L'Europa manda il meridione d'Italia alla deriva



di Guido Salerno Aletta - Milano Finanza

Il Meridione, insieme ed ancor più dell’Italia intera, è ormai alla deriva rispetto all’Europa del Nord. L’ultimo Rapporto Svimez è una sorta di diario di bordo, scritto dall’ufficiale di rotta di una nave che non governa, e che con rassegnata disperazione descrive la duplice distanza che si accresce rispetto alla rotta tracciata: il divario che separa l’Italia dal resto dell’Europa, e quello del Mezzogiorno dal resto dell’Italia sembra ormai incolmabile, tra emigrazione dall’Italia e saldo demografico negativo.


La balìa del Mezzogiorno dipende anche dalle manovre di bordo, invariabilmente bloccate: le risorse europee, pure disponibili, rimangono per la gran parte inutilizzate. Poche, disperse in mille inutili rivoli, vengono utilizzate per fabbricare pagaie e misere scialuppe.


Mentre i Paesi dell’Est si avvicinano alla media europea, quelli del Sud se ne discostano: è questo il paradosso di una Europa che da anni finanzia le delocalizzazioni produttive, con l’Italia colpita per prima. Da noi si chiudono le fabbriche che riaprono dove i costi del lavoro, fiscali e della protezione sociale sono infimi, mentre gli investimenti sono spesati direttamente dall’Unione: un deflusso inarrestabile, ormai da decenni.


Tutto è cambiato a distanza di mezzo secolo nelle politiche meridionalistiche: a partire dall’istituzione delle Regioni nel 1970, fino all’ultimo tentativo, nel 1976, di dare al Meridione una strategia di sviluppo complessivo. Non solo a quei tempi era inesistente il divieto di aiuti di Stato alle imprese, che fu introdotto solo nel 1992 con il Trattato di Maastricht, ma l’Italia, per un intero decennio a partire dalla firma del Trattato di Roma, aveva beneficiato del “pieno sostegno della Comunità europea nell'esecuzione di un programma di espansione economica volto a sanare gli squilibri strutturali dell'economia italiana, in particolare grazie all’attrezzatura delle zone meno sviluppate nel Mezzogiorno e nelle Isole e alla creazione di nuovi posti di lavoro per eliminare la disoccupazione”. Si raccomandava alle istituzioni europee di “attuare tutti i mezzi e tutte le procedure previsti dal Trattato, ricorrendo in particolare a un adeguato impiego delle risorse della Banca europea per gli investimenti e del Fondo sociale europeo”.


Allora, non c’erano problemi di sorta nel tiraggio delle risorse europee: dominava incontrastata la Cassa per il Mezzogiorno: un centro di potere politico e burocratico incontrastabile, capace di gestire annualmente qualsiasi flusso di risorse si fosse reso disponibile, ripartito principalmente in due Fondi: l’uno per erogare gli Incentivi industriali e l’altro per finanziare le Opere infrastrutturali. Le ragioni del Fondo incentivi vanno richiamate, perché la sua funzione fu compensativa, soprattutto dopo la eliminazione delle gabbie salariali nei contratti collettivi di lavoro nell’industria: allo Stato si accollava il divario di produttività di impresa che era stato negato attraverso l’uguaglianza delle retribuzioni. Anche Napoleone Colajanni, tra i più avveduti degli esponenti del PCI, affermava che un divario salariale superiore al 15% sarebbe stato insostenibile.


Si verificò così la prima divaricazione strategica che pesa ancora adesso rispetto a quanto avviene nella Germania orientale, in cui i salari nei Lander ex-Orientali sono ancora più bassi a distanza di trent’anni dalla Riunificazione, e nei Paesi ex-Comunisti: in Italia, l’unità della classe operaia avvenne sul versante retributivo, eliminando l’unico vero incentivo economico che avrebbe potuto attrarre le imprese nel Mezzogiorno. Gli sgravi fiscali e contributivi, che avevano a tal fine carattere eminentemente compensativo, ed a cui si aggiunsero le provvidenze finanziarie che prevedevano contributi a fondo perduto sul capitale proprio e sugli interessi pagati sui prestiti, vennero presto smantellati: creavano un dualismo interno, fonte di insostenibile distorsione.


La centralizzazione presso la Cassa della attività di pianificazione territoriale, di progettazione ingegneristica, di direzione amministrative e di gestione finanziaria ne fece una sorta di moloch, da smantellare ad ogni costo: aveva troppo potere, era una fonte di corruttela politica prima che sotto il profilo strettamente penale. L’affidamento ai Comuni del ruolo di stazione appaltante dei lavori di realizzazione delle infrastrutture era una formalità, in quanto l’attività procedimentale era gestita dalla Cassa, ma rendeva loro il 15% dell’importo a titolo di ristoro delle spese generali: l’interesse alla conclusione delle opere era irrimediabilmente compromesso, perché avrebbe fatto cessare quella fonte di provento.


Le Regioni, che solamente ai primi anni Ottanta ottennero di poter gestire il 15% delle risorse dell’Intervento Straordinario al fine di garantire un processo di programmazione economica “autocentrata” e non eterodiretta, sono diventati l’anello debole del sistema: la burocrazia dell’Unione è di gran lunga più ostica di quella della tanto deprecata Cassa per il Mezzogiorno: decide autonomamente i parametri di ammissibilità, le quote di cofinanziamento nazionale, gli obiettivi su cui dirigere gli interventi ed il grado di concentrazione delle risorse fra i diversi obiettivi.


La ripartizione degli interventi, che viene concordata con i Piani Operativi Regionali attraverso Assi e Misure, e soprattutto la necessità di procedere alle spese secondo formalità amministrative e tecniche contabili proprie della Unione, rende ingestibile l’utilizzo delle risorse delegato al livello locale. I ritardi negli impegni di spesa sono la regola, le validazioni lentissime, mentre è sempre più frequente la riprogrammazione volta a tagliare le risorse ai programmi che sono più indietro.


Nel frattempo, inesorabili lobby decidono a Bruxelles le priorità di intervento: impongono le Smart City laddove mancano ancora strade, acquedotti e depuratori. Ma è così che si portano i soldi a chi vuol vendere. Tanto, il Quadro pluriennale degli interventi si approva con un Regolamento, il solito autodafè.


E’ il caso di darci un taglio, con questo sistema, ma i nemici da combattere sono per la gran parte nelle nostre file: mentre non esistono burocrazie ministeriali attrezzate, quelle regionali vanno al rimorchio di Bruxelles, abbagliate come sono dalla possibilità di contrattare a livello locale la distribuzione delle risorse europee. Accettano qualsiasi priorità, qualunque criterio: sono soldi che arrivano.


Bisogna ribaltare completamente la logica del ragionamento, secondo il principio di sussidiarietà. Non solo, come Italia, siamo contributori netti dell’Unione, perché paghiamo assai più di quanto riceviamo, ma in più ci vengono imposti obiettivi, priorità e criteri di impiego dei nostri soldi. E’ assurdo.


Nessuno si rende conto, infatti, che dal FESR affluiscono all’Italia solo una parte dei soldi nostri, delle risorse che vengono versate dagli Italiani con le loro tasse, e che vengono indirizzate dalla Unione per finalità che non solo non sono contrattabili, ma che, per essere erogate, richiedono un ulteriore cofinanziamento da parte nostra: ci ridanno indietro solo una parte dei nostri soldi, e pure a condizione che ce ne mettiamo ancora degli altri. Questo criterio è giusto, si ribatte, perché quelle che provengono dall’Europa devono essere risorse aggiuntive rispetto a quelle nazionali. Ma, allora, sarebbe più logico che lo Stato, le Regioni ed i Comuni individuassero autonomamente gli obiettivi da perseguire sulla base degli stanziamenti di spesa già previsti nei rispettivi bilanci, che vanno solo integrati con le risorse europee. E’ l’Unione che deve integrare le risorse nazionali, secondo le priorità decise da ciascun Paese, e non viceversa come avviene oggi.


A fini perequativi, vanno poi negati i contributi comunitari alle imprese che si insediano nei Paesi dell’Est, dove i salari sono ridicolmente bassi, non esistono meccanismi volti a prevenire la disoccupazione e la tassazione è assurdamente bassa, finché tutti i corrispondenti livelli di contribuzione, di tassazione e di spesa per la protezione sociale non siano arrivati al livello della media dei Paesi contributori netti. Non si può fare il riequilibrio continuando a svuotare il sistema industriale dei Paesi che più concretamente tutelano i valori di solidarietà sociale ed economica, tanto sbandierati dal Trattato di Lisbona.


La questione è politica, a livello europeo e nazionale, e vale anche per la ripartizione delle spese pubbliche dello Stato sul territorio in ordine alla quota del 34% che andrebbe riservata al Mezzogiorno. Il punto è capire a chi, ed a che cosa serve il Sud: non è più un serbatoio di manodopera a basso costo, rimpiazzato da immigrati africani e non, pronti ad occupare al Nord come al Sud le posizioni lavorative più faticose, più pericolose e peggio retribuite.


La vera solidarietà, a ben vedere, non può essere limitata sul piano interno al calcolo del residuo fiscale che penalizza le Regioni del Nord, senza considerare che il Sud paga con le imposte per un sistema di solidarietà e di protezione sociale di cui beneficiano sia gli immigrati che lavorano regolarmente nelle imprese, sia quelli che comunque hanno titolo alle diverse forme di accoglienza a carico della spesa pubblica.


Il costo della protezione sociale degli immigrati va dunque posto interamente a carico della Unione europea a favore del Mezzogiorno, che si vede per questa via doppiamente penalizzato.


Se i porti devono rimanere aperti e l’accoglienza deve prevalere, occorre che qualcuno, a Bruxelles, paghi. Metta mano alla scarsella, che poi è già la nostra, e non consentendoci solo un maggior deficit di bilancio. Come, d’altra parte, già si fa a favore di Ankara, per evitare che milioni di persone riprendano la marcia sulla rotta balcanica ed invadano la Germania.


Il mondo è cambiato. L’Unione europea ne deve prendere atto: o punta davvero al riequilibrio territoriale, sociale, fiscale ed economico al suo interno, o perderà altri pezzi. La Brexit ha spianato la strada. La vera secessione, quella spirituale, è già in atto.


Bruxelles se ne faccia una ragione: la coesione ha un costo, altissimo sul piano politico. All’Italia, e al suo Mezzogiorno, non servono più le sue mance.

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