Sabra e Chatila, profughi palestinesi ed il diritto al ritorno. Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo mai

Sabra e Chatila, profughi palestinesi ed il diritto al ritorno. Noi non dimentichiamo e non dimenticheremo mai

Anche quest'anno, in un momento molto caldo per tutto il Medio Oriente, il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila si accinge a tornare nei campi profughi palestinesi in Libano dal 15 al 23 settembre

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A Maurizio...


Il massacro durò 43 ore, due giorni ed una notte. Senza interruzioni. Tra i 700 ed i 3.500 palestinesi dei campi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, vennero massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982 da miliziani libanesi cristiano- falangisti, sotto la supervisione e con il sostegno logistico dell’esercito di Tel Aviv che aveva occupato da poche ore Beirut ovest. Presumibilmente si trattò di una vendetta per l'attentato al quartier generale della Falange nella zona cristiana di Beirut, in cui perse la vita, il 14 settembre, il neo presidente libanese Gemayel, insieme ad altri 26 dirigenti falangisti. Attentato organizzato dai servizi segreti siriani con l'aiuto dei palestinesi. Il giorno seguente le truppe israeliane invasero Beirut Ovest.
Il 10 settembre, 11 giorni prima della data prevista, le forze multinazionali - statunitensi, francesi ed italiani - che avrebbero potuto difendere i campi profughi dopo la partenza da Beirut dei fedayin palestinesi e far rispettare l’impegno israeliano a non entrare nella parte occidentale della città assediata dal giugno precedente, si erano prematuramente ritirate. Sino ad oggi nessuno ha pagato, nessuno ha chiesto perdono al popolo palestinese, alle vittime dell’eccidio, ai familiari superstiti.
Eppure il 16 dicembre 1982, con la risoluzione 37/123, sezione D, l'Assemblea delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo "un atto di genocidio".
  
Anche quest'anno, in un momento molto caldo per tutto il Medio Oriente, il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila si accinge a tornare nei campi profughi palestinesi in Libano. L'Associazione di riferimento a Beirut, la Beit Atfal Assomoud, guidata da  Kassem Aina, ci informa che saranno 76 i delegati provenienti da tutto i mondo, di cui 36 italiani.

La notevole presenza di italiani si deve al pregevole lavoro svolto dal compianto Stefano Chiarini, che nel 2000 volle la fondazione del Comitato, ed a Maurizio Musolino che, nel 2007, anno della scomparsa di Stefano, ne raccolse il testimone. Accomunati, Stefano e Maurizio, non solo da questa battaglia, che li ha visti sempre in prima linea, ma anche dalla morte prematura. Non solo gli amici, ma il medio Oriente tutto, con la morte di Maurizio, avvenuta l'8 settembre di due anni fa, perdeva una gran voce, un punto di riferimento, ad oggi, ancora insostituibile.

Non ho mai conosciuto Stefano, e me ne rammarico. Forse, ho parzialmente rimediato incontrando la sorella, Maria Antonietta, donna dalla straordinaria forza, esempio da seguire, levatura impossibile da raggiungere, almeno per me.

Ho conosciuto però Maurizio ed è stato lui a spingermi a visitare i campi profughi palestinesi in Libano. Dire che aveva ragione è riduttivo. Non basta leggere, documentarsi, informarsi. Certe situazioni vanno vissute e questo viaggio, come il precedente, è dedicato a Maurizio ed al suo dispensare, anche a me, a mani larghe, tutto il suo sapere. I suoi insegnamenti sono saldi nella mia mente, punto di partenza, mai di arrivo.

E dunque, si riparte. Dal 15 al 23 settembre saremo in Libano, ancora una volta per non dimenticare, per tenere alta l'attenzione, non solo sulla strage di Sabra e Chatila, ma anche sulla condizioni in cui vivono i profughi palestinesi sottoposti ad un trattamento intollerabile, quasi disumano. Per portare sostegno e solidarietà, per denunciare i silenzi dell’Occidente, dell’Europa, del nostro Governo, del mondo arabo. Per non far spegnere i riflettori  e continuare a denunciare situazione di oltre 5.000.000 di persone ( il numero è passato dai 750.000*, l'85% dei palestinesi, del 1948, ai dati odierni perché lo status dei profughi palestinesi è diverso da quello di tutti gli altri profughi del mondo, in quanto ereditario), divise tra Palestina - Cisgiordania e Gaza -, Giordania e Libano. Particolarmente drammatica la situazione dei profughi palestinesi accolti dal governo siriano, che sono diventati, dal 2011 ad oggi, profughi dei profughi. In fuga di nuovo, in giro per il mondo, alla ricerca, ancora una volta, di una vita decorosa.

Anche quest'anno, l'intento del Comitato è sollecitare l'opinione pubblica italiana, gli uomini e le donne di cultura, le Ong, i politici, i semplici cittadini allo scopo di :

- stare accanto ai palestinesi durante le celebrazioni del 36° anniversario del massacro di Sabra e Chatila;
- conoscere la realtà di un popolo rifugiato;
- chiedere alle autorità e alle forze politiche libanesi, con le quali il nostro paese ha ottimi rapporti di cooperazione, che venga fatto ogni sforzo per consentire ai palestinesi di avere una vita dignitosa;
- ricordare che il Diritto al Ritorno è sancito dalla legge internazionale (Ris. ONU 194 dell'11 dicembre 1948), ma disatteso
- chiedere la fine delle aggressioni contro le popolazioni di Gaza e Cisgiordania e la fine dell’occupazione militare della Palestina, per ripristinare i confini stabiliti nel ’67 dalle leggi internazionali e ridare a Gerusalemme lo status di città libera e multiconfessionale; 
- denunciare l’ebraicizzazione di Israele, l’espandersi delle colonie, le politiche di Trump e Netanyahu che segnano la fine dell’ipotesi “due popoli due Stati” e che rappresentano la punta più alta del programma neocoloniale del sionismo, eliminando il diritto al ritorno dei non ebrei, dei palestinesi nati in quelle terre. 

Ed a proposito di Trump, impossibile non parlare del taglio dei contributi statunitensi all'UNRWA (United Nations Relief and Works Agency), cioè l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, annunciato venerdì scorso dal Dipartimento di stato americano. L'Agenzia viene dunque privata del contributo annuale di 360 milioni di dollari, quindi, di un terzo del suo bilancio. I funzionari statunitensi hanno descritto l’associazione “irreparabilmente imperfetta”.

Questa mossa segue la decurtazione di 200 milioni di dollari già effettuata la settimana scorsa.

L' United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) fu istituita nel 1948 dall' Assemblea generale delle Nazioni Unite, ai sensi della risoluzione 302 (IV), con un mandato temporaneo di circa 5 anni. Già l'anno scorso, prima del taglio statunitense, era  quasi completamente assente.  

Il suo ruolo preponderante era e dovrebbe ancora essere quello di trovare lavoro per tutti i profughi palestinesi, di offrire supporto sanitario, scolastico ed economico (per il cibo, per esempio).

Cosa  sarà dei due milioni di profughi palestinesi ospitati in Giordania e dei  quattrocentomila ospitati nei 12 campi profughi presenti in Libano? Perché questa decisione? Per spingere i palestinesi ad accettare il cosiddetto "Accordo del secolo"? Accordo che, al momento, prevede solo la proposta fatta al presidente dell'AP, Mahmoud Abbas, di una confederazione tra Palestina e Giordania, cui l'inqualificabile soggetto avrebbe dato il suo placet a condizione che ne faccia parte anche Israele. Secco il no di Amman che, come ricordato, ha già una popolazione in buona parte di origine palestinese ed ospita due milioni di profughi.

Ancor più secco, ed anche irriverente e deridente, il no di Tel Aviv.

Oppure dovremmo credere alla contestazione rivolta dagli USA all’UNRWA inerente il conteggio dei profughi palestinesi, che ammonta oggi a 5 milioni? (Secondo l’UNRWA infatti hanno diritto allo status di “rifugiato palestinese” anche i discendenti degli allora rifugiati arabi espulsi)? O ancora che la decisione dell’amministrazione americana sarebbe una risposta alla “politica ostile” dell’AP verso gli Usa?
 
Forse, al solito, più semplicemente, la chiave di lettura, è politica, e riguarda la legalità internazionale, quella che Tel Aviv non si premura di rispettare mai, anzi, si rallegra di poter impunemente violare sempre. È da un anno ed oltre che circola una proposta americana, caldeggiata da Israele, di smantellare l'UNRWA, al solo scopo di rendere nulla, perché inapplicabile, la Risoluzione ONU 194 che sancisce il diritto al ritorno dei profughi palestinesi nelle loro case. Dunque un attacco al diritto al ritorno per i rifugiati e le loro famiglie. Tra l'altro, furono proprio gli USA a caldeggiare la fondazione dell'UNRWA con l’idea che avrebbe dovuto condurre all'applicazione della risoluzione 194. La decisione di Trump perciò è la rottura dell’impegno preso dagli Stati Uniti, in nome degli interessi di Israele e non certo dell’America.

Cosa ci aspetta durante questa missione e cosa aspetta i palestinesi nel prossimo futuro è facilmente immaginabile. Per un racconto un po' più dettagliato sulla situazione dei campi in Libano e su ciò che dai referenti in loco mi è stato raccontato lo scorso anno, vi rinvio al link :
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-campi_profughi_palestinesi_in_libano_vi_racconto_quello_che_ho_visto/13944_21556/

Sono partita con la strage di Sabra e Chatila, e con quella concludo.

Dopo il massacro, i resti dei cadaveri, orribilmente mutilati, vennero ammassati in più fosse comuni. Nei primi due/tre anni dalla strage, furono molti i libri, gli articoli, le inchieste, le conferenze sulla strage. Tra i libri, mi piace ricordare "Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra" di Robert Fisk, 1990, primo giornalista occidentale ad entrare nei campi, e “Da Beirut a Gerusalemme” di Swee Chai Ang, 1989, opera di una dottoressa britannica, originaria di Singapore, molto amata dai palestinesi e presente nel campo, nei giorni del massacro. Poi, silenzio. Fino al 2000, anno in cui una delegazione italiana, guidata da Stefano Chiarini, giunse a Beirut.



Fu lui a recuperare l'area di una delle fosse comuni, "uno sterrato pieno di immondizia", ed a trasformarla in cimitero. Quello stesso dove, dal 2000, ogni anno si ripete  la commemorazione. Quello stesso che il sindaco di Gobeiry promise di trasformare in reliquiario, circondato di alberi e rose, santuario aperto ai visitatori. e tanto fece. È stata forse la prima ed unica azione del governo libanese per rendere onore alle vittime di Sabra e Shatila.

Lo scorso anno ho incontrato alcuni dei superstiti, sguardo fiero, mai domo, di chi sa di essere dalla parte giusta. Non hanno quasi più lacrime, ma tenacia da vendere. E faldoni di documenti, in cui uno rinvia all'altro, senza mai una fine scritta. Già, perché al numero dei morti andrebbe aggiunto quello dei dispersi, coloro non annoverati tra i cadaveri ma nemmeno mai ritrovati.

Ci  raccontavano che dal campo di Chatila era possibile vedere il tetto dell'Ambasciata del Kuwait, sul quale ammirava soddisfatto, Ariel Sharon. Il campo fu illuminato a giorno per tutto il tempo del massacro, perché nessuno uscisse vivo. I nostri sguardi seguivano le mani che indicavano ed era facile immaginare il ghigno crudele del boia mai sazio. Brividi, e non di freddo.

Nel suo messaggio presidenziale del 31 dicembre 1983 ai cittadini italiani, anche l'allora Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, disse di Sabra e Shatila e di Ariel Sharon: “Io sono stato nel Libano.
Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. È una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. È un responsabile che dovrebbe essere bandito dalla società”.

"Da un muro all'altro della strada, rattrappiti o inarcati, i piedi di qua e il capo contro il muro opposto, i cadaveri gonfi e neri in cui continuamente inciampavo erano sempre di palestinesi e libanesi. Per me, come per tutta la popolazione sopravvissuta, girare per Chatila e Sabra era come giocare alla salta-cavallina. Basta un morto bambino a volte per bloccare una strada, sono strade così strette, quasi dei vicoli, e i morti talmente tanti! Mandano un odore che ai vecchi è familiare: a me non dava fastidio. Ma quante mosche! Se sollevavo la pezza, o il giornale arabo posato su una testa, le infastidivo. Inferocite dal gesto, mi venivano a sciami sul dorso della mano, in cerca di cibo. Il primo cadavere che ho visto era quello di un uomo di cinquanta o sessant’anni. 

Avrebbe avuto una corona di capelli bianchi, se una ferita (un colpo d’ascia, mi è sembrato) non gli avesse aperto il cranio. Una parte del cervello annerita era a terra, vicino alla testa. Tutto il corpo poggiava su un mare di sangue, nero e coagulato. La cintura non era allacciata, i pantaloni si tenevano con un solo bottone. I piedi e le gambe del morto erano nudi, neri, violetti e malva: forse era stato sorpreso nella notte o all’alba? Fuggiva? Era steso in una stradina immediatamente sulla destra dell’ingresso del campo di Chatila, che si trova di fronte all’Ambasciata del Kuwait. Il massacro di Chatila deve essersi consumato nei sussurri o in un silenzio totale, se gli Israeliani, soldati e ufficiali, pretendono di non aver sentito niente, né d’essersi accorti di niente nonostante occupassero questo edificio dal pomeriggio di mercoledì.


La fotografia non coglie le mosche, né l'odore bianco e greve della morte; e neppure dice che per proseguire bisogna saltare da un cadavere all'altro.
Ai primi morti, mi ero sforzato di contarli. Giunto a dodici o quindici, avvolto dall’odore, dal sole, micidiali, non ho più potuto, confondendosi tutto.
A Shatila, molti sono morti e il mio affetto, il mio amore per i loro cadaveri putrescenti, era grande anche perché io li avevo conosciuti. Neri e gonfi, putrefatti dal sole e dalla morte, erano ancora fedayn.
Verso le due del pomeriggio di domenica, tre soldati dell'esercito libanese, col fucile puntato, mi hanno condotto a una jeep dove sonnecchiava un ufficiale. Ho chiesto:
«Parla francese?».
«English».
Era secca la voce, forse perché l'avevo destato di soprassalto. Ha preso in mano il mio passaporto. Poi, in francese:
«Viene di là?» (con la mano indicava Chatila).
«Sì».
«E ha visto?».
«Sì».
«Lo scriverà?».
«Sì».
Mi ha reso il passaporto. Mi ha fatto segno di andare. I tre fucili si sono abbassati. Avevo passato quattro ore a Chatila. Ne avevo per ricordare circa quaranta cadaveri. Tutti - e dico: tutti - erano stati torturati, probabilmente da ubriachi che cantavano, ridevano, tra l'odore di polvere e già di carogna. Indubbiamente ero solo, intendo dire il solo europeo (con poche vecchie palestinesi, ancora aggrappate a un cencio bianco strappato; con pochi giovani fedayn disarmati) ma se cinque o sei esseri umani non fossero stati là, se avessi scoperto io quella città abbattuta, i palestinesi atterrati, neri e gonfi, io sarei impazzito. Dove ero stato? Quella città in briciole e a terra che ho visto o creduto di vedere, percorsa, sollevata, trasportata dall'odore possente della morte, c'era stato davvero tutto ciò?"

( Quattro ore a Chatila di Jean Genet, primo europeo ad entrare, il 19 settembre 1982, a Chatila) 
 
 
* Il 15 maggio 1948, all'indomani dell'autoproclamazione dello Stato d'Israele, furono cacciate dalle loro case ed espulse dalla terra che divenne Israele almeno 750.000 persone, l'85% dei palestinesi. Con la Nakba, letteralmente "catastrofe", una parte della storiografia ufficiale, non israeliana, riconosce l'avvio del piano Dalet, ossia "la distruzione della società palestinese" o, come ben descrive Ilan Pappé, "la pulizia etnica della Palestina". I palestinesi, costretti a vivere nei campi profughi sin d'allora, sono rimasti in attesa di tornare alle loro terre, alle loro case, senza mai perdere la speranza. E molti, troppi, sono morti senza la possibilità di poter veder riconosciuto il proprio diritto al ritorno.

541 furono i villaggi distrutti, 11 le cittadine. Su quelle macerie, Israele costruì villaggi e città israeliane. Oggi Giaffa è un quartiere di Tel Aviv. Ad Haifa, dove si combatté una delle battaglie più importanti della guerra, già nel 1949 era rimasta solo una piccola parte dell’originaria popolazione araba: alcuni se n’erano andati prima della battaglia, altri furono costretti ad abbandonare le proprie case dopo la vittoria israeli

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