Sono stato nello Xinjang 9 volte negli ultimi 20 anni: sugli Uiguri sono tutte fake news
di Adriano Màdaro
Continua l'aggressione mediatica alla Cina. Le fake news sul preteso "genocidio" degli Uyguri, etnìa maggioritaria in Xinjiang, sono materia avvelenata di una crescente campagna di diffamazione politica made in USA. Purtroppo, senza indagare, anche l'Italia si è accodata belante, priva del sospetto che invece rende guardinghi i governi di Parigi e di Berlino, mentre l'EU si è dichiarata entusiasta di seguire le sanzioni di Washington.
La grandiosa campagna diffamatoria continua e si arricchisce di menzogne, addirittura negando che vi sia un grave allarme terrorismo islamico nel Xinjiang - riconosciuto dalle stesse Nazioni Unite in rapporti ufficiali - e "ignorando" che vi siano oltre 5.000 guerriglieri uygur nelle file di Al Qaeda, divisi tra Siria e Afghanistan. Perché la Commissione per i diritti umani dell'ONU non ha ancora risposto alla richiesta di Pechino di formare una delegazione di inchiesta che investighi la verità nello Xinjiang?
Nei giorni scorsi è scesa in campo contro le fake news anche l'attrice superstar di origini uygure-tagike Dilraba Dilmurat, 29 anni, una delle maggiori beniamine del cinema cinese. La bellezza uygura ha sonoramente smentito che vi sia una "persecuzione" etnica a danno del suo popolo. Indignazione in tutto il Paese anche per l'assurda campagna di boicottaggio del cotone prodotto in Xinjiang da presunti lavoratori forzati di nazionalità uygura. La menzogna diffusa dalla CIA, il controspionaggio americano, ha causato da parte cinese l'immediata chiusura in tutto il Paese delle catene di negozi delle marche straniere ( H&M, Nike, Adidas, Burberry) che hanno dichiarato di non acquistare più cotone prodotto in Xinjiang per protesta contro il "genocidio" uyguro.
L'attrice di origini uygure Dilraba Dilmurat, idolo delle giovani generazioni cinesi, interprete di molti film anche in costume tradizionale uyguro.
In realtà non esiste lavoro forzato in Cina, né in Xinjiang né altrove. Sono stato in questa regione 9 volte negli ultimi vent'anni: ho visitato in lungo e in largo le aree produttive, soprattutto di Ili e Altai, e ho visto le sconfinate coltivazioni di cotone, tutte modernamente attrezzate e meccanizzate. Certo, una parte dei fiocchi è anche raccolta a mano, ma è una attività stagionale comune in agricoltura quella di usare le mani. Non per questo si tratta di schiavi. Gli schiavi nella coltivazione e raccolta del cotone, per almeno tre secoli, li hanno costretti, incatenati, proprio gli Americani. Basterebbe leggere "La capanna dello Zio Tom" per poi dover stare zitti per sempre, oppure rivedere il famoso film a puntate "Radici", con protagonista il mitico Kunta Kinte.
Visita a una piantagione di cotone nella regione della Zungaria: sono accompagnato da un tecnico uyguro
E poi c'è un'ultima riflessione. La "guerra del cotone", pensata e messa in circolazione dai discendentì degli ex schiavisti, è originata dalla superiorità del cotone del Xinjiang rispetto a quello degli Stati americani del Sud. Superiorità nella qualità (fiocco con fibre più lunghe e più resistenti) e nella quantità. La concorrenza cinese in quest'ultimo decennio ha vinto anche sul prezzo, ovviamente inferiore a quello americano.
Controllo di qualità del filato di cotone da parte di operaie cinesi e uygure in un cotonificio della regione del Tarim
Raccolta meccanizzata del cotone nello Xinjiang nord-occidentale