'Quarta rivoluzione industriale' al 'Grande Reset': il pensiero di Karl Schwab e la crisi del capitalismo

'Quarta rivoluzione industriale' al 'Grande Reset': il pensiero di Karl Schwab e la crisi del capitalismo

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di Leonardo Sinigaglia

Negli ultimi due anni si può dire che Karl Schwab abbia per molti sostituito la figura di George Soros come personificazione di ogni tendenza negativa, o percepita come tale, del nostro mondo. Dal’inizio dell pandemia del Covid-19, Schwab, con le sue idee sull’occasione propizia per un “Grande Reset”, è diventato nelle ricostruzioni dei più critici nei confronti delle politiche pandemiche nientemeno che il “regista” di ciò che si stava sviluppando sotto i nostri occhi.

Questa visione regala a Schwab gradi di potere e autorevolezza che forse non gli appartengono, e si concentra sulla descrizione dell’economista tedesco come il vertice di un gruppo di “incappucciati” dediti alla dominazione globale e alla creazione di un futuro distopico. Ma chi è Klaus Schwab? E in che relazione sono le sue analisi e le sue proposte col nostro mondo e coi suoi processi?

La figura di Schwab è ovviamente connessa all’organizzazione da lui fondata, il World Economic Forum. Anch’essa sconosciuta ai più prima del 2020, la sua natura ancora una volta è ricondotta a qualcosa di ‘occulto’, una setta di individui estremamente potenti dediti al perseguimento dell’orizzonte “transumano”.

Ma cos’è veramente il WEF, al di là di preoccupazioni e ricostruzioni più o meno veritiere, è lo stesso Schwab a dirlo, e in maniera brutalmente onesta: “[...] the international organization for public-private cooperation”[1], ossia “l’organizzazione internazionale per le cooperazione fra soggetti pubblici e privati”.

Ciò appare molto meno immaginifico di quanto molti si sarebbero aspettati, ma questo non deve trarre in inganno: dietro a questa ammissione vi è in realtà la più esatta rappresentazione di ciò che è il WEF: un’organizzazione attraverso la quale i settori più avanzati del grande imprenditoria fanno sentire la loro voce a livello mondiale, riuscendo a trattare da pari con gli Stati e le altre organizzazioni internazionali. Lo stesso Schwab è visto dall’amministratore delegato dell’impresa statunitense Salesforce Marc R. Benioff come capace di “sintetizzare le esperienze e le visioni dei principali esperti di economia e tecnologia, i vertici delle più grandi imprese mondiali e le prospettive dei governi e dei rappresentati delle società civili”[2].

Ovviamente questa visione contiene in sé sia un riconoscimento, quello dell’importanza dell’opera di mediazione e contatto operata da Schwab, sia un augurio implicito: quello che gli interessi di governi, grande borghesia e società civili possano essere portati ad un punto di convergenza non certo a discapito dei profitti delle imprese, ma anzi come strumento di rilancio del grande Capitale in un momento di crisi del capitalismo.

E’ infatti corretto e utile analizzare il ruolo, sia pratico che teorico, del WEF e di Schwab alla luce dell’attuale fase dell’economia capitalista e degli interessi della classe possidente, in particolare i suoi settori più collegati al progresso tecnico in atto e a più veloce crescita. Questo permette chiaramente di vedere la natura politica del World Economic Forum: non gestire l’evoluzione in senso “transumano” del Pianeta, ma lottare in ogni modo affinché i settori di classe borghese da esso rappresentati vedano difesi e realizzati i propri interessi. Questo pone il WEF naturalmente in contraddizione con gli interessi della stragrande maggioranza degli esseri umani, ma ciò avviene su basi reali, schiettamente reali, lontane dalle preoccupazioni, spesso infondate, degli studiosi “biopolitici.

 

La ‘Quarta Rivoluzione Industriale’

La storia dello sviluppo tecnico e sociale umano ha visto il susseguirsi di numerose ‘rivoluzioni’ che hanno portato l’uomo dallo stadio nomade e legato alla pura sussistenza a quello di un’economia industriale avanzata. In particolare nell’ultimo secolo e mezzo abbiamo visto il susseguirsi della seconda e della terza rivoluzione industriale. Con queste si è imposto il sistema-fabbrica moderno, con taylorismo e fordismo, superato poi nella seconda parte del secolo scorso dall’introduzione sempre più massiccia di automazione e digitalizzazione. Il successivo ‘modello toyota’ ha gettato le basi per una forma industriale “snella”, fondata sulla produzione “just in time” e finalizzata ad aumentare la produttività razionalizzando ulteriormente la produzione in un mondo in via d’integrazione economica ed eliminando le spese superflue.

L’introduzione progressiva del digitale in seno ai processi produttivi, alla distribuzione e ai servizi ha portato poi negli anni al coesistere di processi di digitalizzazione e di interconnessione. Questa è la base che Schwab pone, assieme al progresso tecnico-scientifico in certi campi della ricerca, come la genetica, resi possibile dall’aumentare della potenza di calcolo e dalla creazione di dati, come base per quella che chiama ‘quarta rivoluzione industriale’.

Schwab, al contrario di altri economisti, ritiene che la velocità, la portata e l’interconnessione dei vari processi di sviluppo permetta di parlare di una nuova fase totalmente nuova, di un salto qualitativo nella produzione. Nel suo testo del 2016, chiamato appunto ‘The Fourth Industrial Revolution’, sostiene questa tesi, presentando quelle che lui ritiene essere le sfide poste da questi cambiamenti e soffermandosi sui loro settori guida. Sebbene indubbiamente ci si trovi innanzi a cambiamenti di una portata non indifferente, è difficile non vedere quello che accade come un perfezionamento degli strumenti sviluppati dalla terza rivoluzione industriale. Se è vero che l’interconnessione e la digitalizzazione aprono nuove prospettive di sviluppo, ciò non significa che si possa parlare veramente di qualcosa di ‘totalmente altro’ rispetto a ciò che abbiamo già conosciuto.

La prospettiva di Schwab è quella di un dichiarato entusiasta della tecnologia, e rischia forse di scadere in una sorta di “mitizzazione” di cambiamenti e scoperte sicuramente significativi, ma non al punto da segnare una vera discontinuità storica come quella che ha sostituito alla forza umana quella inanimata del vapore, o a questo petrolio e corrente elettrica.

Accanto a Schwab, dello stesso suo parere riguardo ai cambiamenti in corso, vi sono gli estremi detrattori della cosiddetta ‘quarta rivoluzione industriale’. Se il fondatore del World Economic Forum guarda con occhio entusiasta a questa futuribile rottura con il passato, c’è chi denuncia la sua natura intrinsecamente totalitaria, se non apertamente anti-umana.

Anche qui è difficile però andare a demarcare i confini della questione con esattezza: quando la tecnologia smetterebbe di essere strumento proprio dell’attività naturale umana per diventare il suo opposto, ciò mezzo di negazione dell’umanità?

Le tecnologie guida della ‘Quarta Rivoluzione Industriale’, prodotto degli sviluppi degli ultimi decenni, comprendono la robotica avanzata, i veicoli autonomi, la manifattura additiva, l’Internet delle Cose (IoT), l’Intelligenza Artificiale e l'ingegneria genetica.

Schwab riconosce di queste le complessità, vedendo negli impatti sull’economia, la società e l’individuo sia le potenzialità che le zone d’ombra. Non è suo interesse però approfondire la questione, perché l’attenzione si sposta sistematicamente sul vero nucleo della riflessione dell’economista: chi governerà i fenomeni.

Giustamente si parla di “sfide” poste dalla Quarta Rivoluzione, vedendo fra queste non solo la polarizzazione sociale e i rischi per il riserbo dei singoli e la sicurezza, ma anche i dilemmi etici. E’ interessante però notare come in risposta a queste sfide, assieme a generiche raccomandazioni sul preservare la tecnologia al servizio dell’uomo[3] e sul gestire al meglio le disparità sociali e le tensioni internazionali[4], si ponga una sempre maggiore valorizzazione del rapporto fra istituzioni pubbliche e private. Non solo: le prime dovrebbero “adattarsi al fatto che il potere si trasferisca da attori statali ad attori non-statali”[5].

Appare quindi chiarissima la prospettiva di Schwab e dei settori di grande borghesia che rappresenta, e non è la prospettiva di una “setta transumanista”, ma semplicemente quella di una forza sociale che si percepisce, correttamente, come incredibilmente potente ed influente, che riesce a comprendere il suo ruolo chiave nel progresso tecnico e intende, a qualsiasi costo, vedere i rapporti di forza riconfigurati a loro maggior favore. Questo non solo contro i settori di Capitale arretrati, quelli che internamente all’ordinamento capitalista fanno proprio resistenza al WEF, ma anche contro gli enti pubblici, che devono essere ridotti alla subalternità, e a qualsiasi forma di “pressione dal basso”, che va evitata o gestita.

Ci si trova davanti al programma politico dei settori più avanzati e organizzati della classe borghese, e, se si vuole contestare, va fatto in quanto tale.

La prospettiva “neo-luddista” di certi ambienti del cosiddetto “dissenso” che mette all’indice non già la direzionalità dello sviluppo tecnologico, ma la sua stessa esistenza, non coglie il punto fondamentale. Il problema non è l’Internet delle Cose, e nemmeno l’ingegneria genetica, il problema è la “mano” che impugna questi strumenti, e se la finalità è connessa al profitto di pochi, come chiede il WEF, o al miglioramento delle sorti della stragrande maggioranza dell’Umanità. Ogni tecnologia porta in sé una certa forma d’alienazione. E’ stato vero per la sedentarizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura, ed è stato vero per la disumanizzante catena di montaggio. Ma le forme di alienazione portate dalle varie fasi del progresso tecnico sono sempre state corrette e superate grazie al progresso stesso e alla volontà politica.

E’ stata l’automazione della catena di montaggio, innovazione non certo priva di complessità e di ricadute, a far superare l’alienazione della fabbrica novecentesca, così come sarà l’automazione e la digitalizzazione dei servizi burocratici e di contabilità a rimuovere storicamente la lampante forma d’alienazione portata dai lavori d’ufficio. Ciò però non va confuso con una aprioristica esaltazione del progresso tecnologico: il dato politico è quello fondamentale. L’automazione del lavoro può liberare gli esseri umani dall’alienazione, ma può anche condannarli alla disoccupazione. Le due opzioni sono separate dalla volontà politiche che guida i processi.

Se alla testa della marcia verso il futuro vogliamo porre il WEF, ossia l’organizzazione internazionale del padronato avanzato, avremo un avanzamento tecnico i cui costi ricadranno soprattutto sui molti, e i vantaggi soprattutto sui pochi. Serve al contrario combattere affinché avvenga il contrario, ossia il progresso tecnologico sia fonte d’emancipazione e miglioramento della vita materiale e culturale per l’uomo, per tutti i popoli del Pianeta.

Il tema dello sviluppo economico e degli strumenti per perseguirlo fu all’ordine del giorno all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. Lenin e il gruppo dirigente bolscevico dovettero misurarsi da un lato con le condizioni di miseria e distruzione lasciate da anni di guerra, dall’altro con chi, imbevuto di aspettative messianiche per l’avvento del comunismo e di ascetismo egualitario, sosteneva la necessità di procedere all’abolizione del denaro, di ogni forma di economia mercantile e persino della disciplina di fabbrica[6]. Questa fazione non riusciva a comprendere come l’evoluzione storica proceda su basi dialettiche e materiali: non esiste una formula che possa portare, dall’oggi al domani, alla scomparsa di ogni contraddizione, di ogni complessità per aprire una nuova supposta età dell’oro.

Proprio intorno al Taylorismo, giustamente accusato di portare ad una riduzione dell’uomo a macchina, si sviluppò un interessante dibattito. Lenin osservò nel 1914 come la grande razionalizzazione della produzione portata dallo studio scientifico dell’azione dell’operaio avvenisse “a detrimento del lavoratore”, in quanto portatore “di più grande oppressione e sfruttamento”[7], ma nel 1918, dopo la presa del potere, si espresse in questi termini: “La possibilità di realizzare il socialismo sarà determinata [...] dai successi che sapremo conseguire nel combinare il potere sovietico e l’organizzazione amministrativa sovietica con i più recenti progressi del capitalismo. Dobbiamo introdurre in tutta la Russia il sistema di Taylor e l’aumento scientifico americano della produttività del lavoro, unendo questo sistema alla riduzione dell’orario di lavoro”. Tale sistema di Taylor, direttamente diretto dai lavoratori stessi − se essi saranno abbastanza coscienti − sarà il mezzo più sicuro per una ulteriore e grandissima riduzione della giornata lavorativa”[8] .

Cos’era cambiato nei quattro anni trascorsi tra il primo e il secondo articolo di giornale? Era cambiata la natura del potere politico, e quindi lo scopo verso il quale è indirizzato il progresso tecnico. Ciò traspare chiaramente dalle parole di Lenin: l’introduzione del taylorismo è essenziale alla sopravvivenza del potere sovietico, ma non sarà un taylorismo come quello americano, per il quale i possidenti aumentavano i propri profitti, e i lavoratori si vedevano ridotti a macchine. No: nel taylorismo sovietico l’aumento della produttività sarebbe andato di pari passo con una riduzione dell’orario di lavoro, come, nei fatti, avvenne.

Lo stesso mezzo tecnico che sotto una direzione portava ad un amplificarsi dell’alienazione e dello sfruttamento, in altre mani e verso altri scopi portava non solo all’aumento della produttività e quindi della disponibilità materiale per tutto il paese, ma alla conquista di nuovo tempo libero dal lavoro. La spersonalizzazione del lavoratore tipica del taylorismo classico si trasformava in una sua partecipazione alla gestione della produzione e dello Stato sovietico.

Ciò era valido nel secolo scorso, ma lo è altrettanto oggi. Guardare agli avanzamenti tecnici da un punto di vista unicamente critico e sospettoso, come fanno certi teorici della “lotta al transumanesimo”, fa perdere di vista la componente emancipatoria del progresso scientifico. D’altra parte, vedere nel progresso in sé qualcosa di esclusivamente positivo fa perdere nella stessa maniera il dato politico: non è la tecnica da sola a caratterizzarsi nella realtà in un modo o in un altro, ma la tecnica unita allo scopo verso la quale la si dirige.

 

Il “Grande Reset” e la crisi del capitalismo

A differenza di quella precedenti, la cosiddetta ‘Quarta Rivoluzione Industriale’ si dovrebbe sviluppare in un contesto di forte rallentamento della crescita economica e senza sicurezze rispetto ai possibili positivi su questa tendenza. E’ lo stesso Schwab ad ammetterlo quando si interroga sui dati relativi all’aumento della produttività totale dei fattori (PTF) e del lavoro, che mostrano una costante diminuzione dal secondo dopoguerra in poi. Se tra il 1947 e il 1983 la produttività del lavoro è cresciuta del 2.8%, fra 2000 e 2007 si è registrato un aumento del 2.6%, e fra 2007 e 2014 uno di appena 1.3%. E questo nonostante gli incredibili sviluppi nei campi dell’automazione e del digitale[9]. Anche con la ‘Quarta Rivoluzione Industriale’ non vi è nessuna certezza che la produttività, fra i fattori principali da considerare per la crescita di lungo periodo e l’innalzamento della qualità della vità.

E’ interessante sottolineare come Klaus Schwab colleghi questa stagnazione della produttività con l’accumulazione di disponibilità monetaria delle 50 più grandi aziende americane, che al 2016 stimava in 1 miliardo di miliardi di dollari americani[10]. Come tendenza generale si può vedere come all’investimento produttivo sia preferito quello speculativo, o anche la semplice accumulazione rispetto all’investimento stesso. Questo accade non solo per le caratteristiche di questa fase neo-liberale del capitalismo, ma per le dinamiche stesse dell’economia capitalista.

La sempre maggiore sostituzione del lavoro con il Capitale, che oggi con i processi di digitalizzazione e automazione raggiunge nuove vette, si può leggere in termini marxiani come l’aumento del Capitale costante rispetto al Capitale variabile, ossia nell’aumento del valore dei mezzi di produzione rispetto a quello della forza-lavoro.

Ciò porta tendenzialmente alla diminuzione del tasso di profitto, poiché l’innovazione tecnologica, che sul breve periodo dà un vantaggio competitivo sul mercato, porta all’abbassamento del valore della merce dato dalla sottrazione della componente del lavoro vivo dalla produzione di queste. E’ necessario quindi investire sempre di più nelle forze produttive per ottenere, in proporzione, sempre di meno. Ciò non è che “un’espressione tipica del modo di produzione capitalistico”[11], ed è sintomo della maturazione della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici.

Storicamente vi sono stati numerosi tentativi di rallentare questa tendenziale decrescita, come l’aumento dello sfruttamento della forza lavoro, la riallocazione della produzione là dove la sovrappopolazione permette un minore costo del lavoro, il commercio estero e il controllo di materie prime, energia e semi-lavorati dal minor costo, e quindi connesse le pratiche imperialiste e neo-coloniali, e anche tramite gli investimenti speculativi interessati al pagamento dei dividendi[12].

Ciò che Schwab descrive appare quindi come il naturale dispiegarsi delle tendenze proprio del sistema capitalista, che vanno a porsi poi in relazione ai periodi di crisi, provocati anch’essi dalle contraddizioni fondamentali del capitalismo. Le stesse crisi sono strumenti del capitalismo, attraverso i quali è possibile superare le contraddizioni, eliminare i settori produttivi arretrati e permettere una maggiore concentrazione di Capitale. Il capitalismo quindi, attraverso la crisi, si reinventa, e sviluppa strumenti per rallentare il proprio declino.

La crisi che si è abituati associare al Covid-19 in realtà vede negli effetti della pandemia e di politiche di contenimento null’altro che un catalizzatore dei processi già in atto, di problemi che già stavano esplodendo. Ovviamente l’improvvisa interruzione delle catene del valore, e quindi di interi settori dell’economia, ha significato però una caratteristica originale, ossia l’esplosione improvvisa di forti contrazioni. Storicamente qualsiasi pandemia ha sempre avuto significativi contraccolpi economici. Ma nel mondo globalizzato questi si sono manifestati in maniera di inedita portata e violenza.

Questa crisi ha portato, e porterà, naturalmente a modifiche economiche e sociali rilevanti. Ancora una volta al centro vi è però la gestione di questi processi: da qui il famigerato “Grande Reset”, ossia il tentativo di sfruttare la contingenza per rafforzare il potere relativo dei settori egemoni di grande borghesia, secondo la volontà già espressa dal WEF negli anni passati.

Nelle stesse parole di Schwab appare chiaro come il lascito del periodo pandemico più che “sanitario”, sarà ascrivibile alle sfere economiche, sociali, geopolitiche, tecnologiche e ambientali[13].

Ma questo lascito, che dovrà essere gestito secondo un particolare fine, dipende però non tanto dall’incidente pandemico, ma da ciò che era in moto prima della pandemia. Il testo a quattro mani scritto da Schwab e Malleret nel 2020, Covid-19: The Great Reset, mostra chiaramente come la concentrazione di Capitale, l’automazione, la digitalizzazione[14] e la frammentazione geopolitica[15] siano tutti fenomeni semplicemente catalizzati dalle conseguenze pandemiche. Queste hanno quindi creato una situazione migliore, perché più definita e sviluppata, per l’introduzione della ‘Quarta Rivoluzione Industriale’, che è da leggersi non già come il piano diabolico per l’introduzione di tecnologie disumanizzanti, ma come il tentativo di ridurre lo sviluppo tecnico a precisi interessi di classe.

Chiaramente la base dalla quale si parte è reale, e si collega direttamente alla necessità di migliorare la cooperazione internazionale e di rendere società ed economia maggiormente in grado di rispondere a crisi e periodi di stress, ma è il dato politico che, ancora una volta, costruisce la valutazione di merito delle prospettive proposte, che sistematicamente pongono alla base un ruolo politico e decisionale sempre maggiore da far esercitare ai settori egemoni della grande borghesia.

 

Guerra e pandemia

Subito dopo il Covid-19, la violenta intensificazione delle ostilità sulla linea di contatto fra NATO e Russia in Ucraina ha portato ad una nuova, importante, ridefinizione dei rapporti di forza a livello internazionale. I settori di Capitale che si vedevano rappresentati nel Forum di Davos sono quelli che più di tutti appaiono collegati alla moderna globalizzazione. La loro importanza, tecnicamente oggettiva al di là delle valutazioni politiche per ogni singolo Stato, è strettamente collegata quindi al libero mercato internazionale e agli spazi di influenza controllati grazie al loro ruolo all’interno di quello.

Già a partire dagli anni ‘10 si è assistito ad un crescere dell’ostilità fra Europa, USA, Cina e Russia, con ciascuno degli attori avente propri interessi e prospettive solo parzialmente riducibili a quelli degli altri. Geopoliticamente il golpe in Ucraina del 2014 e l’inizio della guerra doganale contro la Cina hanno provocato la più marcata sottomissione dell’Unione Europea, e quindi dell’asse Berlino-Parigi, al padrone americano e il sempre più stretto avvicinamento tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese. Questa di per sé ha sempre cercato di evitare l’acuirsi della conflittualità internazionale, vedendo il proprio sviluppo interno, grazie al quale centinaia di milioni di persone sono state fatte uscire dalla soglia di povertà, strettamente collegato a partire dal 1978 alla stabilità globale e alla possibilità di sfruttare, in maniera politicamente controllata, il tecnicamente più avanzato capitale straniero.

Il “punto di non ritorno” può essere identificato nel febbraio ‘22, quando l’ingresso delle truppe russe nel conflitto ucraino ha significato la formalizzazione internazionale di uno stato d’ostilità prima latente e parzialmente taciuto. L’impatto di questo sulla globalizzazione, intesa in senso tradizionale, è enorme. E soprattutto sul Capitale rappresentato dal WEF ricadono pesanti conseguenze: l’indipendenza tecnologica ricercata oramai da tutti gli attori porterà non solo allo sviluppo di concorrenti internazionali sottoposti unicamente alla volontà politica degli Stati, mentre la strettamente correlata “guerra tecnologica” sopprimerà le forme più avanzate e libere di libero scambio, andando quindi ad inficiare significativamente sui profitti delle aziende.

Non sorprende quindi, pur da una ferma posizione di condanna alla pretesa aggressività russo-cinese, la posizione da “colomba” di Davos, rispetto a quella dei “falchi” rappresentati dal complesso militare industriale americano.

Questo, strettamente connesso all’alta tecnologia e garanzia di sopravvivenza materiale dell’imperialismo americano, è naturalmente portato a far ricadere dietro di sé anche gli interessi di Davos. Si tratta però di un compromesso al ribasso per i giganti del digitale: alla percezione di un libero esercizio della propria forza si contrappone la riduzione alla “ragion di Stato”. Certo, le erogazioni di fondi pubblici e la creazione di mercati tutelati dalla concorrenza straniera possono essere una merce di scambio invitante, ma non talmente invitante da risolvere ogni contraddizione.

La visione espressa da Schwab e dal WEF si fonda sulla consapevolezza della loro centralità tecnica nell’economia mondiale per ogni progetto di sviluppo. A questo si unisce la naturale resistenza di ogni gruppo sociale a vedere i propri interessi mediati con quelli dei suoi concorrenti, come richiesto dall’inquadramento bellico deciso dall’Occidente. Ma il WEF si fonda su di un’illusione, ossia quella di poter governare, in una situazione di pace e stabilità, in maniera omogenea i vari poteri politici a livello internazionale. Se è vero che la centralità tecnica dell’alta tecnologia è innegabile, è altrettanto vero che rimangono dotati di una forza assolutamente non trascurabile settori di Capitale dagli interessi non convergenti, da quello energetico-petrolifero alle varie resistenze di settori tecnicamente più arretrati, oltre che le prerogative d’indipendenza e di autonomia espresse da attori politico-sociali fondamentali, come l’intesa tra grande Capitale di Stato russo e settori militari che hanno espressione in Vladimir Putin e il Partito Comunista Cinese, che vede in sé rappresentato un quinto della popolazione mondiale. Accanto ad essi, in posizioni più o meno marcate, vediamo Stati e gruppi sociali più o meno grandi, che vedono nella comune associazione verso un nuovo ordine internazionale fondato sul multipolarismo una garanzia di maggiori spazi di manovra.

Il WEF sperava di poter barcamenarsi fra i vari centri di potere garantendosi così sempre maggiori profitti, nella negazione strumentale dell’inevitabile esplosione delle contraddizioni. Anche questa illusione però è stata negata dal procedere della Storia.

 

NOTE

[1]K. Schwab, The Fourth Industrial Revolution, Londra, Portfolio Penguin, 2016, p.116.

[2]K. Schwab, op. cit, p.VII.

[3] K. Schwab, op. cit., p.105.

[4] K. Schwab, op. cit., pp.89-90.

[5] K. Schwab, op. cit., p.67.

[6] D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Roma, Laterza, 2017, pp. 14-16.

[7] V. Lenin, Lenin Collected Works, Mosca, Progress, 1972, pp. 152-154.

[8] V. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, in Economia della Rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 2017, p. 165.

[9] K. Schwab, op. cit., p. 32.

[10] Ibidem

[11] K. Marx, Il Capitale, Roma, Newton Compton, 2017, p. 1057.

[12] K. Marx, op. cit, pp. 1070-1076.

[13] K. Schwab, T. Malleret, Covid-19: The Great Reset, New York, Forum Publishing, 2020, p.99.

[14] K. Schwab, T. Malleret, op. cit., pp. 62-67.

[15] K. Schwab, T. Malleret, op. cit. p. 49.

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