Il no all'estradizione di Assange e il record di suicidi nelle carceri USA

Il no all'estradizione di Assange e il record di suicidi nelle carceri USA

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L’udienza di estradizione del giornalista australiano Julian Assange, fondatore del sito Wikileaks, fissata a Londra per il 4 gennaio, ha avuto un esito inaspettato: la giudice britannica ha respinto la richiesta degli Usa, scatenando la gioia dei numerosi attivisti che aspettavano fuori dall’aula. Una sentenza, tuttavia, spigolosa, perché riafferma tutti i 17 capi d’accusa addotti dagli Stati uniti, equivalenti a 175 anni di carcere.

L’estradizione viene negata per motivi di salute, in particolare perché le condizioni detentive che vigono negli Stati Uniti avrebbero potuto indurre al suicidio il giornalista. Durante l’udienza, vari psichiatri hanno spiegato quanto il giornalista australiano sia prostrato, sia nel fisico che nella mente. Certo, le condizioni delle carceri britanniche non hanno niente da invidiare a quelle nordamericane, soprattutto quando si tratta di annientare i prigionieri politici: ricordiamoci di Bobby Sands e dei suoi compagni. Che le condizioni detentive, negli Stati Uniti, siano tali da indurre al suicidio, è comunque un dato inoppugnabile.

Un’inchiesta della Reuters, pubblicata a ottobre, relativa al 20% delle carceri statunitensi, di bassa e media sicurezza, ha contato 7.500 morti negli ultimi 12 anni. Proiettato sulla totalità della struttura penitenziaria, e considerando che nelle carceri di massima sicurezza le morti vanno calcolate al rialzo, si conterebbe una media di 3.125 decessi all’anno. Detenuti morti per mancanza di assistenza sanitaria, per infortuni o per omicidi. I suicidi calcolati dallo studio sono stati 2.075, i 3/4 dei quali si sono tolti la vita prima del processo o prima del rinvio a giudizio.

Anche l’ex soldato Bradley Manning, diventato Chelsea dopo un’operazione di cambio di sesso, ha tentato il suicidio lo scorso marzo, per le forti pressioni a cui viene costantemente sottoposta dagli organi di sicurezza USA, che vogliono trasformarlo in una teste d’accusa contro Assange. Da soldato, l’ex analista di intelligence Manning, nel 2010, aveva consegnato a Wikileaks oltre 700.000 documenti riservati riguardanti le guerre in Iraq e in Afghanistan, che comprendevano anche più di 250.000 documenti diplomatici.

Erano emersi così i crimini di guerra, la corruzione e lo spionaggio globale del governo statunitense in quello che è stato chiamato il “cablogate”. Wikileaks aveva filtrato e pubblicato migliaia di cablogrammi riservati, che hanno provato i crimini di guerra commessi da soldati, e molte altre comunicazioni sull’intreccio di interessi che guida le politiche imperialiste.

Una corte marziale statunitense ha condannato Manning a 35 anni di carcere, ma Obama le ha concesso la grazia nel 2017, dopo sette anni di prigione, durante i quali aveva iniziato le operazioni per il cambio di sesso. Le sue pendenze giudiziarie, però, non sono finite, e così pure le pressioni del governo USA per portarla a deporre in un processo a porte chiuse con cui inchiodare Assange.

Quanto al fondatore di Wikileaks, è stato arrestato dalla polizia britannica nell'aprile 2019, dopo che per sette anni aveva trovato rifugio nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra. Assange era entrato nella sede diplomatica per sfuggire ad un mandato di cattura svedese per accuse di stupro evidentemente pretestuose, e che poi sono decadute. Ad accoglierlo, allora, fu l’Ecuador di Rafael Correa in un’America Latina ancora in maggioranza progressista, i cui presidenti daranno la loro disponibilità ad accogliere anche Edward Snowden, l’ex analista della CIA, quando questi farà scoppiare lo scandalo del Datagate, nel 2013.

Con il tradimento di Moreno, subentrato a Correa alla presidenza dell’Ecuador, Assange è stato consegnato ai britannici. Nonostante la salute cagionevole, dal maggio del 2019, è detenuto nel carcere londinese di Belmarsh. Il relatore dell’Onu contro la tortura, Nils Melzer ha chiesto alle autorità britanniche di liberarlo, dato che in quel carcere 65 dei 160 detenuti sono risultati positivi al Covid-19, ma senza esito. Anche la richiesta di grazia rivolta a Trump dai legali di Assange è rimasta senza risposta. Ora, una nuova richiesta è sul tavolo di John Biden.

Dopo la sentenza di oggi, gli avvocati del giornalista sono in attesa di una scarcerazione per motivi di salute su cauzione. L’amministrazione Usa ha intanto dichiarato di essere “estremamente delusa” dalla decisione britannica e che farà appello entro i 14 giorni previsti. La questione è, quindi, più che mai aperta.

Dopo la sentenza, il presidente messicano Manuel Lopez Obrador, che ha già concesso asilo a 7 dirigenti boliviani costretti alla fuga dopo il golpe dell’anno scorso, ha manifestato la disponibilità ad accogliere anche Assange. E, dalla Russia, dov’è in attesa della cittadinanza, Snowden si è rallegrato per l’esito della sentenza, unendosi ai messaggi che hanno espresso soddisfazione per la sentenza.

Indubbiamente, un fatto significativo, considerando il rapporto privilegiato che vige tra USA e Gran Bretagna, smascherato ulteriormente dalle rivelazioni di Wikileaks. Indubbiamente, una maniera di rafforzare la convinzione nella natura democratica delle istituzioni britanniche in un momento di crisi profonda determinata dal Covid-19 e in una fase politica delicata determinata dalla fuoriuscita dall’Unione Europea con la Brexit. Un mondo, anche, di togliere momentaneamente le castagne dal fuoco agli Stati Uniti che stanno per cambiare presidente.

Sulla decisione “umanitaria” deve comunque aver pesato la pressione esercitata dalle grandi agenzie dell’umanitarismo come Amnesty International o Human Right Watch, schierate in difesa della “libertà di espressione”. Numerosi giuristi e accademici avevano espresso preoccupazione circa l’applicazione della Legge sullo spionaggio, che data del 1917 negli Stati Uniti, a un giornalista, per la prima volta nella storia.

Per questo, l’accusa ha puntato a dimostrare che Assange è un hacker che ha organizzato altri hacker per rubare segreti militari. E anche la giudice britannica ha avallato questa tesi. Per la difesa, Assange avrebbe invece dovuto essere protetto dal cosiddetto Primo Emendamento, in quanto con il suo lavoro ha mostrato crimini che, sulla carta, esulano da quella stessa democrazia. Tra questi, il video dell’attacco aereo nordamericano che, nel 2007, ha ucciso a Baghdad 11 persone, tra cui due giornalisti della Reuters.

Il caso di Assange mostra una volta di più la foglia di fico della “democrazia” nordamericana. Alla vigilia della sentenza, un articolo dell’analista argentino Atilio Boron, dal titolo “Miseria morale del giornalismo indipendente” ha inoltre denunciato il silenzio delle associazioni nazionali del giornalismo latinoamericane - gruppi di potere di solito pronti a sparare a zero su presunte violazioni alla libertà di stampa nei paesi non graditi a Washington – sulla vicenda Assange.

 Corporazioni replicanti le informazioni provenienti dagli Stati Uniti e dalle loro agenzie, e che per questo tacciono sulle violazioni alla libertà di stampa commesse in Nordamerica. Boron ha ricordato che, dopo l’assassinio di George Floyd e le proteste del movimento Black Lives Matters, sono stati aggrediti dalla polizia 322 giornalisti, a 76 dei quali sono stati distrutti gli strumenti di lavoro o le postazioni stampa e 13 sono stati denunciati e mandati a processo. E che, nel 2018, 5 giornalisti sono stati uccisi negli Stati Uniti.

Ma questo non fa notizia sui media egemoni, impegnati invece in un fuoco di fila concentrico, di falsità o di omissioni nei confronti del Venezuela bolivariano, di Cuba o del Nicaragua. D’altro canto, la grande concentrazione monopolistica dell’informazione a livello globale segue quella economica, e segue le medesime modalità di controllo capitalistico. I media sono sempre più attori di primo piano nella costruzione delle aggressioni imperialiste come nelle guerre di quarta e quinta generazione. Ma se possono permettersi di condizionare in questo modo la cosiddetta “opinione pubblica”, è perché non esiste un argine che contrasti l’egemonia borghese.

Nel secolo scorso, quando lo scontro di concezioni era senza quartiere, non ci sarebbe stato bisogno degli Assange e degli Snowden: le piazze di tutto il mondo sapevano sbugiardare con la lotta la retorica dell’imperialismo, ne conoscevano in carne propria la vera natura.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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