia politica liberale), si comprende il nocciolo della lotta: il potere del Sud del mondo di immaginare percorsi alternativi allo sviluppo e alla cooperazione regionale riacquisendo controllo della propria economia, cultura e società.


Pertanto, numerose iniziative politiche ed economiche sono state intraprese per migliorare le condizioni di vita della popolazione, tra cui la nazionalizzazione dell’industria petrolifera nel 1973, la costruzione di programmi infrastrutturali e redistributivi, nonché il sostegno dei movimenti rivoluzionari in tutto il mondo (compresi in Palestina , Sud Africa e Angola) e il perseguimento di progetti di integrazione regionale.


Queste politiche non solo si tradussero in un solido consenso popolare e in un ampio sostegno in patria, ma furono anche parte integrante di un più ampio movimento post-coloniale che si tradusse con l’appello ufficiale per la creazione di Nuovo Ordine Economico Internazionale nel 1974.


Questo processo di sviluppo egualitario, tuttavia, è stato gradualmente abbandonato negli anni ’90. La guerra ibrida contro la Libia ha raggiunto una svolta prima con il lungo confronto militare in Ciad; e poi con l’imposizione di sanzioni internazionali nel 1992.


Questi due momenti storici chiave culminarono in una massiccia sconfitta ideologica-militare per la rivoluzione libica, le cui conseguenze si riverberarono a tutti i livelli della società. Quando il governo libico iniziò a perdere la sua autonomia sulle politiche economiche, molti membri della classe capitalista guidata dallo stato abbandonarono il loro sostegno alle politiche antimperialiste e cominciarono ad allinearsi con il capitale dollarizzato internazionale.


Come molte altre repubbliche arabe, questo cambiamento ha segnato l’emergere di una classe mercantile/compradora, definita dalla sua relazione parassitaria con il paese e le sue risorse nazionali.


Le élite un tempo nazionaliste e antimperialiste si arricchirono attraverso le rendite commerciali, trasferendo sistematicamente la loro ricchezza all’estero, invece di investire in imprese nazionali o regionali.


In un tale contesto di incertezza geopolitica e di costante minaccia di guerra, ulteriormente aggravato dalle sanzioni multilaterali che hanno progressivamente smantellato le conquiste infrastrutturali e redistributive degli ultimi decenni, cominciarono a comparire reti di clientelismo e strutture di rappresentazione politica meno democratiche.


Il risultato di questi cambiamenti si è tradotto inevitabilmente nell’emergere di disuguaglianze socio-economiche, nel crescente uso della corruzione e della repressione politica (si veda, ad esempio, il massacro di prigionieri avvenuto nella prigione di Abu Salim), nell’aumento della disoccupazione e nel ritorno delle alleanze tribali, utilizzate sia come strumenti di controllo sia come valvole di supporto sociale.


Un bullo moribondo


Dall’invasione statunitense dell’Iraq, il mondo arabo è stato protagonista di un passaggio da un equilibrio tra imperialismo economico e militare, dove l’ideologia della ‘globalizzazione’ economica ha avuto il sopravvento, ad una forma militarista e tecnologica di espansione imperialista, dove si perseguono guerra e impoverimento, come in Libia e Siria.


Di conseguenza, mentre assecondo le intuizioni di Ali Kadri secondo cui le guerre rispondono a un processo di accumulo di rifiuti, sostengo inoltre che queste guerre siano il risultato di contraddizioni globali e, in particolare, del continuo declino del potere imperialista statunitense.


Ciò è derivato dal progressivo declino dell’egemonia americana nel mondo a causa del peggioramento della sua economia interna, che – a sua volta – ha portato al perseguimento e all’accettazione di “guerre incompiute”, in particolare nella regione del Medio Oriente e Nord Africa.


Queste guerre sono tollerate perché stabiliscono un nuovo equilibrio e mantengono alti livelli di concorrenza internazionale, consentendo a molti paesi di partecipare, senza necessariamente dominare, come sta succedendo in Libia.


Il corollario per la Libia è che è cambiata la sua integrazione nell’economia globale. Come? Attraverso la guerra, il militarismo, le missioni di confine e l’atto stesso di uccidere, metodi che si sono imposti come nuovi meccanismi di riproduzione sociale e accumulazione di capitale a livello globale. In un simile scenario, inutili sono le richieste degli attori internazionali per un embargo sulle armi e per il cessate il fuoco.


Perché? Perché le guerre e le loro conseguenze stanno diventando il nuovo terreno di riproduzione sociale per un capitale imperiale che lotta per restare in vita. Le guerre sono diventate sempre più una forma paradigmatica di opportunità di investimento attraverso la quale il Terzo Mondo viene inquadrato e integrato nell’economia globale, dove armamenti, droni e infrastrutture tecnologiche di sorveglianza possono essere testati, perfezionati e riutilizzati a casa.


Quindi, quando si pensa o ci si avvicina alla guerra in Libia, è importante fare un passo indietro e riflettere su quale funzione svolge la guerra nell’economia globale. In tal modo, il terreno della lotta di classe internazionale cambierà improvvisamente e rivelerà inevitabilmente il fallimento dell’atteggiamento della pseudo-sinistra nello schierarsi a favore del prossimo intervento della NATO, come è avvenuto nel 2011.


L’imperativo è iniziare a tracciare chiari collegamenti tra disuguaglianza sistemica e storica in patria e all’estero, riportando inesorabilmente al centro della lotta politica la questione dell’imperialismo.


Per leggere l’articolo completo di Matteo su ROAPE, aprire il collegamento qui.

 * Matteo Capasso è un ricercatore presso il Robert Schuman Center for Advanced Studies dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze. È un esperto di Libia e ha scritto molto sul paese. Dal 2014 lavora anche come editore della rivista accademica, Middle East Critique.

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