di Giulio Palermo*
La crisi da coronavirus ha colto di sorpresa l’Unione Europea. Quest’ultima era ancora alle prese con la crisi del debito pubblico iniziata nel 2009 e con un sistema bancario molto esposto su questo fronte. Nel campo dell’economia reale, poi, diversi paesi erano in recessione e, nonostante i livelli favorevoli dei tassi d’interesse, gli investimenti rimanevano compressi dalle basse aspettative di crescita e dalle difficili situazioni patrimoniali delle imprese. Sul mercato del lavoro, l’arretramento sul fronte dei salari e dei diritti, in un contesto di precarietà diffusa, non ha affatto stimolato la crescita — come promesso dalle ricette neoliberiste — ma, al contrario, ha compresso ulteriormente la domanda. Il blocco della produzione e le conseguenti tensioni sui mercati finanziari innescati dall’emergenza coronavirus si inseriscono in questo contesto di crisi preesistente.
Prima del coronavirus, l’Unione aveva affrontato la crisi del debito pubblico di singoli stati o, sarebbe più corretto dire, di singole banche. Nel caso della Grecia, ad esempio, la gestione della crisi da parte delle istituzioni europee fu un’abile manovra per salvare le banche francesi, tedesche e olandesi più esposte sui titoli del debito greco e far pagare tutto ai lavoratori greci. Perché una cosa è certa nei rapporti interni all’Unione: gli stati e i capitali nazionali non hanno tutti lo stesso ruolo e lo stesso peso. Dicendo di salvare lo stato greco, in realtà si salvavano le banche dei paesi europei più forti. Il tutto imponendo dure riforme contro i lavoratori greci redatte direttamente dalle istituzioni internazionali.
Ora il problema è che ad essere in crisi è l’intero sistema economico-finanziario dell’Unione. L’Europa non è come la Cina. In Cina, la pianificazione economica gioca un ruolo importante nel coordinamento e nel finanziamento delle attività produttive. Spegnere e riaccendere l’interruttore del processo produttivo ha creato sì qualche problema, ma ha funzionato. L’Europa sta invece accusando il colpo. Quando il capitale non circola, cessa di produrre valore. Interrompere il flusso, per molte imprese, significa il fallimento. Il quale inevitabilmente si ripercuote sui fornitori e sugli acquirenti. In mancanza di un coordinamento centrale, la crisi ha effetti a catena. Nemmeno le imprese più solide sul piano finanziario possono ritenersi al sicuro poiché l’aver superato la fase del lockdown non significa affatto ritrovare le condizioni di mercato preesistenti.
Per questo, sui mercati finanziari l’Europa è la più penalizzata, sia rispetto alle borse americane (trainate al rialzo dal boom dei titoli tecnologici), sia rispetto a quelle asiatiche. Nel settore tecnologico, a guadagnare non sono solo le Fang made in Usa (Facebook, Amazon, Netflix e Google, i colossi tecnologici che dettano legge sul Nasdaq e nel mondo reale e che durante la crisi hanno moltiplicato i loro profitti, in inglese “fang” significa zanna, azzannare). Anche in Europa, le vere vincitrici nella crisi da coronavirus sono le imprese tecnologiche, impegnate nel processo di digitalizzazione della società, rinvigorito proprio dalle modalità di gestione della crisi e dalle trasformazioni di lungo periodo nella vita sociale.
Ma l’alta tecnologia non è tutto e sui listini europei pesano i settori tradizionali e i bancari. E il problema non è certo confinato alle imprese quotate. Al contrario, riguarda tutto il mondo produttivo, fatto di piccole e medie imprese, molte delle quali già sanno che non ce la faranno a ripartire. Per non parlare di tutte le attività in proprio o a conduzione familiare spazzate via dal lockdown.
Se non intervengono gli stati in soccorso del capitale bancario e industriale, i fallimenti saranno generalizzati e l’Unione stessa rischia di disgregarsi. Non si tratta di salvare singoli gruppi bancari che hanno giocato col fuoco con titoli ad alto rischio. Si tratta di salvare i capitali di tutt’Europa. Questa volta, i margini per gli interessi particolari dei singoli capitali e dei singoli paesi sono ridotti e, se non si vuole che salti tutto, deve prevalere l’interesse generale del capitale finanziario unito.
La logica dell’Unione europea
Il capitale, scrive Marx, va sempre visto nella sua duplice veste di un’entità unica, organica, dotata di leggi proprie di funzionamento (nel Capitale, Marx lo chiama il “capitale totale sociale”) e di un insieme di singoli capitali in concorrenza tra loro. Non è possibile comprendere l’accumulazione capitalistica senza comprendere le leggi del capitale totale sociale e i rapporti tra i singoli capitali che lo costituiscono.
Non si tratta di un mero espediente di analisi. Il capitale è sempre al tempo stesso un’entità organica che si confronta con la classe lavoratrice nel processo di produzione del valore ma è anche un insieme di singoli capitali che competono tra loro per aggiudicarsi una porzione più o meno grande di questo valore estratto alla classe lavoratrice.
L’Unione europea costituisce un quadro istituzionale all’interno del quale il capitale agisce come entità organica e, allo stesso tempo, offre i canali per ricomporre gli interessi specifici dei singoli capitali nazionali secondo i loro rapporti di forza. I capitali nazionali restano in concorrenza tra loro e conservano ciascuno i propri interessi particolari ma, piuttosto che rapportarsi tra loro in modo conflittuale, trovano nelle sedi dell’Unione la possibilità di ricomporre i loro contrasti e far valere i loro interessi comuni.
Dal punto di vista dei rapporti di classe, il progetto di un’unione anche monetaria aggiunge poi ai benefici derivanti da questo maggiore coordinamento dei capitali l’aumento della concorrenza tra i lavoratori. In un sistema di tassi di cambio fissi, infatti, la concorrenza internazionale nella produzione di merci si scarica interamente sul mercato del lavoro. Nell’impossibilità di recuperare competitività attraverso la svalutazione della moneta, l’unico modo per per rendere più economiche le proprie merci consiste nel comprimere i costi, con innovazioni tecnologiche o con semplici decurtazioni salariali.
Nella zona euro, la gara competitiva sul mercato dei beni si traduce così in una gara al ribasso sui salari. Nei rapporti tra capitali internazionali, viene premiato il capitale del paese che comprime meglio i salari in rapporto alla crescita della produttività. Nei rapporti capitale/lavoro, vince il capitale europeo nel suo insieme sulle classi lavoratrici di tutti gli stati membri. Un capitale guadagna più di un altro, secondo i rapporti di forza internazionali ma, nel suo insieme, il capitale avanza e la classe lavoratrice indietreggia. In questo quadro, il compito dello stato diventa essenzialmente quello di reprimere la dinamica salariale interna per promuovere i capitali nazionali nel contesto internazionale.
Questa è la logica dell’Unione europea e dell’euro: lavoratori di ogni paese divisi e in concorrenza tra loro nella gara a chi soddisfa meglio gli appetiti del capitale internazionale e il capitale unito che si spartisce i benefici dell’aumento generalizzato dello sfruttamento, secondo i propri rapporti di forza interni.
La politica dell’Unione europea prima del coronavirus
Negli ultimi anni, il bilancio complessivo dell’Unione europea ha oscillato tra i 140 i 160 miliardi di euro. Nel 2018, lo stato italiano ha versato circa 17 miliardi (l’1% del Pil) dei 157 miliardi incassati dall’Unione europea, ricevendo in cambio circa 10 miliardi di finanziamenti europei a beneficio di imprese e altri soggetti economici italiani (senza Unione Europea, lo stato avrebbe dunque potuto fare gli stessi interventi, risparmiando circa 7 miliardi di euro, o avrebbe potuto utilizzare questi fondi per interventi diversi, rispondenti alle priorità nazionali invece che a quelle europee).
Si tratta di cifre relativamente piccole rispetto al bilancio complessivo degli stati. In Italia, nel 2018, entrate fiscali e spesa pubblica sono state pari a 818 miliardi (il 46,6% del Pil) e 857 miliardi (il 48,9% del Pil) rispettivamente. Vale la pena di notare che, come ogni anno, l’Italia è in disavanzo (39 miliardi) e, come ogni anno, dal 1992, l’Italia è in avanzo primario: tolta la spesa per interessi sul debito, pari a 64 miliardi, la spesa pubblica primaria è infatti di 793 miliardi, con un avanzo primario di 25 miliardi. Questo giusto per sottolineare che lo stato italiano non ha bisogno di nessun aiuto dell’Unione europea, né del mondo bancario. Sono infatti i soldi del contribuente italiano a finanziare le politiche dell’unione e le banche europee, non il contrario.
Ma restiamo alle politiche europee. Il bilancio dell’Unione ha scopi essenzialmente strategici e si concentra sulla voce investimenti. Si tratta di una voce chiave attraverso la quale le istituzioni europee promuovono particolari traiettorie tecnologiche secondo gli interessi strategici del capitale internazionale. Gli stati versano l’1% del Pil all’Unione e l’Unione decide quali progetti, quali settori e quali imprese finanziare.
Questo trasferimento dei poteri dallo stato alle istituzioni dell’Unione si rafforza nelle fasi di crisi del debito dei singoli stati. È infatti quando lo stato è ormai alla bancarotta che le istituzioni internazionali possono dettare le proprie condizioni sulle politiche economiche nazionali. Le necessità del paese passano così in secondo piano e la riforme economiche le scrive direttamente la Troika — formata dalla Commissione euorpea, la Banca centrale europea (Bce), e il Fondo monetario internazionale — in nome degli interessi dei creditori.
Prima del coronavirus, la strategia del capitale finanziario europeo era chiara: colpire uno a uno gli stati in difficoltà di bilancio, costringendoli ad adottare le misure necessarie nei confronti dei lavoratori in cambio di nuovi prestiti e della ristrutturazione del debito. Il primo paese a farne le spese fu la Grecia, ma poi venne il turno anche di Portogallo, Irlanda, Spagna e Cipro, con effetti indiretti su tutti i paesi dell’unione monetaria per via della concorrenza internazionale sui salari. Paese dopo paese, il capitale finanziario ha imposto le sue regole in tutta Europa, schiacciando i lavoratori, disciplinando le politiche economiche nazionali attraverso il ricatto del debito pubblico e depotenziando lo stato a beneficio delle istituzioni internazionali.
Le reazioni alla crisi
Nel contesto pre-coronavirus, le parole d’ordine della politica dell’Unione erano il rigore di bilancio per gli stati e un bilancio dell’Unione limitato alle scelte strategiche. La Bce stava cercando di rientrare gradualmente dalle misure ultra-espansive adottate negli ultimi anni e le banche private erano ancora intente a ripulire i bilanci dalla crisi precedente. Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) si era fino a quel momento occupato della crisi di singoli stati e non aveva certo il potenziale di fuoco per reggere ad una crisi congiunta dell’Unione intera.
La prima reazione al crollo di borsa causato dal lockdown è stata quella della Bce, la quale ha invertito da un giorno all’altro la sua politica, avviando il programma Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme — Programma di Acquisto titoli per far fronte all’Emergenza Pandemia), un nuovo quantitative easing da 750 miliardi di euro per il 2020, cui poi si sono aggiunti altri 600 miliardi di acquisti entro il 2021. Successivamente, a favore di banche e imprese in crisi, sono intervenuti: il fondo Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency — Sostegno per mitigare i rischi di disoccupazione in caso di emergenza), una cassa integrazione europea a carico degli stati membri da 100 miliardi; il Mes da 240 miliardi; la Banca europea per gli investimenti (Bei) con 200 miliardi di finanziamenti; e, infine, il nuovo strumento per la ripresa, Next Generation EU da 750 miliardi, proposto dalla Commissione europea, volto a rinforzare il bilancio settennale dell’Unione di 1.100 miliardi di euro.
Tolti i 1.100 miliardi del Quadro finanziario pluriennale, che costituiscono le spese ordinarie dell’Unione, le misure straordinarie ammontano a 2.640 miliardi, spalmate su più anni — una volta e mezzo il Pil dell’Italia.
Il progetto presentato dalla Commissione è il risultato della mediazione tra la proposta franco-tedesca e quella dei cosiddetti quattro frugali (Austria, Olanda, Danimarca e Svezia), la prima incentrata su sovvenzioni a fondo perduto, la seconda su prestiti di lunga durata. Nella sintesi operata dalla Commissione, le somme erogate secondo queste due modalità saranno di 500 e 250 miliardi di euro rispettivamente e saranno spalmate sui prossimi sette anni. L’accesso a questi fondi sarà subordinato all’attuazione di “sane politiche economiche” e un’ambiziosa agenda di riforma da parte degli Stati.
I 750 miliardi saranno raccolti tramite l’emissione di titoli da parte della Commissione europea e saranno poi restituiti dagli stati membri tra il il 2028 e il 2058, con un aggravio del loro contributo al bilancio dell’Unione. La Commissione propone inoltre di raddoppiare da quest’anno il contributo degli stati, portandolo al 2% del Pil.
Per la prima volta, la Germania accetta e si fa promotrice del principio di mutualizzazione del debito. Si tratta della prova più significativa dei rischi di implosione dell’Unione europea. La Germania è infatti uno dei paesi con i tassi di interesse più bassi della zona euro. Addirittura, grazie ai tassi negativi, lo stato tedesco vede il suo debito ridursi automaticamente di anno in anno e non ha alcun interesse a sviluppare forme di indebitamento congiunto assieme ai paesi che invece pagano per indebitarsi (per rinnovare un titolo da 100 euro che arriva a scadenza, i paesi con tassi di interesse positivi devono emettere un nuovo titolo che a scadenza rimborsi 100 euro più il tasso di interesse, mentre ai paesi con tassi negativi basterà emettere un titolo che a scadenza rimborsi meno di 100; nel tempo, in assenza di manovre di bilancio, il debito diventa esplosivo nel primo caso e tende ad azzerarsi nel secondo).
Allo stesso tempo, tuttavia, la Germania è anche uno dei paesi che beneficia maggiormente sul piano commerciale e finanziario del mercato comune e del sistema di cambi fissi e non ha certo interesse a perdere questi privilegi (peraltro lo stesso tasso di interesse negativo sui titoli tedeschi de degli altri paesi meno indebitati è in gran parte un riflesso dell’unione monetaria in condizioni economiche asimmetriche). C’è inoltre da dire che nell’accesso ai fondi dell’Unione le imprese tedesche sono senz’altro ben piazzate. I finanziamenti europei non andranno infatti in prima battuta ai settori più colpiti dalla crisi, né ai soggetti sociali più bisognosi, ma alle imprese che investono nella transizione verde e digitale o in altri settori strategici secondo il Piano della Commissione.
Anche nei momenti più acuti della crisi, con le tensioni sociali che crescono, la Commissione non rinuncia dunque alle sue priorità nei rapporti tra i singoli capitali d’Europa. La crisi — con le sue modalità di controllo sanitario, distanziamento sociale e riorganizzazione delle attività produttive — offre infatti un’occasione ghiotta per le imprese tecnologiche e la Commissione non intende lasciarsela sfuggire. Gli interessi dei singoli capitali e l’importanza asimmetrica degli stati restano dunque al centro delle politiche dell’Unione. Ma il vero problema ora è assicurare la tenuta del sistema. Lo sviluppo dei settori strategici diventa infatti problematico se crollano i settori tradizionali. Per questo, gli aiuti devono essere diffusi e la manovra di bilancio ambiziosa. Ogni paese ha le sue imprese sull’orlo del fallimento e le sue banche in crisi di solvibilità. L’importante è salvarle prima che crolli tutto. Non sono solo i paesi più deboli a dover espandere il debito ma tutti gli stati dell’Unione. Ormai non si tratta più di colpire gli stati membri uno a uno ma di colpirli tutti e accelerare il trasferimento dei poteri alla finanza internazionale.
Crisi del capitale, crisi dello stato, crisi dei lavoratori
Tutti gli strumenti finanziari messi in campo per far fronte alla crisi trasferiscono agli stati il costo degli aiuti al capitale privato, in un contesto in cui la solvibilità degli stati era già in serio pericolo.
Paesi Nord e paesi Sud, paesi frugali e asse franco-tedesco, europeisti e anti-europeisti, destra e sinistra borghese, ognuno ha la sua idea e i suoi interessi circa la ripartizione ideale dei costi della crisi, ma tutti concordano che il capitale privato vada salvato e che a pagare debbano essere i lavoratori, per il tramite dello stato.
Nel dibattito politico, le divisioni maggiori riguardano le eventuali condizioni a carico degli stati affinché possano accedere a queste nuove linee di credito (finanziate dagli stati stessi). Il Mes, ad esempio, opera attraverso la definizione di un piano di rientro dai prestiti definito direttamente dalle istituzioni finanziarie internazionali. Le quali hanno un’unica preoccupazione: generare le risorse necessarie al ripiegamento dei debiti, senza alcun riguardo per i bisogni sociali. Il progetto della Commissione, parimenti, riserva l’accesso ai fondi ai paesi che intraprendono “sane politiche economiche”, cioè misure in grado di generare un surplus di bilancio. Peccato che sanità, scuola, salvaguardia del territorio, interventi a favore dei bisognosi e spesa sociale non generino nessun surplus di bilancio. Al contrario, da sempre, sono proprio le voci di spesa da tagliare per far quadrare i conti.
A ben vedere, tuttavia, le cose cambiano poco se i vari strumenti prevedono o non prevedono condizioni: il vero problema è che i costi di tutti questi nuovi strumenti di aiuto al capitale ricadono interamente sui bilanci degli stati membri. Il dibattito sulle cosiddette “condizionalità” è un falso dibattito. Quando il debito pubblico raggiunge livelli inesigibili non fa nessuna differenza quale parte del debito sia stata contratta sotto condizioni e quale parte sia invece libera da condizioni. Per evitare il default, gli stati saranno in ogni caso costretti ad attuare riforme contro i loro popoli, come condizione per garantire gli interessi dei creditori. Le riforme strutturali anti-sociali non sono mica l’invenzione di politicanti cattivi. Sono la condizione economica per generare surplus di bilancio nei conti dello stato e trasferire valore dai lavoratori al capitale finanziario.
La capacità di un soggetto di onorare un nuovo debito non dipende tanto dell’uso che farà dei soldi presi in prestito quanto dalla capacità che ha di ripagare l’intero debito accumulato. Se uno stato aveva già un alto rapporto debito/Pil e aveva dunque difficoltà a pagare gli interessi sul debito, con questa nuova ondata di debiti e la contestuale caduta del Pil, avrà difficoltà ancora maggiori. Le riforme strutturali e le forme di commissariamento da parte dei creditori saranno inevitabili.
In definitiva, il Mes, il programma Sure, i finanziamenti Bei, il nuovo piano della Commissione si differenziano solo per i beneficiari degli interventi ma a pagare il conto saranno sempre i lavoratori. Perché, subito dopo aver salvato il capitale privato dalla bancarotta, questa nuova massa di debiti a carico dei bilanci pubblici manderà in bancarotta lo stato, il quale dovrà spremere ulteriormente i lavoratori per ripagare i debiti al capitale. Oggi lo stato salva il capitale finanziario, domani il capitale finanziario strangola lo stato e dopodomani lo stato dissangua i lavoratori.
Questo è il piano d’emergenza dell’Unione europea di fronte allo scoppio della crisi da coronavirus: una nuova valanga di debiti pubblici per salvare il sistema bancario e industriale in crisi, nuovi regali alle imprese tecnologiche e ai capitali più forti in seno all’Unione e … dopo di noi il diluvio. L’importante ora è salvare il capitale privato e le istituzioni stesse dell’Unione. Poi, come sempre, i debiti li pagheranno i lavoratori.
Per un’uscita anticapitalistica dalla crisi
L’ipotesi che non è mai contemplata nel dibattito politico e nelle sedi decisionali è quella di uno stato che non solo rifiuti di accollarsi nuovi debiti ma dica anche stop al pagamento di quelli vecchi.
Non si tratta affatto di una via impossibile. Ben al contrario, per la classe lavoratrice è la condizione necessaria per evitare di pagare per intero il conto della crisi. Per questo nessuno stato borghese seguirà mai questa via se non sotto la pressione del popolo in rivolta.
In questo modello internazionale di sfruttamento incentrato sul ricatto del debito, lo stato gioca un ruolo decisivo. Si indebita per conto dei suoi cittadini, salva il capitale privato dalla crisi, e poi chiede ai lavoratori di stringere la cinghia. Ma questo significa anche che lo stato si indebolisce progressivamente nei confronti delle istituzioni internazionali.
Gli stati europei sono di fronte a un bivio: salvare il capitale privato, indirizzandosi verso la bancarotta, per poi rifarsi sui lavoratori; oppure, salvare se stessi, lasciando fallire il capitale in crisi, e proteggere le sorti dei lavoratori. Nel primo caso, lo stato dovrà rinforzare il suo ruolo di classe nel processo internazionale di sfruttamento, piegandosi alle esigenze del capitale finanziario sotto la direzione delle istituzioni dell’Unione. Nel secondo caso, si aprono invece margini per un avanzamento dei lavoratori e una società meno a misura del capitale.
Per intraprendere questa secondo via è però necessario innanzitutto dire no a questa gestione della crisi volta a scaricare i problemi del capitale prima sullo stato e poi sui lavoratori. Se i lavoratori devono essere tutelati, non ci sono margini per risollevare il capitale dalla sua crisi. In Italia non mancano di certo i lavoratori che vogliono lavorare e se le imprese falliscono possono essere loro a farle ripartire. Lo stato può assumerne la proprietà e i lavoratori il controllo. Dove il capitale fallisce, lo stato può rilevarne la produzione. Dove oggi prevale la legge del profitto domani prevarrà il principio della soddisfazione dei bisogni sociali. Questo è il ruolo di uno stato che tuteli il suo popolo e i suoi lavoratori invece di scaricare sui lavoratori il fallimento del capitale.
Ovviamente, si tratta di un percorso che può svilupparsi solo attraverso la lotta. Perché nessuno stato borghese rinuncerà mai spontaneamente alle sue funzioni di classe. Ma si tratta di un percorso possibile e necessario. È possibile perché oggi il soggetto debole è il capitale. È necessario perché altrimenti i lavoratori rimarranno schiacciati tra lo sfruttamento diretto sul posto del lavoro e quello indiretto per il tramite dello stato. Il capitale, che vorrebbe trasformare la sua crisi in una nuova occasione di profitto, aumentando lo sfruttamento dei lavoratori, oggi sta alle corde. Non è il momento di aiutarlo ma di affossarlo.
Le istituzioni internazionali continuano a ragionare dando per scontato che lo stato sia un burattino del capitale internazionale e che i lavoratori debbano solo obbedire. Finora, la cosa ha funzionato grazie alle misure repressive straordinarie che, di fatto, hanno impedito ai lavoratori e alla società intera di prendere parola. Ma le decisioni delle istituzioni nazionali e internazionali devono fare i conti con la lotta di classe nella società e nei posti di lavoro. È lì che si giocherà la vera partita. Solo le lotte dei lavoratori possono infliggere il colpo decisivo al capitale in crisi e costringere lo stato a rivedere il suo ruolo nel sistema europeo di sfruttamento.
*Ricercatore di Economia politica
Università di Brescia
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