“Né Lula né Bolsonaro”, in Brasile i potentati economici cercano “una terza via”

“Né Lula né Bolsonaro”, in Brasile i potentati economici cercano “una terza via”

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Le manifestazioni del 7 settembre in Brasile, mediante le quali il presidente Jair Bolsonaro aveva lasciato intendere di voler emulare le gesta suprematiste del suo amico Donald Trump durante l’assalto a Capitol Hill, non hanno prodotto l’effetto sperato. Il temuto auto-golpe, per quanto ancora ventilato, non sembra avere né gambe solide su cui marciare, né il sostegno dei potentati economici che avevano costruito dal nulla il torvo personaggio Bolsonaro: giocandolo in funzione anti-progressista, nella strategia di golpe istituzionale e lawfare messa in marcia cinque anni fa con l’impeachment contro l’allora presidenta Dilma Rousseff.

In un paese che affonda sempre più in una crisi multiforme – economica, politica, sanitaria, sociale e ambientale -, la retorica fascista di Bolsonaro, che riscuote sempre meno consenso anche nelle aree più suggestionabili, sta impaurendo i manovratori: come spesso accade nella storia, la borghesia prima si serve del fascismo, ma poi se ne ritrae quando compare il suo volto più reazionario, per timore di veder danneggiati i propri interessi. Tanto più che a governare gli Stati Uniti ora c’è Biden.

E così, alcuni dei suoi principali rappresentanti come i due principali governatori di San Paolo e di Rio Grande do Sul, che prima sostenevano Bolsonaro, ora ne stanno chiedendo l’impeachment, al pari di 15 governatori passati all’opposizione e alla potente federazione degli industriali di San Paolo. Tutti sono alla ricerca di una “terza via” per le elezioni presidenziali del 2022.

Per preparare il terreno, domenica scorsa si sono svolte manifestazioni in diverse capitali del paese, organizzate da formazioni conservatrici come il Movimiento Brasil Libre (MBL) e il VPR (Vem Pra Rua), con lo slogan: “né Lula né Bolsonaro”. Intanto, tutte le inchieste danno in grande vantaggio il candidato progressista Lula Da Silva. Solo il 20% afferma che rivoterebbe Bolsonaro, e meno del 10% si dichiara militante bolsonarista.

“Stiamo vincendo”, ha detto in un’intervista il dirigente dei Sem Terra Joao Pedro Stedile, ricordando i numeri delle manifestazioni del 7 settembre: 120.000 a San Paolo e 50.000 a Brasilia per i bolsonaristi, 400.000 per i militanti di movimenti, partiti e sindacati di sinistra, in piazza in 200 città del Brasile. D’altro canto, seppur cresciuto alla scuola dell’ideologo di Trump, Steve Bannon, l’ex militare brasiliano, ammiratore della passata dittatura, non può vantare basi economiche e politiche altrettanto solide del tycoon nordamericano.

Come fece il suo idolo sconfitto dopo il fallito attacco a Capitol Hill, Bolsonaro ha dovuto perciò rivolgere le scuse al paese, sostenendo che con le minacce alla magistratura e gli incitamenti ad accerchiare le istituzioni della Repubblica nel giorno dell’Indipendenza, non intendeva dire quello che ha detto. E durante le manifestazioni ha dovuto chiedere ai camionisti che stavano mettendo in pratica i suoi incitamenti, di rimuovere i blocchi stradali e lasciar libero l’accesso alle sedi dei ministeri e del Tribunal Supremo Federale.

La destra in guanti bianchi sta peraltro cercando abboccamenti con l’opposizione per liberarsi di Bolsonaro tramite impeachment, e anche per intrappolare la sinistra nei soliti bizantinismi istituzionali, in assenza di una riforma costituzionale capace di superare la frammentazione del quadro politico. Nei mesi scorsi, l’opposizione brasiliana ha proposto un emendamento alla costituzione elaborato dalla deputata del Partito Comunista, Perpetua Almeida, che mira a evitare la presenza di militari attivi nei posti di governo.

Il gabinetto Bolsonaro è formato da un gruppo di nostalgici della dittatura militare che ha funestato il Brasile tra il 1964 e il 1985. Lo stesso presidente è capitano di riserva dell’esercito, mentre il suo vice, Hamilton Mourao, è generale riservista. Ma già lo scorso marzo, durante la crisi di governo che ha portato alla destituzione di sei ministri, i capi dell’esercito, l’armata e della forza aerea hanno presentato le loro dimissioni in segno di protesta per le pressioni che stavano ricevendo da Bolsonaro per obbligarli ad appoggiarlo nelle sue varie battaglie politiche.

Con la retorica incendiaria delle ultime settimane, Bolsonaro cerca di giocarsi tutte le cartucce per evitare di essere sputato fuori dal meccanismo che l’ha generato. Uno dei suoi figli, Carlos, potrebbe infatti finire in carcere per deviazione di soldi pubblici, giacché il suo incarico di consigliere comunale a Rio de Janeiro non gli dà diritto all’impunità. Stessa sorte potrebbe toccare alla seconda ex moglie di Bolsonaro, che era la tesoriera della famiglia.

Intanto, i disoccupati sono 60 milioni: “rappresentano – ha detto Stedile – un numero pari alla terza nazione dell’America Latina”.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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