Il triplice comando capitalistico sul lavoro salariato

Il triplice comando capitalistico sul lavoro salariato

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di Luciano Vasapollo - Contropiano

 

La cosiddetta “economia pura” (ammettendo che esista come uno statuto scientifico in un senso formale ed esplicativo della realtà) non riesce a offrire una teoria del modo di produrre del capitalismo (mpc) nelle sue forme di movimento, leggi e tendenze per ogni epoca (che è precisamente il livello di astrazione raggiunto da Marx nel Capitale).

Ma è necessario in effetti passare alla pratica, con una serie di casi concreti, per comprendere l’attuale fase di globalizzazione della produzione e della riproduzione sociale in termini capitalistici, considerando la teoria del modo di produzione capitalistico come un processo globale. 

In questo senso, si tratta di economia applicata e non di un tentativo puramente accademico, che individua le varie economie applicate all’ambiente, all’ingegneria, alla sociologia, tra gli altri aspetti.

Presentare una critica complessiva – non esaustiva – significa anche suggerire possibili linee di approfondimento, sia affrontando il materiale empirico sia esaminando aspetti qui appena accennati, e sviluppando le determinazioni concettuali che vengono proposte, talvolta in modo semplificato.

Ne sono un esempio i fenomeni di esternalizzazione, delocalizzazione o dislocazione produttiva in regioni e stati diversi, precarietà, disoccupazione fluttuante o stagnante; sono tutti processi interni di una fabbrica sociale generalizzata. 

Si tratta di: a) continuità della produzione come produzione e riproduzione (perché se il lavoro di una ipotetica comunità, piccola o grande, si fermasse anche solo per un mese, morirebbero tutti); b) lavoro e produzione sempre entro certi rapporti di produzione. Inoltre, ciò suppone: c) che le forze produttive della comunità – soggettive e oggettivate (macchine, “tecnologie”, ecc.) – esistano, si modifichino, si sviluppino e si deteriorino anche nell’ambito di certi rapporti di produzione. 

Infatti, le “forze produttive” immobilizzate nella loro astrazione, indipendentemente dai rapporti in cui si sviluppano e operano, non possono esistere se non al di fuori del processo produttivo, come scarti che la ruggine farebbe rientrare nel ciclo naturale. 

In questo processo pluriennale (basta leggere i dati statistici provenienti da fonti ufficiali come Eurostat, Banca Mondiale, ecc.) viene modificato e rafforzato un triplice comando sul lavoro salariato. 

Primo comando: rispetto alla massa segmentata, stratificata, disponibile dei venditori di forza lavoro, il capitale tende a scegliere in ogni momento quali e quanti lavoratori incorpora nella produzione o, al contrario, scarta; cioè li rende precari o semplicemente ci invita a considerarli inutili (come dice Mazzone, invitato a morire). 

Il secondo comando del capitale è quello esercitato sul processo produttivo stesso. Dal momento in cui si vuole creare un bene o un servizio, il capitale tende ad assumerlo e fa apparire come sua forza produttiva l’utilizzo di tecniche, l’organizzazione del lavoro, le innovazioni di processo e di prodotto, che rendono possibile la realizzazione del prodotto o di una gamma di loro in un dato momento. 

Il terzo aspetto del ruolo del capitale è che il prodotto (bene o servizio) è merce e, quindi, deve essere venduto; solo con questa vendita si concretizza la rivalutazione del capitale. Di conseguenza, l’intero processo produttivo dei beni è regolato dalla logica della valorizzazione.

Se si rinuncia a quanto sopra, non è possibile comprendere il processo in corso di globalizzazione capitalista.

Ecco perché, nei vari tentativi di costruire una scienza economica – ma anche una critica dell’economia – la scarsa conoscenza delle dinamiche del capitalismo porta a sbagliare il percorso ed a finire per “catturare formiche credendo di cacciare elefanti”.

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