Giuseppe Morese: «Il silenzio della sinistra tedesca sulla strage alla ThyssenKrupp è una vergogna»

Giuseppe Morese: «Il silenzio della sinistra tedesca sulla strage alla ThyssenKrupp è una vergogna»

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di Fosco Giannini - Cumpanis

 

Giuseppe Morese, già operaio alla Fiat Ferriere a Torino e poi della ThissenKrupp, sempre a Torino; dagli anni ’60 in poi militante e dirigente in fabbrica della FIOM, comunista, militante del vero P.C.I. (come lui stesso dice) e soprattutto, per l’orrore di quanto accadde, collega dei 7 operai bruciati vivi nello stabilimento ThyssenKrupp il 6 dicembre del 2007. Giuseppe conosce “Cumpanis” e al nostro giornale concede questa intervista. E di ciò, per il grande valore politico e morale del compagno Morese, dell’uomo Morese – un combattente, un vero figlio della classe operaia, come un tempo si diceva – di ciò siamo fieri.

D. Giuseppe, cosa ricordi di quel 6 dicembre 2007, del rogo mortale che si accese alla ThyssenKrupp di Torino, che bruciò vivi 8 operai e 7 ne uccise?

R. Sì: era la notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007. Gli operai disposti lungo la maledetta Linea 5 (dove solitamente, ma non quella notte, lavoravo anch’io) stavano aspettando che ripartisse l’impianto, che era stato fermato per manutenzione, poiché quella disgraziata macchina non andava bene. A mezzanotte e trentacinque l’impianto riparte. Ma il nastro di scorrimento non va regolarmente, sembra incepparsi contro la carpentiera metallica (e c’era stata sino a mezzanotte e trenta la manutenzione: ma quale manutenzione? Come nello spettacolo – the show must go on – il lavoro non si può fermare, il profitto del capitale non si può fermare!), forse il nastro non è stato ben centrato. Sta di fatto che i pezzi della macchina, posti male per la fretta di far ripartire il lavoro, producono un forte attrito, l’attrito sprigiona scintille che bruciano la tanta carta intrisa d’olio che era sulla linea (da dove veniva tutto quell’olio? Era fuoriuscito da circuiti oleodinamici consunti, da tempo da sostituire e mai sostituiti). Tutta quella carta sulla linea da dove veniva? La carta si mette a protezione del nastro d’acciaio e un dispositivo dovrebbe automaticamente rimuoverla. Ma il dispositivo era malfunzionante e anch’esso non era stato sostituito. Tutta quella carta che non doveva starci, imbevuta di tutto quell’olio che non doveva esserci sulla linea, divampa. L’incendio è alimentato dalla segatura e da altri residui della produzione, che non dovevano rimanerci, sulla linea. La segatura è utilizzata sulla linea per assorbire l’olio (tanto, troppo che non doveva essere lì). Il fuoco raggiunge un tubo flessibile dell’impianto idraulico oleodinamico da cui inizia a fuoriuscire l’olio ad alta pressione, nebulizzato. Si forma una nube enorme di fuoco e tutti gli 8 operai presenti sono investiti dalle fiamme. Moriranno, bruciati vivi tra atroci sofferenze: Antonio Schiavone, 36 anni; Roberto Scola, 32 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Bruno Santino, 26 anni; Rocco Marzo, 54 anni; Rosario Rodinò, 26 anni; Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni. Solo Antonio Bocuzzi, “l’ottavo” operaio, seppur anch’egli bruciato, si salverà. Contro il fuoco non ci fu nulla da fare: gli estintori erano scarichi, gli idranti non funzionavano, il personale specializzato che dovrebbe esserci per affrontare queste situazioni di crisi non c’era, non c’è mai stato a sufficienza. Lavoravo sulla loro stessa linea, nel loro stesso turno e ho voluto ricordarli tutti, i miei colleghi, perché mai questa tragedia – la tragedia del grande capitale affamato come una bestia del profitto – dovrà essere dimenticata. Come non dovrà mai essere dimenticato il fatto che diversi di quei miei 7 colleghi morti stavano lavorando già da 12 ore, poiché quando scoppiò l’incendio erano già alla quarta ora di straordinario notturno! Perché, è bene che tutti ne siano consapevoli, col salario operaio non si può campare!

D. C’è stato un lungo processo contro i dirigenti della ThyssenKrupp. Qual è il tuo giudizio sull’esito di questo processo?

R. I padroni tedeschi della ThyssenKrupp le hanno provate tutte per incolpare della tragedia gli stessi operai. Lo voglio dire così, come quei padroni si meritano: hanno sguazzato nel loro profondo e fetido fango per tentare di infagare gli 8 operai. Immagina che la Guardia di Finanza sembra che abbia sequestrato un documento dell’amministratore delegato della ThyssenKrupp, Herald Espenhahn, dove si diceva che Antonio Bocuzzi, l’unico operaio superstite, poiché raccontava l’incendio, andava fermato “con azioni legali”. In quello stesso documento si affermava che tutta la colpa dell’incidente era stata degli operai, “che si erano distratti”.

Ma poi, per i dirigenti ThyssenKrupp, si giungeva ai gravissimi capi di imputazione di omicidio volontario e di incendio doloso e il 15 aprile 2011 la Corte d’Assise di Torino, confermando quei capi d’imputazione, condannava Herald Espenhahn, amministratore delegato della società “ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni s.p.a.”, a 16 anni e 6 mesi di reclusione. E altri cinque manager dell’azienda (Marco Pucci, Gerald Priegnitz, Daniele Moroni, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri) venivano condannati a pene che andavano da 13 anni e 6 mesi a 10 anni e 10 mesi. Il 28 febbraio 2013 la Corte d’Assise d’appello mutava il giudizio di primo grado, non riconoscendo l’omicidio volontario, ma l’omicidio colposo, riducendo le pene ai manager dell’azienda: 10 anni a Herald Espenhahn, 7 anni per Gerald Priegnitz e Marco Pucci, 8 anni per Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, 9 per Daniele Moroni. Fino a quando la Corte d’Appello di Torino ridefiniva in questo modo le pene, il 29 maggio 2015: 9 anni ed 8 mesi a Espenhahn, 7 anni e 6 mesi a Moroni, 7 anni e 2 mesi a Salerno, 6 anni e 8 mesi a Cafueri, 6 anni e 3 mesi a Pucci e Priegnitz.

Come si potrà constatare, mano a mano che passavano il tempo e i processi, le pene diminuivano per tutti, a cominciare da Herald Espenhahn, il capo, che passava da una condanna iniziale di 16 anni e 6 mesi di reclusione ad una di 9 anni e 8 mesi. 

Ma la beffa tragica è ancora un’altra: Herald Espenhahn, l’amministratote delegato, colui che risparmiava sulla pelle degli operai, colui che è il primo responsabile della morte dei miei 7 colleghi, rimasto in Germania e protetto dalle leggi tedesche, è libero, non sconta nessuna pena. Se ne va in giro nelle strade tedesche come se fosse un sereno viandante, un innocente, un uomo senza colpe!

Mi chiedi qual è il mio giudizio sui processi contro l’incendio che bruciò vivi i 7 operai? Presto detto: il potere del capitale non giudica il capitale, le istituzioni della borghesia non condannano la borghesia!

D. La sinistra tedesca, la socialdemocrazia e i sindacati tedeschi hanno lottato, si sono fatti sentire per gli operai ThyssenKrupp italiani?

R. No. Non hanno fatto nulla. Non si sono fatti sentire. E sarà che la tragedia del 6 dicembre 2007 brucia anche la nostra pelle, la pelle degli operai che non erano sulla Linea 5 quella notte, ma io giudico il silenzio della sinistra tedesca una vergogna. Un movimento operaio nazionale è sempre più spesso attaccato dal capitale transnazionale. E si difende con una lotta internazionalista. La lotta contro il capitale è ormai sempre più una lotta contro il capitale internazionale. Se non c’è spirito internazionalista non c’è sinistra. 

D. La ThyssenKrupp di Torino è stata chiusa ed è stata trasferita a Terni. Credi che quella torinese sia stata chiusa per l’incidente del 6 dicembre 2007? E cosa sai delle condizioni in fabbrica dell’attuale ThyssenKrupp di Terni?

R. Lo stabilimento di Torino era già entrato in un’ottica di chiusura e di trasferimento, ma certamente l’incidente del 6 dicembre 2007 ne ha di molto accelerato la dismissione e la partenza verso Terni. Per ciò che riguarda le condizioni attuali degli operai in Umbria non conosco direttamente i problemi, ma le notizie che raccolgo mi dicono che quasi nulla è cambiato rispetto a Torino e la vita e la sicurezza dei lavoratori è sempre a fortissimo rischio. Ciò che va rimarcato è il fatto che i proprietari tedeschi, dopo aver guadagnato tutto ciò che era possibile guadagnare sulle spalle degli operai italiani e sullo Stato italiano, sempre molto generoso con la ThyssenKrupp, ora vogliono vendere lo stabilimento italiano, sono entrati in un’ottica di chiusura: prendi i soldi e scappa!

D. In questo 2021 il lavoro sembra un inferno: le operaie e gli operai morti, i feriti gravi, le malattie da lavoro parlano di una guerra. Che cosa sta accadendo? Come giudichi la situazione?

R. Sì, non solo Luana D’Orazio, morta a 22 anni perché orribilmente trascinata in una pressa e lì maciullata, assassinata dal produttivismo del capitale mentre lavorava in quell’azienda tessile di Montemurlo, in provincia di Prato. Non solo lei. Lo scorso 29 aprile una trave è crollata nel deposito Amazon di Alessandria colpendo sei persone: un morto e cinque feriti. Nelle stesse ore nel porto di Taranto moriva un gruista di 49 anni, precipitato sulla banchina, mentre a Montebelluna (Treviso) un operaio di 23 anni era stato investito da un’impalcatura, morendo sul colpo. Tre morti in un solo giorno. Secondo i dati Inail nei primi 8 mesi del 2021 sono morti sul lavoro 538 operai e operaie, con un incremento significativo tra i giovani con età compresa tra i 20 e i 29 anni. L’Inail ci dice che, in questa prima parte del 2021, sono morte sul lavoro due persone al giorno. Migliaia e migliaia sono i feriti, anche gravi, anche con amputazioni di mani e piedi. Come prodotto del toyotismo (velocizzazione radicale dei ritmi di lavoro e risparmio sulle misure di sicurezza) introdotto nei cantieri navali aumentano a dismisura i casi di cecità tra i saldatori e sordità tra chi lavora col martello pneumatico. Anche le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, del sistema nervoso e dell’orecchio sono, nei primi sette mesi del 2021, continuate a crescere. E sono le prime tre malattie professionali che emergono: dopo queste vi sono quelle del sistema respiratorio e dei tumori.

Vi è un dato su cui riflettere: nel 2020, nella fase di chiusura di quasi tutte le attività e le aziende, le morti sul lavoro sono, naturalmente, di molto diminuite, come gli incidenti. Con la ripresa della produzione, nel 2021, sia il numero dei morti sul lavoro che gli incidenti hanno toccato punte che negli ultimi anni della produttività pre-Covid non si raggiungevano. Come dire: il capitale ha ripreso a produrre e vuole rapidamente recuperare, sulle spalle e con il sacrificio dei lavoratori e delle lavoratrici, la quota di profitto persa nella fase del lockdown.

D. Morte alla ThyssenKrupp, stragi anche in questo 2021 sul lavoro: da dove viene tutto questo sangue, questo orrore?

R. Il capitalismo, caratterizzato dalla spinta dannata verso il profitto, è la formazione sociale più cinica e assassina mai apparsa sulla Terra. Nelle aziende capitalistiche l’operaio è pura merce, anzi una fresatrice vale molto più di lui. Perché se l’operaio si consuma e si rompe se ne trova un altro, senza spese. Se si rompe una fresatrice occorre che il padrone ne compri un’altra. E quella spesa non gli piace. E, ora, pensiamo se si rompe un robot che sta in linea di produzione: per questo il padrone può piangere. Mentre l’operaio morto è anche un po’ un fastidio, per via del magistrato che indaga, per i sindacati che protestano. Il punto è che nelle aziende private, grandi e piccole, non esiste in nessun modo la preparazione al lavoro, alla catena, alla pressa, e gli operai, le operaie sono mandati subito allo sbando, sono sbattuti senza un giorno di “scuola” sul fronte della produzione. Mentre un periodo di “scuola”, e di successivi aggiornamenti, sarebbero tanto necessari per i giovani operai che entrano in fabbrica, per conoscere le macchine, i pericoli. Che sono tanti, lungo ogni linea produttiva, vicino ad ogni pressa, a contatto con le vernici, con i veleni della fabbrica. Ma anche le organizzazioni sindacali non sono più certo quelle di un tempo, compresa la CGIL: rispetto a tanti morti e tanti feriti dov’è la lotta? Come si impone al padrone la sicurezza sul lavoro, al di là dei pianti che si fanno dopo i morti? Al di là delle parole scarlatte che si gridano, e ben presto si spengono, dopo le stragi?

D. Siamo di fronte ad un cambiamento epocale in relazione alla potenza produttrice del capitalismo. Quali contraddizioni ciò comporta?

R. L’attuale capacità produttiva del capitalismo è enorme. L’odierno sistema macchinico generale delle forze produttive capitalistiche ha fatto un salto in avanti impressionante, rispetto solo a 30 anni fa: la robotizzazione, l’informatizzazione, la digitalizzazione possono far sì che il capitalismo produca una quantità straordinaria di merci. E ancor di più sia in grado di produrne. Questo nuovo sistema, avendo meno bisogno di mano d’opera, tende ad espellere da sé i lavoratori, gettandoli in mezzo a una strada. E ciò allarga l’area della povertà, restringendo il mercato. Non poter vendere la grande quantità di merci che il capitalismo produce apre una crisi nel capitalismo stesso. In questo senso la svolta produttiva è epocale. E se siamo di fronte a questa profonda contraddizione non c’è che una via d’uscita: la riduzione secca dell’orario di lavoro, che riporterebbe in fabbrica, nei luoghi della produzione, un’area vasta di lavoratori. Che tornerebbero al lavoro, ma non al mercato, in virtù della sottosalarizzazione di massa. In virtù dei loro salari da fame. Si può vivere, oggi, con 1.300 euro al mese (media del nord d’Italia, poiché al sud è di circa 700 euro)? Non si può assolutamente vivere! Basti pensare al rincaro annunciato delle bollette luce e gas: con questi rincari arriveranno bollette di luce e gas, insieme, di 300, 400 euro. Togli questa parte al salario e cosa rimane per vivere? È per questo che, per i lavoratori, non basta ridurre l’orario di lavoro, necessità ormai storica, nelle cose; ma occorre risolvere la questione del salario, raggelato da anni e anni e ridotto all’osso dall’Euro. Per ritrovare equilibro occorre rivedere tutto: se la questione è allargare l’area del lavoro sia per ridare ossigeno al movimento operaio complessivo che per riaprire il mercato, occorre affrontare la questione delle pensioni. Non si può più arrivare a 67 anni di età in fabbrica, nei cantieri (luoghi della grande fatica, ricordiamolo), sia perché è disumano sia perché occorre lasciare il lavoro ai giovani. 

D. Occorrerebbe, per tutto ciò, riaprire un lungo ciclo di lotte sociali, che per ora non è in vista…

R. Certo, tutto viene dalle lotte e tutto ci è tolto nell’assenza delle lotte. Articolo 18, scala mobile, contratto nazionale di lavoro, diritti sindacali in fabbrica e nei luoghi di lavoro: ma perché si dà per scontato che tutto è perso per sempre? Perché si accettano le imposizioni e le vittorie del capitalismo e dei suoi partiti come leggi immodificabili, ormai “naturali”? Non sarebbe ora di riaprire uno scontro contro i padroni e il governo per il ritorno dell’articolo 18 e della scala mobile? 

D. Qual è, a tuo avviso, oggi, il livello medio della coscienza di classe tra i lavoratori?

R. Naturalmente è basso. Ma come fa la coscienza a ricostruirsi nella mancanza delle lotte, nella mancanza di un sindacato di classe e di massa? Poi, pensa alla precarizzazione di massa che il sindacato ha ormai accettato, persino interiorizzato, mentre occorrerebbe viverla, questa precarizzazione, come uno degli orrori sociali più vergognosi, come si vive l’incesto, un orrore, appunto. Ebbene: questa precarizzazione, oltre che precarizzare la vita, impedisce la costruzione di una coscienza di classe. Come fa un giovane che cambia continuamente luogo di lavoro, fabbrica, azienda, compagni di lavoro, ad avere una coscienza di classe? Quando, negli anni ’60, sono venuto, da Foggia, alla Fiat di Torino, mi sono trovato assieme a 60 mila operai. E quella era la mia fabbrica, quelli erano i miei compagni. In quel contesto cresceva la mia coscienza politica e di classe. Come fa, ora, un giovane, senza guida sindacale di classe, senza un partito comunista degno di questo nome, un giovane spostato continuamente qua e la, a farsi una coscienza? È molto più facile, come infatti avviene, che conquisti solo una grande rabbia mista ad un grande individualismo politicamente passivo.

D. Partito comunista, hai detto. Ne sente la mancanza, la classe?

R. Ne sente una grande mancanza, anche se magari non lo sa, non ne è nemmeno consapevole. Ma “lo sente” fortemente. E sarebbe davvero ora che gli intellettuali, i quadri, i militanti comunisti più avanzati, appartenenti alle piccole organizzazioni comuniste presenti e quelli senza organizzazioni (che credo siano la stragrande maggioranza) si ponessero con grande forza e determinazione, come prima questione, quella di unire i comunisti, così tanto divisi, e ricostruire un più forte partito comunista. Non sai quante volte ne parliamo, tra i compagni.

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