Perché gli USA sono in bilico

Perché gli USA sono in bilico

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di Michele Metta
 

È di queste ore la notizia di un evidentissimo risultato in bilico nelle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Da storico quale sono, offrirò una rapida chiave di analisi del perché di questo niente affatto sorprendente stallo.

 

Ted Sorensen è stato un pilastro della presidenza di John Kennedy. Più in generale, è stato un pilastro della storia politica USA, come eccellentemente da lui stesso ricostruito nel suo libro autobiografico intitolato, con sobria ma incisiva semplicità, Conselour; vale a dire, Il Consigliere. Ebbene, se si prende in mano tale volume, si arriva ad un tagliente giudizio su Biden, l’attuale candidato dei Democratici nella corsa alla Casa Bianca. Ma per chiarire bene ragioni e origini di questo fondatissimo giudizio, occorre sapere che Sorensen fu a pochi metri, centimetri, dal conquistare il posto di Direttore della Central Intelligence Agency.

 

Erano, quelli, gli anni post-Watergate, quando era venuto ufficialmente allo scoperto quanto la CIA fosse una agenzia che costantemente abusava dei propri poteri, complici presidenti come Nixon, ma non solo Nixon. Abusi che avevano condotto a scempi come quello del colpo di Stato in Cile, dove Allende era stato brutalmente fatto fuori, assieme alla sua solare democrazia, semplicemente perché i Nordamericani non gradivano di aver perso, grazie alla sacrosanta statalizzazione operata, appunto, da Allende, lo sfruttamento del rame cileno.

 

Era stato soprattutto grazie a tutto questo che il Democratico Carter era riuscito a vincere la competizione presidenziale del 1976. Il popolo aveva aperto gli occhi, e gli aveva spalancato le porte dello Studio Ovale. E proprio quale forte segnale di rottura, di farla finita con una CIA reazionaria ed antidemocratica, Carter aveva proposto Sorensen alla guida della massima agenzia di spionaggio del proprio Paese. Ma come è prassi, tale nomina doveva superare il vaglio di un’apposita Commissione. In tale fase di vaglio, Biden, all’epoca membro di tale Commissione, si profuse in una delle vergognose giravolte di cui la sua carriera politica è piena: rassicurò privatamente Sorensen che avrebbe votato a favore della nomina, ma, poi, attaccò invece frontalmente Sorensen durante la audizione di questi innanzi alla Commissione anzidetta. Cosa che, nel proprio libro, fa esclamare a Sorensen un lapidario “the prize for political hypocrisy in a town noted for political hypocrisy went to Joe Biden”. Tradotto: “Il premio per l’ipocrisia politica in una città nota per l’ipocrisia politica, se lo guadagnò Joe Biden”. La città, ovviamente, è Washington.

 

Insomma: fin da allora, Biden è rivelato per quello che è: un mestierante mediocre, pronto a vendere l’anima se mai una ne possedesse.

 

Veniamo, adesso, a Trump, Presidente uscente e sfidante repubblicano di Biden.

 

Allorquando Trump vinse, nel 2016, cercò l’appoggio di Putin. Nel corso delle manovre per tentare di approdare a tale appoggio, un suo uomo chiave, Michael Flynn, un ex generale, fece pressioni sul Cremlino affinché rigettasse la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la quale esprimeva condanna nei confronti di Israele per le sue politiche scellerate nei confronti dei palestinesi. Pressioni che, va chiarito, avevano dietro le stesse autorità israeliane, e che, va chiarito altrettanto, la Russia si guardò bene dal seguire. Un fatto che racconto per sottolineare quella che è la matrice di tutta la presidenza di Donald Trump: una indefessa sottomissione ad Israele, culminata nel trasferimento della Ambasciata USA, ora collocata a Gerusalemme. Un gesto di cecità politica come pochi nella Storia.

Anche qui, quindi, tirate le somme, Trump si rivela lui pure, al pari di Biden, un mestierante mediocre, pronto a vendere l’anima se mai una ne possedesse.

 

È chiaro che dallo scontro tra due contendenti dove l’elettore è chiamato a cercare di capire quale tra i due sarebbe il meno peggio, si giunge in un attimo a questo stallo che è sotto gli occhi di tutti.

 

Ben diversa, ovviamente, sarebbe ora la partita se lo sfidante di Trump fosse stato quello specchiato uomo che è Bernie Sanders. Ma così come accaduto nel 2016, l’apparato del Partito Democratico USA ha scelto la strada suicida di boicottare Sanders, come del resto sottolineato apertamente anche dal figlio di Sanders sulla propria pagina Facebook qualche tempo fa, come ho messo in evidenza in un mio articolo uscito all’epoca dei fatti, ed al quale rimando.

 

Sanders che, per dirla tutta, è stato estromesso vigliaccamente dalla sua stessa formazione politica per via di un semplicissimo fattore: scandì in modo chiaro la realtà, definendo le autorità israeliane con l’epiteto che meritano, e cioè quello di criminali. Le autorità israeliane – si badi– non il popolo israeliano, di cui, per chi se ne fosse mai dimenticato, lo stesso Sanders è parte. Cosa che, però, non ha salvato Sanders dalle solite, convenienti accuse di antisemitismo che, puntualmente, vengono sfornate in questi casi, come ha messo in evidenza un altro illuminatissimo intellettuale ebreo, Gideon Levy, il quale ha detto: “The Israeli lobby, the Jewish lobby, are, by far, too strong and too aggressive. It’s not good for the Jewish community. It’s not good for Israel. […T]he Israeli propaganda and the Jewish propaganda in recent years made it as a systematic method, whenever anybody dares to raise questions or to criticize Israel, he is immediately and automatically labeled as anti-Semite, and then he has to shut his mouth, because after this, what can he say? This vicious circle should be broken. [... We must] be courageous enough to stand in front those accusations and to say, ‘Yes, it is legitimate to criticize Israel. Yes, it is legitimate to raise questions. And this does not mean that we are anti-Semites. We are not ready to play this game anymore, in which they shut our mouths with those accusations, which, in most of the cases, are hollow.’” Tradotto: “La lobby israeliana, la lobby ebraica, sono, di gran lunga, troppo potenti e troppo aggressive. Questo non fa bene alla comunità ebraica. Non fa bene ad Israele. [L]a propaganda israeliana e la propaganda ebraica in anni recenti lo hanno reso metodo sistematico: ogniqualvolta qualcuno si arrischi a porre domande o a criticare Israele, questo qualcuno è bollato immediatamente ed automaticamente di antisemitismo, è a quel punto deve tapparsi la bocca, perché, giunti a questo, che mai gli resta da poter dire? Questo circolo vizioso deve essere spezzato. [… Occorre] assumersi il coraggio di resistere a queste accuse e dire: ‘Sì, è legittimo criticare Israele. Sì, è legittimo sollevare domande. E ciò non significa essere antisemiti. Non siamo più disposti a subire questo giochetto, dove ci tappano la bocca con queste accuse, che, nella maggioranza dei casi, sono prive di fondamento”.

 

Un giochetto di cui è stato vittima Jeremy Corbyn, il politico laburista inglese sottoposto all’ignominia delle false accuse di antisemitismo per essersi lui pure espresso contro gli abusi delle autorità israeliane. Un giochetto –mi sia concesso dirlo– che conosco bene io pure: si è accanito anche contro la mia pelle non appena ho messo in rilievo i legami tra Israele ed il Centro Mondiale Commerciale, la S.p.A. di facciata che nascondeva i peggiori interessi USA ed israeliani. La S.p.A. per la quale lavorava Clay Shaw, incriminato nel 1967 dal Procuratore di New Orleans, Jim Garrison, per aver cospirato contro John Kennedy, determinando in tal modo l’assassinio di tale Presidente.

 

Ci fosse ora Sanders a correre contro Trump, Sanders avrebbe già vinto, perché non sarebbe una corsa tra due mediocri di pari infima levatura, ma tra un uomo giusto ed un uomo sbagliato. Fosse stato Bernie Sanders il candidato dei Democratici, avremmo per certo un Presidente in grado di mettere nell’angolo le autorità di Israele così come coraggiosamente fece, appunto, JFK.

 

Ma viviamo sfortunatamente in un Mondo dove questo è utopia. Chi percorre questa strada, la paga con l’ostracismo o con la morte. Chi non la percorre, la paga con una corsa alla Casa Bianca infima come quella cui stiamo assistendo. E con tutto il cascame di conseguenze che corse come questa procurano.

 

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