Galeazzo ed Edda Ciano: un amore di regime

Galeazzo ed Edda Ciano: un amore di regime

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di Paolo Arigotti

Roma, 24 aprile 1930. Chiesa di San Giuseppe, sulla via Nomentana. Galeazzo Ciano, diplomatico e conte di Cortellazzo (e poi di Buccari) sposa Edda, figlia prediletta di Benito Mussolini, capo del governo e duce del fascismo. Il matrimonio è fastoso, e viene preceduto da un ricevimento nei giardini di Villa Torlonia, la residenza ufficiale dei Mussolini a Roma, al quale sono intervenute tutte le personalità che contano. All’evento viene dato grande risalto, con manifestazioni pubbliche delle scuole di Roma e filmati dell’Istituto LUCE[1]. I maligni sospetteranno che fosse intenzione del regime creare un evento paragonabile, per importanza, a un altro matrimonio, celebrato pochi mesi prima, precisamente l’8 gennaio, tra il principe di Piemonte ed erede al trono, Umberto di Savoia, e Maria Josè del Belgio [2].

Il celebrante delle nozze officiate con rito cattolico grazie alla conciliazione tra Stato e Chiesa avvenuta nel febbraio del 1929, usa toni altisonanti: “La vostra famiglia dovrà essere il prototipo della famiglia cristiana e italica, famiglia di quella stirpe che conosce tutti gli ardimenti, tutte le glorie […] tutti i fulgori”, forse per omaggiare il padre della sposa, colui che ha messo fine alla questione romana e che il Papa Pio XI ha chiamato l’uomo “che la Provvidenza ci ha consentito di incontrare”. Tra parentesi, tra i regali di nozze figura anche quello del Pontefice, un rosario probabilmente mai usato.

Nonostante i buoni propositi evocati dal sacerdote, non si può certo dire, col senno di poi, che gli sposi saranno ligi alle promesse nuziali, ma non saranno probabilmente né i primi, né gli ultimi.

Quello dei due che sembra aver fatto il “colpo”, per una volta, pare essere lo sposo. Confidandosi poco prima delle nozze con un’amica “intima”, la cantante e attrice Mimy Aylmer, Galeazzo disse che non stava per sposare proprio la figlia del Re, ma poco ci mancava. E quando la notizia divenne ufficiale, un monsignore amico di famiglia gli disse che con quel matrimonio egli stava stipulando un’assicurazione sulla vita: in un certo senso il religioso avrebbe avuto ragione, ma non come probabilmente intendeva quando pronunziò la frase.

La storia personale e politica dei due sposi sembra un film, eppure è tutto vero, e ripercorrere la loro vicenda consente di riprendere tutti i principali fatti politici di quegli anni.

Una cosa è certa: gettando uno sguardo al loro passato, nessuno avrebbe mai immaginato che un giorno si sarebbero sposati.

Gian Galeazzo Ciano, meglio noto solo come Galeazzo, nacque a Livorno il 18 marzo 1903. Suo padre era Costanzo Ciano, ufficiale della marina militare, che guadagnò successi e onorificenze durante la Prima guerra mondiale, in particolare grazie a un episodio passato alla storia come la Beffa di Buccari, che lo vide protagonista assieme a Gabriele D’Annunzio: si trattò di un'incursione effettuata da unità siluranti della Regia Marina contro il naviglio austro-ungarico nella baia di Buccari, in Croazia, che non ebbe una grande rilevanza strategica, ma che fu utilissimo nella propaganda di guerra. Nel 1928 Costanzo, e i suoi eredi, vennero insigniti del titolo di Conte di Cortellazzo, dopo aver accumulato una considerevole fortuna, grazie a una serie di affari riguardo ai quali circoleranno molte voci; per la cronaca fu grazie all’influenza di Costanzo che venne costituita, nel 1925, la Provincia di Livorno.

Assieme al patrimonio crebbe anche il peso politico di Costanzo Ciano. Era stato tra i primi ad aderire al movimento dei Fasci di combattimento: eletto deputato nel 1921, nel 1924 fu nominato da Mussolini ministro delle Poste e dei telegrafi (poi delle Comunicazioni), incarico che avrebbe conservato fino al 1934, divenendo il ministro più longevo del ventennio fascista.

Galeazzo, pertanto, veniva da una famiglia molto benestante e politicamente impegnata e fu (forse) grazie al suo sostegno che, dopo essersi trasferito a Roma e laureatosi in Giurisprudenza, riuscì ad aggiudicarsi il ventisettesimo dei trentacinque posti in palio per il concorso diplomatico. I suoi primi incarichi furono in Sudamerica, prima in Brasile e poi in Argentina; nel 1927, sembra per alcune lamentele dei suoi superiori circa abitudini alquanto licenziose, venne trasferito dall’altra parte del mondo, a Pechino. Agli inizi del 1929 dovette fare ritorno, sembra a malincuore, in Italia, per essere destinato a un incarico nell’ambasciata italiana presso la Santa sede, inaugurata subito la firma del Concordato dell’11 febbraio: una delle prime immagini pubbliche che possediamo di Galeazzo fu ripresa in quel contesto[3]. E sarà proprio grazie al suo rientro in patria che avverrà l’incontro, forse non del tutto casuale, che gli avrebbe cambiato per sempre la vita.

A questo punto dobbiamo parlarvi un po’ anche di Edda. Figlia prediletta del futuro Duce, nacque a Forlì il primo settembre del 1910, prima dei cinque figli nati dall’unione con Rachele Guidi. I suoi genitori all’epoca non erano sposati, in ossequio alle idee anarchiche e socialiste allora professate da Mussolini, tanto è vero che la neonata fu registrata all’anagrafe come figlia di "N. N." al posto del nome materno; sulla sua nascita circoleranno voci malevole, compresa quella che vorrebbe che la sua vera madre fosse la militante socialista (e amante di Mussolini) Angelica Balabanoff, ma si tratta di una notizia priva di riscontri. Benito e Rachele regolarizzarono la loro unione, col matrimonio civile, solo nel 1915, su insistenza della donna stanca delle amanti del marito, con le quali (al pari della figlia) dovrà fare i conti per tutta la vita. Circa dieci anni dopo, nel 1925, con Mussolini già insediatosi alla guida del Governo, i due contrarranno anche il matrimonio religioso, decidendo di far battezzare i tre figli: Edda, Vittorio (nato nel 1916) e Bruno (1918), ai quali sarebbero seguiti, rispettivamente nel ’27 e nel ’29, Romano e Anna Maria: non si trattò di una conversione sulla via di Damasco, ma di una scelta opportunistica, volta ad agevolare il processo di avvicinamento tra l’ex socialista mangiapreti e la Chiesa cattolica, che sarebbe culminato nella Conciliazione.

Nei primi anni della sua vita, Edda non condusse di sicuro una vita agiata: la famiglia aveva pochi mezzi e lei venne chiamata “la figlia della povertà”. Benito non aveva un’occupazione stabile e le sue idee socialiste e rivoluzionarie, contrarie alla guerra di Libia, lo portarono anche in prigione: sembra che durante l’incarcerazione la piccola Edda fosse utilizzata per fargli recapitare alcuni bigliettini destinati al padre, nascosti nei vestitini della piccola, quando con la madre andava a fargli visita. Qualche miglioramento dal punto di vista economico lo si ebbe quando Mussolini fece carriera nel partito socialista, e specie quando nel 1912 fu nominato direttore dell’Avanti, il giornale ufficiale del PSI. La famiglia cambiò più volte casa in quel di Milano, e quando Mussolini si trasferì nella capitale moglie e figli non lo seguirono. Fu solo agli inizi del 1929 che Rachele pretese dal marito il trasferimento di tutta la famiglia a Villa Torlonia, lussuosa residenza nobiliare sulla via Nomentana, affittata al Duce per un prezzo simbolico dai principi che la possedevano, e dove egli risiedette fino al 26 luglio 1943.

Per quanto Mussolini fosse oramai padrone dell’Italia, a suo modo era un uomo molto casalingo e in famiglia le regole le dettava la moglie, che conservò tutte le sue abitudini, compresa quella di tenere un allevamento di animali da cortile sul retro della nuova residenza: sembra che rivolta al marito gli dicesse in Italia comandi tu, ma in casa mia si fa quel che dico io! E la figlia non era da meno, tanto che sembra che lo stesso Mussolini abbia riconosciuto di essere riuscito a sottomettere gli italiani, ma non sua figlia, l’unica tra i figli del Duce in grado di tenergli testa.

Edda era nata e vissuta, specie nella prima infanzia, in un ambiente popolare e modesto, e, a differenza di Galeazzo, non frequentò mai prima del matrimonio i ritrovi culturali e del bel mondo. Per i suoi tempi era il classico tipo ribelle: beveva, fumava, indossava i pantaloni, giocava a calcio con gli altri bambini e fu educata dal padre a non avere paura di nulla e a non piangere mai. In un certo senso era il “maschiaccio” della famiglia, e per questo non riusciva ad andare d’accordo con la madre, che mal digeriva il carattere e l’atteggiamento libertino della primogenita, come lo scarso amore per la casa e la famiglia. A differenza di Edda, Rachele non volle mai nessun ruolo ufficiale nel regime e le sue apparizioni pubbliche furono rarissime.

Si racconta che quando Galeazzo si recò Villa Torlonia per chiedere la mano di Edda, Rachele gli disse che la figlia non sapeva fare nulla in casa, facendogli tanti auguri! E a parte le battute che si potrebbero fare sulla figura della suocera, Rachele, di origini umilissime e semianalfabeta, non ebbe mai nessuna simpatia per il genero, giudicandolo un opportunista e un vanesio, impressioni che trovarono conferma nel “tradimento” del 25 luglio.

Mussolini, come Galeazzo, ebbe moltissime amanti, ma a destare scandalo agli occhi di Edda fu la scoperta che forse anche la madre ebbe una relazione extraconiugale. La figlia pretese a quel punto di allontanarsi dalla casa di Milano – “Papà poteva fare quello che voleva, mamma no!” disse durante un’intervista, aggiungendo che col tempo avrebbe cambiato idea – e ottenne dal padre, che nel frattempo era divenuto primo ministro, di essere iscritta al Regio Istituto femminile della Santissima Annunziata, frequentato dal fior fiore della nobiltà europea, e di poter di viaggiare in luoghi remoti ed esotici, come l’India, un privilegio riservato a pochissimi per quegli anni.

Per quanto Galeazzo ed Edda avessero alle spalle storie e origini molto diverse, c’era per lo meno una cosa che li accomunava: l’amore e l’ammirazione smisurata per la figura paterna. Galeazzo adorava suo padre e soffrì molto per la sua morte – gli ha dedicato alcune pagine struggenti del suo diario – e lo stesso valeva per Edda, che dichiarerà di aver voluto molto bene al marito, ma di aver amato in vita sua un solo uomo, suo padre.

Come si conobbero Edda e Galeazzo? Il loro fu un colpo di fulmine o un matrimonio combinato? La verità, come spesso accade, sta nel mezzo.

Cominciamo col dire che, visti i tempi e la provenienza, non era pensabile per nessuno dei due un’unione sgradita alle rispettive famiglie. Se per Galeazzo, giunto quasi alla soglia dei trent’anni, si avvicinava il momento di “mettere la testa apposto”, dopo essersi goduto la vita (e molte donne), per Edda il problema era allo stesso tempo politico e personale. La ragazza aveva una personalità forte e indipendente, e difficilmente avrebbe accettato un matrimonio imposto da altri, ma allo stesso tempo occorreva prevenire un eventuale “colpo di testa”.

Edda, terminati gli studi, aveva avuto dei fidanzati prima di conoscere Galeazzo, uno dei quali era stato Pier Francesco Mangelli, appartenente a una nobile famiglia, col quale però ruppe prima del matrimonio: sembra che l’uomo non le piacesse più di tanto e pare che fosse lei stessa a ordire ogni stratagemma per presentarsi sotto la luce peggiore dinanzi alla famiglia di lui, e scoraggiare quell’unione. Il punto finale su quando il potenziale genero chiese al Duce a quanto ammontasse la dote della figlia, guadagnandosi il disprezzo di Mussolini, che lo cacciò di malo modo. Dopo Mangelli, sembra che Edda avesse preso a frequentare un certo Dino Mondolfi, di origine ebraica: per quanto all’epoca Mussolini non fosse antisemita, rigettò la prospettiva di quel genero, dicendo alla figlia che gli ebrei erano i suoi peggiori nemici.

Giunti a quel punto, il matrimonio di Edda si era trasformato in un affare di stato e il Duce incaricò della questione, tra gli altri, la sorella Edvige.

Non si sa se per caso o se per opera di qualcuno, ma fu a quel punto che fece la sua comparsa Galeazzo. Il giovane non era del tutto sconosciuto a Edda. La famiglia Ciano era molto vicina ai Mussolini: Costanzo non solo faceva parte del governo, ma era considerato uno degli uomini più vicini al Duce, tanto che quando morì, nel giugno del 1939, pare che fosse lo stesso Mussolini a mostrare al genero un documento, risalente agli anni Venti, col quale lo designava come suo successore. In occasione di un soggiorno per una vacanza a Levanto, nel 1928, la madre Carolina e la sorella Maria mostrarono a Edda una foto di Galeazzo, ancora all’estero, e lei lo definì un bel ragazzo.

Non si sa se nel suo ritorno in Italia ci sia lo zampino di Mussolini, ma di sicuro al Duce non dispiaceva questa opzione: si trattava del figlio di un gerarca, appartenente a una ricca e nobile famiglia, tale per meriti militari e non per nascita. Ci mise del suo anche il destino, perché Edda e Galeazzo si incontrarono, pare per caso, agli inizi del gennaio del 1930, in occasione di un ricevimento, pochi giorni dopo che la ragazza aveva rotto col precedente fidanzato.

I due si scrutarono e si esaminarono con cura, forse non fu un colpo di fulmine, ma di sicuro qualcosa scattò, tanto che qualche giorno dopo, quando andarono al cinema a vedere Ombre Bianche, uno dei primi film sonori arrivati in Italia, con Edda sorvegliata speciale dalle guardie del padre, Galeazzo le rivolse la fatidica domanda, e lei risposte con un: “Perché no?”. Tornata a casa, Edda comunicò la notizia al padre, che pare inciampasse nell’atto di indossare calzoni, mentre i fratelli la canzonavano, non riuscendo a credere che si sarebbe mai sposata.

Concluse le celebrazioni ufficiali, con una Rachele stravolta e che, rivolta agli altri figli, disse che quando si sarebbero sposati loro non si sarebbero fatte tante storie, la coppia partì per il viaggio di nozze. Edda, tra le prime patentate d’Italia e amante delle auto sportive, si mise al volante della cabriolet (sembra che Galeazzo non amasse guidare). La vettura era seguita da un’altra macchina, a parte quella carica di bagagli, sulla quale viaggiava il padre della sposa, che forse per la prima volta si era reso conto di aver perso la figlia adorata. Edda fermò la macchina, e dirigendosi verso il padre, gli disse di smetterla di seguirla, rischiava solo di mangiare la polvere. Il Duce in quella occasione si dimostrò molto dimesso, una cosa quasi incredibile per chi era abituato a vederlo solo nelle occasioni ufficiali, mentre Rachele, che aveva accompagnato il marito, allungò alla figlia una banconota da mille lire “per ogni necessità”, una scena che sembrò divertire molto Galeazzo.

La luna di miele ebbe come prima meta l’isola di Capri e qui accaddero due episodi piuttosto divertenti. Edda era molto imbarazzata, non avendo alcuna esperienza nel sesso (a differenza di Galeazzo): si abbuffò fino a scoppiare, per rinviare il momento fatidico e quando si ritirarono in camera, si chiuse nel bagno, dicendo di essere imbarazzata per tutti quegli sguardi della gente che si sentiva addosso. Galeazzo cercò di sdrammatizzare, ma quando la moglie gli rispose che era pronta rifugiarsi sui faraglioni, il marito rispose che era curioso di vedere come sarebbe riuscita ad arrivarci. I due scoppiarono a ridere e iniziò la prima notte nuziale, della quale Edda non serberà un bel ricordo: alcuni storici hanno perfino ipotizzato che soffrisse di una frigidità di fondo, e dopo la nascita dei primi due figli Fabrizio, venuto al mondo a Shanghai nel 1931 e Raimonda (nota Dindina), nata a Roma due anni dopo, ebbero ancora un terzo figlio, nel 1937, Marzio, dopodiché sembra che tra i due non ci sarebbero più state grandi effusioni.

Durante la luna di miele, Edda si rese conto per la prima volta di non essere più libera: quando le capitò di incontrare e salutare con troppo affetto un suo ex spasimante, rimediò uno schiaffone dal marito; e lo stesso avvenne quando, qualche tempo dopo, indossò un costume da bagno giudicato troppo osé per gli standard dell’epoca (“era di mano lesta” commentò anni dopo, riferendosi al marito).

Nonostante il matrimonio, Galeazzo già nei primi anni trascorsi a Shangai, dove – grazie al suocero – aveva ottenuto la titolarità del prestigioso consolato generale, egli non si fece mancare avventure galanti con altre donne, specie dopo che Edda rimase incinta del primo figlio. E pure negli anni a venire ebbe molte amanti, quasi sempre scoperte da Edda, che rassegnata invitò il marito a scegliersi perlomeno donne che le stessero simpatiche.

Dopo il loro rientro in Italia, ai primi di agosto del 1933, e scoperta la nuova gravidanza, Edda andò a lamentarsi col padre delle infedeltà del marito, ma Mussolini per una volta non prese le difese della figlia, invitandola a sopportare in silenzio e senza fare tante storie: del resto, lo abbiamo già detto, lo stesso Mussolini non era precisamente un marito fedele[4]. Era altri tempi, e la mentalità vedeva la donna come il paziente e silente “angelo del focolare”. Un ritratto che non si confaceva a Edda, che non soltanto si concesse una villa a Capri dove andare per lunghi periodi a vivere lontano dal marito, ma ebbe a sua volta delle storie extraconiugali: si disse che tra i suoi amanti ci fosse stato anche Emilio Pucci, che per averla aiutata negli anni di Salò, finì nelle grinfie dei nazisti, il che non gli impedì nel dopoguerra di divenire uno stilista di fama mondiale.

Edda, ad ogni modo, continuò a sostenere il marito, tanto che fu grazie alla sua intercessione (“Fai quello che vuoi, mandalo dove ti pare, ma dagli da lavorare!”) che Galeazzo fu nominato da Mussolini capo del suo ufficio stampa, di fatto mettendolo a capo dell’apparato propagandistico e chiamato a vigilare sui mezzi di informazione del regime; per premiare il suo operato, l’ufficio venne poi trasformato in sottosegretariato e, infine, in ministero della Stampa a propaganda, sancendo così l’ingresso ufficiale di Galeazzo nella compagine di governo. Le infedeltà coniugali non impedirono che l’apparato propagandistico del regime, al quale sovrintendeva lo stesso Galeazzo, celebrasse la famiglia Ciano come l’emblema della famiglia italiana e fascista.

Inutile dire che la brillante carriera del “generissimo” suscitò invidie e gelosie di ogni tipo: se già negli anni Venti su di lui circolavano poesiole irriverenti come:” Galeazzo Ciano, conte di Cortellazzo, bella la rima in ano, migliore quella in azzo”, meno di dieci anni dopo ne girò una molto più esplicita: “Il suo nome finisce in azzo, il cognome finisce in ano, egli è genero di un pazzo, ed è figlio di un ruffiano. Ti par forse cosa strana, che la moglie sia puttana?”[5].

Nel 1935 Galeazzo partì per l’africa, per partecipare come volontario alla guerra d’Abissinia, alla quale presero parte anche i figli maggiori di Mussolini e dove si guadagnò decorazioni al merito, guidando una squadra aerea chiamata la “disperata”. Fu grazie a una guerra combattuta con mezzi poco ortodossi (come i gas), contro un popolo munito di armamenti inadeguati e rudimentali, che il 5 maggio del 1936 Mussolini, affacciato al balcone di palazzo Venezia, poteva annunciare alla folla la rinascita dell’Impero sui colli fatali di Roma. Un mese dopo, per ricompensarlo del suo operato, il Duce elevò il genero alla carica di ministro degli Esteri, subentrando allo stesso Duce che ne aveva avuto l’interim fino a quel momento. Ciano avrebbe conservato quell’incarico fino al 5 febbraio del 1943, mentre suo padre aveva lasciato il governo nel 1934, per divenire presidente della Camera, carica che rivestì fino alla morte.

Ciano divenne il più stretto collaboratore di Mussolini, tanto che si diffusero le voci che lo indicavano come possibile successore del Duce; allo stesso tempo, Galeazzo stabilì un filo diretto con casa Savoia, pure grazie alle buone entrature del padre, che già godeva della fiducia del sovrano, e in particolare coi principi di Piemonte, nella prospettiva che un domani sarebbero stati Umberto e Galeazzo a guidare il paese. Una certa confidenza si instaurò con la principessa Maria Josè, che considerava Ciano uno dei pochi gerarchi coi quali era possibile interloquire: la moglie di Umberto, dopo una prima fase di timida simpatia per il regime, si era distanziata sempre di più dal fascismo, tanto da guadagnarsi l’etichetta di principessa antifascista. A riprova dei loro buoni rapporti, quando nel maggio del 1940 la Germania stava per invadere il suo paese natale, il Belgio, fu proprio Galeazzo ad anticiparle la notizia, di modo tale che la potesse riportare al fratello, re Leopoldo III. Galeazzo ricevette dal re Vittorio Emanuele III il Collare della Santissima Annunziata, la più alta onorificenza regia, mentre Edda non ebbe mai un buon rapporto con gli ambienti monarchici, lasciandoci un commento molto sarcastico sui ricevimenti a Quirinale: “pochi e perfidi i liquori, immangiabili i dolci”.

Il periodo della permanenza di Ciano a Palazzo Chigi, dove allora aveva sede il ministero degli Esteri - Mussolini aveva come sede ufficiale Palazzo Venezia - ci ha lasciato un importantissimo documento storico: i suoi diari, che coprono gli anni dal 1937 al 1943, giunti fino a noi grazie a Edda, che riuscì a mettere in salvo quei quaderni, quando riparò in Svizzera, agli inizi del 1944. Le annotazioni si riferiscono per lo più a fatti storici e politici, ma non mancano i passaggi su Edda, come quelli circa il suo convinto sostegno all’ingresso in guerra dell’Italia, non sempre condivisi da Galeazzo. Ma ci torneremo tra poco.

Al di là dei commenti velenosi sul suo conto – amore per il lusso e la vita comoda, il suo fare da snob, tanto che il suo stile salottiero, godereccio e a tratti “spaccone”, gli valsero tra gli amici il soprannome di Gallo - Edda espresse parola di stima per l’operato e il coraggio di Galeazzo come uomo politico e come ministro degli Esteri. Nei primi anni si dimostrò perfettamente allineato col suocero, verso il quale, come traspare in molte delle sue annotazioni, nutriva una venerazione paragonabile a quella per il padre, per esempio quando ammette di aver “pianto come un bambino” ascoltando un suo discorso alla radio, o quando scrive che si fa tutto per lui, per farlo contento o per avere la sua approvazione, Ma col tempo le cose cambieranno.

Ciano, inoltre, riscuoteva molti successi in alcuni ambienti – come la nobiltà o il Vaticano – coi quali Mussolini, forse in virtù degli umili natali o del passato socialista, non aveva mai legato e che vedevano nel genero del Duce un sicuro riferimento e il volto presentabile del regime.

Una cosa che sarebbe lecito chiedersi è se Ciano fosse autenticamente fascista. Diciamo subito che in un regime quale quello mussoliniano sarebbe impossibile, se non ingenuo, fondare le proprie conclusioni sugli atti ufficiali e/o sulla propaganda di regime. In realtà, basterebbe leggere alcuni passaggi del diario per comprendere come i pensieri di Galeazzo fossero spesso molto diversi dalle sue dichiarazioni ufficiali. E se non è possibile discutere l’affetto e l’ammirazione per Mussolini – che traspare perfino nelle note conclusive del diario, quando il Duce lo ha appena destituito dal ministero degli Esteri – la questione dell’approccio ideologico è un altro discorso. Ciano credeva molto più nel potere e nei valori conservatori nei quali era cresciuto ed era stato educato, che in quelli fascisti. Era poco più che un ragazzo quando Mussolini prese il potere e non ebbe nulla a che vedere col passato rivoluzionario dell’ex socialista romagnolo, così come non condivideva certe prese di posizione contro la borghesia o la “vita comoda”, che lui tanto apprezzava. Con ogni probabilità per Ciano quel che contava era il potere costituito, che in quel momento era rappresentato da Mussolini, e tanto bastava. Occasioni ufficiali a parte, egli non amava molte delle manifestazioni esteriori troppo enfatizzate – come la campagna per l’uso del “voi” o l’abolizione della stretta di mano o dei termini stranieri -, fortemente volute dal segretario Achille Starace, che non a caso egli contribuirà a esautorare nel 1939.

Sarebbe possibile persino ipotizzare che quello che di Ciano è stato considerato il tradimento per eccellenza – e che gli costerà la fucilazione – vale a dire il voto contro Mussolini del 25 luglio, non sia stato dal suo punto di vista un voltafaccia, ma un atto di patriottismo in una fase particolarmente critica: letta in questi termini, il suo gesto apparirebbe assai più nobile di quello di altri personaggi, che probabilmente furono mossi più da ragioni opportunistiche, e che a differenza di lui ebbero l’accortezza di darsi alla fuga in tempo utile per salvare la pelle.

Quando fu chiamato a gestire la politica estera del regime, Ciano fu in un primo momento un sostenitore del progressivo avvicinamento alla Germania nazista, spinto dall’isolamento internazionale e dalle sanzioni votate dalla Società delle Nazioni a causa dell’aggressione all’Etiopia, alle quali Hitler, che era già uscito dall’organizzazione, non applicò. Il Reich fu tra i primi stati a riconoscere l’impero d’Italia. Ciano riuscì a stabilire un buon rapporto col collega tedesco Konstantin von Neurath, mentre non altrettanto potrà dirsi col suo successore, Joachim von Ribbentrop, col quale, maturerà da subito una reciproca antipatia, trasformatasi col tempo in odio.

Eppure, furono proprio i due ministri degli esteri a firmare a Berlino, il 22 maggio 1939, il patto d’acciaio, un accordo politico e militare che in sostanza univa indissolubilmente l’Italia al Terzo Reich, e che ci avrebbe trascinato nella Seconda guerra mondiale. Nei diari si legge la contrarietà di Ciano all’intesa, che lui stesso definì dinamite pura, e che fu costretto a sottoscrivere (così scrive) su imposizione e per capriccio di un dittatore. Nelle sue ultime note, scritte nel carcere di Verona a fine dicembre del 1943, quando attendeva il processo che lo avrebbe condannato a morte, Ciano parlò di una firma indotta dalla “reazione dispettosa” di Mussolini rispetto ad alcuni commenti comparsi sulla stampa straniera, circa una presunta contrarietà del popolo italiano all’alleanza, che avrebbe dato luce verde a un atto tanto gravido di conseguenze per la patria.

Galeazzo non credeva all’intenzione tedesca di onorare l’impegno di non scatenare la guerra prima di qualche anno, e quando ad agosto del 1939 Ribbentrop – violando i patti – gli diede in anteprima la notizia dell’attacco alla Polonia, Galeazzo e lo stesso Mussolini verranno messi di fronte al fatto compiuto, mentre tutte le obiezioni sollevate da Ciano scivolano come acqua sul marmo.

Fu grazie alle pressioni di Ciano e degli altri ambienti del regime e della monarchia e delle forze armate altrettanto contrari, che per dieci mesi l’Italia si terrà fuori dal conflitto (la «non belligeranza»), motivando la decisione – cosa peraltro verissima – con l’impreparazione bellica e tecnica del nostro paese. L’escamotage studiato da Ciano, e concordato col Duce, si tradusse in una richiesta impossibile da evadere concernente mezzi e armamenti, la cui lista fu consegnata ai tedeschi, con la precisazione che in carenza l’Italia, suo malgrado, non avrebbe potuto combattere. A Berlino compresero perfettamente la manovra, bastò una semplice calcolo per stimare che per il solo trasporto di quanto richiesto sarebbero stati necessari qualcosa come 17.000 treni, e gli alleati fecero buon viso a cattivo gioco: Hitler si infuriò e Ciano si guadagnò definitivamente il suo odio mortale.

Sappiamo, però, che si trattò solo di un rinvio. Il 10 giugno 1940 Mussolini prese ufficialmente la decisione fatale e Ciano non poté far altro che eseguire, consegnando la dichiarazione di guerra nelle mani degli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia, sentendosi dire da quest’ultimo che si trattava di un colpo di pugnale inferto a un uomo a terra, aggiungendo un ringraziamento per usare il guanto di velluto.

A differenza di Mussolini, che dichiarò guerra probabilmente convinto di non farla, per lucrare i frutti di una rapida vittoria tedesca (resta famosa la sua frase secondo la quale gli serviva qualche migliaio di morti per sedersi da vincitore al tavolo della pace), Ciano non era affatto sicuro del rapido esito e si domandava se augurare agli italiani «una vittoria o una sconfitta tedesca». Secondo stando a quanto scrive nei suoi diari, Mussolini ebbe nei mesi della non belligeranza un atteggiamento altalenante, combattuto tra la conservazione della neutralità, che stava dando indubbi vantaggi economici al nostro paese, e quello di un ingresso in guerra. Questa opzione sembrava aver avuto la meglio verso la fine del 1939, quando era stato varato un rimpasto di governo, che diede vita al cosiddetto Gabinetto Ciano, per via della presenza di molti fedelissimi del genero del Duce nella compagine. Inoltre, in un discorso tenuto il 16 dicembre 1939 dinanzi alla Camera dei fasci e delle corporazioni, Ciano dichiarerà ufficialmente – attirandosi ulteriori odi a Berlino – che la decisione tedesca di scatenare il conflitto era avvenuta in violazione degli impegni presi, che non prevedevano una guerra prima di qualche anno e, soprattutto, era mancata la reciproca consultazione, come pure in occasione del patto Molotov Ribbentrop. Tenuto conto che Ciano aveva ricevuto l’imprimatur del Duce sulle sue dichiarazioni, questo elemento potrebbe rafforzare la tesi che la decisione dell’entrata in guerra maturò in modo piuttosto repentino, e nella erronea convinzione che già abbiamo detto.

Ma cosa aveva fatto maturare in Ciano un atteggiamento sempre più sospettoso nei riguardi degli alleati tedeschi, dopo gli slanci iniziali?

Antipatie personali a parte, Ciano frequentando i tedeschi si era reso conto che nei loro piani l’Italia aveva un ruolo assolutamente subordinato, e cercò inutilmente di farlo capire al Duce, tanto che fu proprio a causa di questa disparità di vedute circa i rapporti con la Germania che maturò un progressivo cambiamento nella considerazione verso il suocero, che si può percepire anche nelle annotazioni dei diari. A partire dal ’39 il “capo” o il “duce”, col quale Galeazzo si riferiva in tono deferente al Duce, vengono sempre più spesso sostituite dal neutro “Mussolini” e cominciano le prime critiche, come quando (maggio 1939) accusava il suocero di preoccuparsi più di questioni di forma che di sostanza.

Ma c’era stato un episodio, anch’esso ripreso nei diari, che aveva segnato il vero e proprio punto di svolta. A marzo del 1939 Hitler, contravvenendo agli impegni presi a Monaco pochi mesi prima, invase Boemia e Moravia, trasformandole in un protettorato del Reich. Ciano si rese finalmente conto che la parola dei tedeschi non aveva nessun valore e si domandò come sarebbe stato possibile fidarsi di loro in futuro, prendendo l’impegno (almeno con se stesso) di lavorare per allontanare l’Italia e il Duce dalla Germania. Più volte nei diari si possono leggere, a partire da quel momento, delle critiche di Ciano nei confronti degli “alleati”, come quando li accusò di non averli resi partecipi di decisioni fondamentali, come quella di muovere guerra all’Unione Sovietica.

E, nonostante ciò, era stato proprio lui, nel mese di aprile del fatale 1939, a volere l’iniziativa militare lampo contro l’Albania, che trasformerà il piccolo regno balcanico in un protettorato italiano. Ciano farà dell’Albania una sorta di feudo personale, nominando un suo fedelissimo, Francesco Jacomoni, come luogotenente generale. Vittorio Emanuele venne proclamato sovrano in occasione di una piccola cerimonia svoltasi al Quirinale il 16 aprile 1939 e, in omaggio alla moglie, Ciano volle che uno degli scali albanesi fosse intitolato alla moglie: Porto Edda: pare che l’annessione della nazione fruttasse parecchi guadagni al clan Ciano.

La conquista italiana causerà qualche timida protesta internazionale, ma nulla di paragonabile rispetto a quelle suscitate dalle azioni di Hitler, anche perché, come si disse all’epoca, occupando l’Albania l’Italia aveva compiuto un atto paragonabile a quello di colui che rapisca la propria moglie. La conquista dell’Albania, che forse non avrebbe avuto successo se gli italiani avessero incontrato una resistenza degna di questo nome, scaturì da una sorta di volontà di rivalsa verso i tedeschi - un po’ come la campagna di Grecia dell’ottobre 1940 - per dimostrare a

L’andamento del secondo conflitto mondiale, dopo la prima fase trionfale (grazie ai tedeschi), sembrò sempre di più confermare i timori di Ciano e delle altre personalità contrarie alla guerra. Le prime azioni in Francia (giugno 1940) e Grecia (ottobre 1940) si rivelarono un completo disastro e pure in Africa le cose andarono molto male, dimostrando che i calcoli di Mussolini si erano rivelati clamorosamente sbagliati. L’Italia otteneva qualche successo solo se o qualora la Germania veniva in suo soccorso, e l’illusione della guerra parallela si sciolse ben presto come neve al sole.

Ciano, al pari degli altri ministri, per dare il buon esempio andò in guerra, mentre Edda, fervente sostenitrice dell’alleanza con la Germania e dell’ingresso in guerra, volle a suo modo prendere parte allo sforzo bellico, prestando servizio come crocerossina sul fronte russo e nei Balcani, dove nel 1941 una nave-ospedale su cui si trovava fu affondata dagli inglesi e la figlia del Duce rimase dispersa per diverse ore.

Ciano contribuì, fin quando ne ebbe il potere e in collaborazione con rappresentanza diplomatiche straniere, a mettere in salvo migliaia di ebrei perseguitati: la stessa Edda racconterà che grazie a lui riuscirà a mettersi in salvo il suo ex spasimante Dino Mondolfi, assieme alla sua famiglia[6].

Galeazzo, sempre più critico verso l’andamento della guerra – specie dopo i disastri militari e la sempre più forte penuria di generi di prima necessità, peggiorate con l’ingresso in guerra di Unione Sovietica e Stati Uniti - fu convocato da Mussolini agli inizi del febbraio del ’43, per comunicargli le sue “dimissioni” e dargli l’opportunità di scegliersi un nuovo incarico. Rifiutando la luogotenenza in Albania, per non essere costretto a ordinare la fucilazione di molti dei suoi sostenitori, Ciano preferì l’incarico di ambasciatore in Vaticano, che oltretutto gli consentiva di restare a Roma: presso la Santa sede Ciano aveva intessuto importanti relazioni, tra gli altri con monsignor Giovanni Battista Montini - futuro papa Paolo VI e allora sostituto alla segreteria di Stato – e in quella fase storica la diplomazia vaticana poteva rappresentare l’unico canale di collegamento con gli alleati. L’8 febbraio del 1943 si concludevano, assieme alla sua esperienza di governo, i diari di Ciano.

Il genero del Duce restava comunque membro del Gran Consiglio del fascismo, sulla carta il massimo organo decisionale del regime, per quanto non avesse mai avuto alcuna reale rilevanza, limitandosi a ratificare le volontà del Duce. L’unica seduta che forse abbia mai contato veramente qualcosa fu quella del 25 luglio 1943, alla quale Ciano prese parte, votando assieme ad altri diciotto gerarchi il cosiddetto ordine del giorno scritto da Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, col quale, in estrema sintesi, si chiedeva al Duce si rimettere la suprema iniziativa politica e militare al Re, restituendogli la delega sulla conduzione delle operazioni militari che il sovrano aveva conferito al Duce all’inizio della guerra. In un’intervista rilasciata pochi anni prima di morire, Edda dichiarerà che il padre sapeva dell’ordine del giorno e che lui e suo marito fossero d’accordo: non possiamo dire se questo corrispondesse vero, ma di sicuro Mussolini aveva letto in precedenza il testo, che gli era stato mostrato dallo stesso Grandi pochi giorni prima della riunione.

Sotto il profilo strettamente giuridico e costituzionale il voto non aveva carattere vincolante, ma il significato politico era indubbio: per la prima volta, sia pur simbolicamente, le alte gerarchie del regime, tra le quali Ciano, votavano la “sfiducia” al dittatore; per la cronaca Edda in quel momento era a Livorno coi figli e seppe dei fatti al suo rientro a Roma. Il giorno seguente Mussolini sarebbe stato destituito dal Re e sostituito alla guida del governo col maresciallo Pietro Badoglio; l’ex Duce fu arrestato e imprigionato. Ciano si dimise pochi giorni dopo dall’incarico presso la Santa sede e resosi conto della piega presa dagli eventi - pare che in un impeto d’ira chiedesse alla moglie di sparargli per farla finita e non compromettere anche lei – e compreso che il governo Badoglio non aveva nessuna intenzione di avvalersi dei suoi servigi, o prenderne le difese, non trovò di meglio che chiedere l’aiuto dei tedeschi, per il tramite di Edda. Fu così, che a fine agosto, assieme a moglie e figli, salì a bordo di un aereo messo a disposizione dalla Germania, con la promessa che li avrebbero portati in salvo nella Spagna franchista, un regime amico di Ciano, fervente sostenitore della guerra civile che aveva segnato la vittoria dei nazionalisti di Francisco Franco. Ma Hitler aveva altri piani. L’aereo atterrò a Monaco di Baviera, dove i Ciano furono praticamente confinati in una villa fuori città e dove furono raggiunti, pochi giorni dopo, dalla notizia dell’armistizio di Cassibile e da quella della liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso.

La famiglia poté così riunirsi in Germania – Edda testimoniò dell’abbraccio tra il padre e il marito – e su impulso di Hitler Mussolini diede vita allo stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana, nei territori della penisola occupati dalle truppe tedesche. Ciano sperava di poter collaborare ancora col suocero, ma spinto dai nazisti e dai camerati più intransigenti, sfidando la figlia che aveva avuto il coraggio di dire in faccia a Hitler che la guerra era oramai perduta, Mussolini consentì che il 17 ottobre 1943 Ciano venisse estradato in Italia, su formale richiesta del segretario del neonato Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini, un tempo suo amico e che grazie a Galeazzo aveva fatto una brillante carriera politica. Ciano venne incarcerato, mentre Edda e i loro figli rientrati a loro volta in Italia, furono lasciati liberi.

Il regime collaborazionista di Salò chiedeva a gran voce il processo contro i traditori del 25 luglio – molti dei quali, come lo stesso Grandi, erano riparati all’estero - che fu celebrato a Verona, dinanzi al cosiddetto tribunale speciale, ai primi di gennaio del 1944, e si concluse in pochi giorni con la scontata condanna a morte della maggior parte degli imputati, incluso Ciano, l’unico per il quale il voto fu espresso all’unanimità. Tra i condannati figurava anche Emilio Di Bono, maresciallo e quadrumviro della marcia su Roma, che verrà fucilato assieme al genero del Duce. La condanna, respinta la domanda di grazia e rigettate le suppliche e le minacce di Edda al padre, ebbe luogo l’11 gennaio del 1944. Disponiamo del filmato dell’esecuzione, curato da un cineoperatore tedesco, perché la bobina fu ritrovata e pubblicata dallo storico Renzo De Felice, che curò anche la pubblicazione integrale, corredata di note e richiami storici, dei diari di Ciano. Nella edizione del 1990 c’è anche un’introduzione, che riprende le parole vergate dello stesso Ciano a fine dicembre, pochi giorni prima del processo che lo condannerà a morte, con l’auspicio che la pubblicazione delle sue note possa servire a individuare colpe e responsabilità. Lui stesso, affidando un ultimo messaggio al confessore prima dell’esecuzione, disse di morire senza rancore per nessuno. Alcuni stralci furono pubblicati nel 1945 sulla stampa occidentale, mentre le prime edizioni arrivarono pochi mesi dopo e uscirono in varie lingue negli Stati Uniti, in Svizzera e in Italia (con Rizzoli).

Ci si è chiesti per quale ragione Mussolini non fece nulla per salvare Galeazzo, al quale era sicuramente molto affezionato. La risposta va ricercata, con ogni probabilità, nella sudditanza dell’ex Duce a Salò nei confronti dei nazisti, che di fatto controllavano ormai ogni sua mossa, e che trovò conferma in un colloquio che Mussolini ebbe con il generale delle SS Karl Wolff, nel corso del quale fu detto chiaro e tondo che se avesse graziato il genero, il gesto gli sarebbe costato la stima e fiducia del Fuhrer, l’unica cosa che gli restava.

L’esecuzione di Ciano fece definitivamente naufragare i rapporti del Duce con la figlia, che parlando al telefono con lui un’ultima volta lo minacciò di rivelare i contenuti più sgradevoli dei diari del marito – come quelli nei quali Mussolini dava gli ordini più spietati contro i popoli dei paesi occupati – e lo sfidò ad arrestarla.

Edda riparò in Svizzera in concomitanza con l’esecuzione del marito, non prima di aver messo in atto un ultimo e disperato tentativo per salvarlo, in collaborazione con Frau Betz, una spia tedesca che cercò a sua volta di salvare Galeazzo, con il quale ebbe – forse – qualche rapporto intimo, l’ultima soddisfazione terrena per il condannato a morte. Il piano contemplava uno scambio tra la liberazione di Galeazzo e la consegna dei suoi diari ai nazisti, che sarebbero dovuti servire, nelle intenzioni di alcuni leader del Terzo Reich - tra i quali figurava sembra Ernst Kaltenbrunner, generale delle SS e capo dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, che per la cronaca sarebbe stato condannato a morte a Norimberga - per scagionarsi dinanzi agli alleati, dimostrando che la guerra era stata voluta solo da Hitler; il Fuhrer, venuto a conoscenza del piano, lo bloccò immediatamente, rendendo vano quell’inutile e disperato tentativo.

Riparando in Svizzera, dove già si trovavano i suoi figli e dove sarebbe rimasta sino alla conclusione della guerra, Edda riuscì a portare con sé i diari, nascondendoli nei vestiti, e fu grazie a lei che quei quaderni divennero un documento storico di primaria importanza, che permisero di aprire nuovi scenari sul ventennio; una parte degli scritti si salvò anche grazie a Frau Betz, che ne fece delle copie per il periodo ‘37/’38. Inutile dire che molti studiosi ne hanno contestato nel tempo l’attendibilità e la genuinità, facendo leva su imprecisioni e/o parti mancanti, senza escludere eventuali manipolazioni a posteriori, magari a posteriori per sollevarsi da responsabilità e/o alla luce dei fatti occorsi successivamente, ma restano comunque una fonte importante per comprendere il senso di molti eventi. Lo storico Renzo De Felice, tra i massimi studiosi del Fascismo italiano, li definì “una fonte memorialistica di primaria importanza per la ricostruzione e la comprensione della storia italiana del periodo”.

Un fatto incontestabile è che Mussolini sapeva dei diari del genero, visto che è lo stesso Ciano che annota più volte di avergliene parlato e/o che cita dei riferimenti dello stesso Mussolini ai suoi scritti in occasione di diversi colloqui, nei quali lo invita a prendere nota di certi fatti. Un riferimento ai diari lo fece persino l’arcinemico Ribbentrop, quando era sotto processo a Norimberga e dove l’ex ministro di Hitler sostenne che in realtà esistevano due versioni dei diari, una “riveduta” per dare una nuova “verginità” politica a Ciano. Ribadito che i due si odiavano a morte, in realtà quel che rende poco credibile questa versione è la considerazione che Ribbentrop avesse tutto l’interesse a sminuire l’importanza del documento, che attestava le sue responsabilità nello scatenamento della guerra, e che gli sarebbero costante la forca.

Dopo la guerra, Edda rientrò in Italia e venne mandata al confino a Lipari, dal quale poté uscire grazie all’amnistia voluta dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti. La donna si sarebbe riconciliata con la madre, che aveva sostenuto la fucilazione del genero, e che morirà nel 1979: commentando i fatti, Edda disse: «Lei ha difeso il suo uomo, io ho difeso il mio», rivendicando anche il merito di essere riuscita a rimettere insieme le famiglie Mussolini e Ciano. Un episodio che ha fatto storia, ripreso alcuni anni fa da una fiction, fu la breve relazione avuta durante il confino di Lipari con l'ex partigiano comunista Leonida Bongiorno

Edda Ciano Mussolini concederà negli ultimi anni della sua vita una serie di interviste, come quella nei giardini di Villa Torlonia del 1982 (a cura di Nicola Caracciolo) e quella con Giordano Bruno Guerri a fine anni Ottanta[7], che sono una straordinaria testimonianza storica che la figlia del Duce ha voluto lasciare, prima di morire a Roma l’8 aprile 1995, all’età di 84 anni. Edda riposa a Livorno, nel Cimitero della Purificazione, accanto al marito.

In una di quelle interviste Edda si rammaricava dell’ultima lettera spedita al padre dalla Svizzera, nella quale gli scrisse di non volere più avere nulla a che fare con lui e che accettava il suo aiuto economico solo per necessità, salvo per restituirglielo: Mussolini aveva venduto il Popolo d’Italia e aveva mandato alla figlia la sua quota, promettendole una spiegazione di tutto quando si sarebbero rivisti (cosa che non avvenne).

Si è molto discusso della presunta influenza politica di Edda sul padre. Ora, è vero che Edda si interessava dell’attualità e ne parlava col padre e col marito, così come va ricordato che nell’imminenza della campagna di Etiopia compì, per conto del Duce, una sorta di missione non ufficiale in Inghilterra, per saggiare gli umori britannici rispetto all’operazione militare: lei stessa raccontò che le fu detto che nulla sarebbe stato fatto contro l’Italia, per quanto ovviamente gli inglesi le dicessero che avrebbero condannato formalmente l’invasione. E restano un fatto le sue simpatie per i nazisti, culminate con vari viaggi in Germania, dove fu accolta con tutti gli onori, dimostrandosi in questo senso sempre più distante dal marito, che al contrario di lei aveva molta più simpatia per la Francia, così come è indubbio il suo atteggiamento favorevole alla guerra. Ma da tutto questo farne derivare un’influenza politica ce ne corre, e il destino tragico della sua famiglia ne costituisce semmai la prova contraria.

Edda, nonostante tutto, rimase legata al padre e lei stessa raccontò che appresa la notizia alla radio della morte di Mussolini ebbe una crisi di nervi, perdendo subito dopo conoscenza. Non si risposò mai e nella sua lunga vita sopportò molti lutti: a parte la scomparsa dei genitori, perse due fratelli, Bruno morto in guerra nel 1941 e Anna Maria deceduta per un male incurabile ad appena 38 anni, oltre al figlio Marzio, scomparso nel 1974, a 36 anni.

Di Edda si può pensare quel che si vuole, ma al di là delle opinioni politiche resta il ritratto di una donna forte e controcorrente per i suoi tempi, a suo modo indipendente e fuori dagli schemi. E questo rappresenta uno di quei famosi paradossi che la storia si diverte a restituirci, in quanto parliamo della figlia (in ogni senso) di un regime che voleva una donna legata a tradizioni e stereotipi che lei rifiutò sempre. In questo senso l’etichetta di “figlia ribelle” del Duce ha un suo perché.

FONTI

www.treccani.it/enciclopedia/galeazzo-ciano_(Dizionario-Biografico)/

www.treccani.it/enciclopedia/edda-mussolini_%28Dizionario-Biografico%29/

Un amore fascista. Benito, Edda e Galeazzo Condividi, di Giordano Bruno Guerri, Milano, 2005

Galeazzo Ciano - DIARIO 1937-1943, A cura di Renzo De Felice, Edizione integrale (1990)

Emilio Gentile, Storia del fascismo, Roma, 2022

RAI Storia, documentario "Tutti gli uomini di Benito Mussolini", 1982

www.raicultura.it/storia/articoli/2019/01/La-caduta-di-Mussolini-c6998b9a-ac1c-4e34-82c0-6d09e7cab937.html

Mussolini e il fascismo, a cura di Renzo De Felice, volumi 5 – 6 – 7 (1996)

www.corriere.it/cultura/18_novembre_18/ciano-diario-salerno-eugenio-di-rienzo-ae6cfcfc-eb56-11e8-a3a7-d3b748828557.shtml

www.raiplay.it/video/2018/01/Passato-e-presente---EDDA-CIANI-la-figlia-del-duce-4df0a081-937a-4d91-a002-b995c9700125.html

www.archivioluce.com/edda-racconta/

[1] www.youtube.com/watch?v=i30TaM9U7LM

[2] www.youtube.com/watch?v=3Z5VReN8Em8

[3] www.youtube.com/watch?v=XGVenIlrc88

[4] www.youtube.com/watch?v=d8CAvRDYue0

[5] G.B. Guerri, Un amore fascista, pag. 47

[6] RAI Storia, documentario "Tutti gli uomini di Benito Mussolini", 1982.

[7] www.youtube.com/watch?v=aRLrnm3qTRw

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