Lo “zoon politikon” ai tempi del Covid

Lo “zoon politikon” ai tempi del Covid

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di Brian Cepparullo - La Fionda

 

Le politiche di contenimento al virus, a prescindere dalla loro effettiva efficacia, si configurano come un attacco senza precedenti ai legami umani, alle relazioni, all’aggregazione sociale e al senso di collettività, oltre che alla prossimità e alla fisicità dei contatti. Non sono a conoscenza di civiltà o regimi politici del passato che si siano accaniti in tal modo nei confronti della dimensione più intima della natura umana.

 

L’uomo infatti è un essere intrinsecamente sociale, è un homo socius [1]. Egli nasce all’interno di un nucleo sociale, che è la famiglia e avvia il suo sviluppo psichico a partire dalla relazione di dipendenza dalla madre.

 

I classici, ad esempio gli antichi greci, riconoscevano questo dato di realtà. Aristotele affermò che l’uomo è “zoon politikon” (animale politico). E ancora che “lo schiavo è colui che non ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive” [2].

 

Oggi invece, ai tempi del Covid, la mente è offuscata dalla paura del contagio. Ci siamo dimenticati questo ovvietà e abbiamo abbracciato quella che Agamben chiama la neonata religione della salute, in cui curarsi, da diritto, diventa un obbligo da far rispettare anche con la coercizione [3]. Si afferma così il principio secondo cui la sopravvivenza biologica è l’unica cosa che conta e va difesa a ogni costo, anche a discapito di ripudiare la nostra natura relazionale e sociale.

 

Rinnegare i legami è sintomatico anche di una profonda irrazionalità che ci sta affliggendo. È stata ormai instillata nelle nostre menti la doxa che ogni contatto umano sia una potenziale fonte di infezione. Nonostante l’evidenza scientifica, grande assente del dibattito pubblico e dall’agenda mediatica, ci dica che solo il 5% dei positivi si ammali gravemente e fra questi solo un esiguo segmento, spesso già in condizioni precarie, abbia un esito fatale, continuiamo a comportarci come se la morte potesse colpirci in ogni istante: quando facciamo la spesa, quando prendiamo il caffè, quando facciamo shopping, quando prendiamo il treno. Abbiamo smarrito il senso della proporzionalità.

 

La società è oramai inerme di fronte a una propaganda mediatica sistematica e coordinata, caratterizzante la pressoché totalità di giornali e televisioni, tramite la loro ossessiva ripetizione di messaggi di morte. Facendo leva sull’atavica paura di morire della gente, il giornale unico del virus ha fomentato una narrazione tesa da un lato alla costruzione di un nemico comune, il quale funge da pretesto alla “retorica della guerra”; dall’altro a innalzare la scienza come autorità detentrice della verità e in ultimo a legittimare le restrizioni della vita sociale. La comunicazione è basata sull’autorità dell’esperto, rappresentata da quella truppa di virologi, medici, infettivologi, epidemiologi e scienziati (o pseudo-scienziati), che tramite l’occupazione pressoché militare dei presidi mediatici delimitano il campo del vero e del falso nel discorso pubblico, determinando di fatto l’agenda politica.

 

L’esperto assume anche una funziona moralizzatrice in quanto funzionario-sacerdote del nuovo credo tecno-scientifico. Pertanto ammonisce la plebe dei loro peccati, come ammassarsi nelle discoteche, nei bar, negli aperitivi della movida, nello sport o anche nella semplice passeggiata col cane. Questa conventicola rumorosa di cui fino a pochi mesi fa non conoscevamo neanche l’esistenza, giunge a livelli di biopolitica tali da prescrivere gli atteggiamenti da tenere a casa con amici e parenti o come effettuare gli acquisti di natale (ovviamente su Amazon) e persino i comportamenti sessuali.

 

Tutto questo perché siamo guerra. Ma in guerra contro chi?

 

Si parte da quell’assunto che l’uomo altro non è che un ammasso informe di virus e batteri e pertanto potenziale vettore di infezione verso gli altri. Un esempio chiaro di questa deriva è stato il modo in cui furono trattati i corpi dei morti nella fase acuta dell’epidemia, lasciati a morire da soli e bruciati di fretta senza nemmeno concedere un saluto ai propri familiari, come se non si trattasse più di cari che ci hanno lasciato ma di semplici residui organici, scorie da eliminare.

 

Rappresentare l’uomo in questi termini riconduce il problema della cosiddetta pandemia globale a una dimensione micro-individuale in cui gli individui, in quanto unità biologiche, sono portatori di rischio (una sorta di peccato originale) soprattutto per gli altri, nella retorica della difesa dei deboli e dei vulnerabili. Questo potenziale pericolo biologico ha giustificato, e giustifica, la riduzione della vita sociale ad uno stato di segregazione domestica ed esclusivo consumo alimentare e ludico-solistico. Il problema pertanto non è più il virus in sé, ma gli individui, le unità, senza le quali il virus non potrebbe trasmettersi e non potrebbe esistere.

 

Conseguentemente la guerra al virus trova la sua prassi bellica nel conflitto verso gli individui, o più precisamente nei confronti della socialità attraverso cui i comportamenti individuali si manifestano. Il nemico è dentro di noi [5]. La guerra al virus, condotta a fine di salute pubblica e quindi con il fine di salvare la vita, diventa una guerra contro la vita stessa, intesa come la manifestazione sociale dei comportamenti umani. In altre parole, combattendo il virus combattiamo noi stessi e la nostra stessa idea di vita.

 

Se abbiamo, legittimamente, dubbi sull’efficacia delle misure restrittive nel contenere la diffusione del virus, possiamo essere certi degli effetti devastanti che queste hanno sulle relazioni, la socialità e l’aggregazione. Se dovessimo giudicare le misure dai loro effetti, isolandoli dalle dichiarate intenzioni, potremmo concludere che sia l’interazione umana ad essere il vero virus identificato dal regime tecno-scientifico. Non a caso il distanziamento viene solitamente qualificato come sociale e non fisico o di altro genere. A dimostrazione di ciò vi sono le restrizioni imposte dal governo sulle festività natalizie, che si concretano in un’aggressione ai valori e i sentimenti familiari.

 

La guerra ai legami, ahimè, non è un fatto storicamente nuovo. La progressiva egemonia della dottrina neoliberista all’interno del sistema capitalistico aveva già posto le basi per un paradigma fondamentalmente anti-relazionale. Come affermò Margaret Thatcher, “non esiste una società, ma esistono individui”. Il neoliberismo ha condotto (o contribuito) alla società liquida, in cui i corpi solidi, naturali sorgenti di relazioni e contatti, si dissolvono e lasciano posto ad una continua mutevolezza che rende le persone inevitabilmente insicure, paurose e sole [4]. La prossimità, oggi sede di timori sanitari, ieri era già sede di ansie e insicurezze relazionali.

 

Virtualizzazione delle relazioni nell’ordine tecno-liberista

Alla progressiva privazione delle relazioni sociali segue la sistematica introduzione di dispositivi tecnologici, che mediano virtualmente i nostri contatti umani. L’umanità entra nel remoto. Nella realtà virtuale non sono gli uomini a essere riconosciuti, bensì la loro funzione all’interno dell’apparato. La società passa dalla faccia all’interfaccia. La narrativa dominante rappresenta la virtualizzazione dei rapporti umani, oramai elevata a norma, quale frutto della necessità del virus e dell’emergenza. In realtà questo è un mondo che era già in cantiere, e che aveva bisogno di un evento che ne definisse l’orizzonte d’origine: l’anno zero. L’epidemia è stato l’utile pretesto per accelerare tendenze già esistenti, per traghettare il mondo verso un nuovo ordine tecno-liberista [3]. Lo stato funge da strumento di questa grande trasformazione (dopo quella descritta da Polany) con l’istituto dello stato d’emergenza e del paradigma securitario. La salute è solo il grimaldello attraverso cui scardinare gli ultimi residui di resistenza delle marcescenti democrazie borghesi e penetrare negli ambiti della sfera privata e dei corpi.

 

Questo è il grande sogno della Big Tech, e di quell’universo che orbita intorno a essa, che Eric Sadin identifica come: Un insieme che vede l’implacabile alleanza di potenze industriali ed economiche, responsabili politici, un ampia fetta del mondo universitario e scientifico e gruppi di influenza di varia natura che, con il pretesto di inserirsi nella “direzione della storia” e di rappresentare le forze progressiste, lavorano al rapido sradicamento dei nostri principi fondatori e alla diffusione di un anti-umanesimo radicale [6].

 

Il mondo che stanno costruendo appare come un ordine altamente autonomizzato, ottimizzato, dove l’individuo è costantemente monitorato e controllato, dove le città come il lavoro diventano smart e il privato non esiste. Sono gli uomini che rispondono alle macchine e non viceversa; i loro algoritmi, e i loro big-data, scandiscono ormai la vita umana, che diventa un puro surrogato della tecnica.

 

In questa prospettiva trova senso la bulimia normativa a cui stiamo assistendo dall’inizio della pandemia: tanto più la condotta è istituzionalizzata tanto più prevedibile e quindi controllata diventa [7].

 

La guerra al virus è una guerra totale alle relazioni e la socialità, con l’effetto di esonerare gli uomini da loro stessi: renderli privi di legami, disintegrando quella trama relazione che è il vero fulcro della nostra esistenza. La vita merita di essere vissuta nella sua incredibile e straordinaria varietà di forme e ogni vita degnamente vissuta conduce a rischi di ogni natura. Non possiamo lasciare che un virus, per quanto pericoloso sia, stravolga per sempre la nostra esistenza. Non possiamo accettare questo mondo che ci stanno imponendo come la nuova normalità.

 

[1] [7] L’espressione homo socius e la citazione, sono presi da La realtà come costruzione sociale, Peter L. Berger e Thomas Luckmann, il Mulino, 1969, p.73. e p.87.

[2] La citazione è presa da L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag e Gerard Schmit, Feltrinelli, 2004.

[3] [5] La citazione è presa da A che punto siamo?, Giorgio Agamben, Quidlibet, 2020, p.27.

[4] La solitudine del cittadino globale, Zygmunt Bauman, Feltrinelli, 2008.

[6] Critica della ragione artificiale, Eric Sadin, Luiss University Press, 2019, p.24

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