Il Decreto Legge Sostegni Bis è stato finalmente adottato dal Governo e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Per capire la portata dell’intervento, può essere utile ricordare che la Banca d’Italia ha fatto i conti in tasca al Governo relativamente al primo Decreto Sostegni, che ha determinato uno scostamento di bilancio di 32 miliardi. Considerando anche gli effetti degli scostamenti di bilancio autorizzati nel 2020 e quelli della Legge di Bilancio approvata lo scorso dicembre, per il 2021 è stato (finora) complessivamente autorizzato un aumento dell’indebitamento netto pari a 88,9 miliardi. Sommati all’indebitamento netto addizionale a cui si è ricorsi nel 2020 (108 miliardi), le risorse complessivamente mobilitate dallo Stato per fronteggiare la crisi economica e sanitaria innescata dalla pandemia raggiungono la cifra di circa 197 miliardi. A questa somma si andranno inesorabilmente ad aggiungere le risorse previste dal DL Sostegni Bis (40 miliardi). Si tratta di risorse largamente insufficienti, come testimoniato dalla drammatica caduta del PIL nel 2020 e dalla modesta ripresa che ci attende per il 2021. Tuttavia, è interessante notare come in soli 15 mesi le risorse mobilitate dai Governi Conte bis e Draghi superino quelle previste dal tanto acclamato Next Generation EU (NGEU) che saranno spese nei prossimi sei anni.
In maniera ancor più importante, il DL Sostegni Bis fornisce un’istantanea nitida sulle principali questioni politiche del momento, così come sull’andamento del conflitto sociale nel Paese, a partire dalla distribuzione delle risorse stanziate e dal piatto forte del Decreto, lo sblocco dei licenziamenti, che sta facendo tanto discutere in questi giorni.
Ma partiamo dal principio. Osservando la distribuzione delle risorse del decreto, notiamo subito che la gran parte di queste è destinata al mondo delle imprese: 15 miliardi di contributi a fondo perduto, 9 miliardi per la liquidità e l’accesso al credito e altri 5,7 miliardi per ulteriori misure di “aiuto all’economia” o di carattere settoriale. Sui 40 miliardi complessivi, un totale di circa 30 miliardi va alle imprese (il 75%). Per quanto riguarda la parte rimanente, 4,2 miliardi complessivi vengono destinati a lavoratori e famiglie in difficoltà (10%), con varie misure, tra cui il rifinanziamento del Reddito di Cittadinanza e del Reddito di Emergenza, 2,8 miliardi alla Sanità (7%), 1,9 agli Enti Locali (5%) – ormai in totale dissesto finanziario – e 1,4 ai capitoli giovani, scuola e ricerca (3,5%). Insomma, le priorità dell’attuale governo sono chiare come il sole.
Concentrandoci sullo sblocco licenziamenti, il conflitto tra le parti si evince in maniera ancora più chiara. Lo scambio politico che faceva da architrave all’equilibrio tra le forze partitiche che compongono la maggioranza di governo, così come tra sindacati confederali e parti datoriali, si basava fino ad oggi sulla posticipazione indefinita delle ristrutturazioni industriali – riorganizzazione organici e licenziamenti – fino alla riorganizzazione del welfare pubblico, grazie alla riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro. Il patto era semplice: le imprese non licenziano, potendo usufruire della Cassa Integrazione Guadagni (CIG) messa a disposizione dallo Stato, e i lavoratori mantengono il rapporto di lavoro con la propria azienda. Questo naturalmente per quanto riguarda i lavoratori a tempo indeterminato, mentre quelli a termine hanno già rappresentato la principale valvola di sfogo delle imprese che volevano abbattere i costi, tramite i mancati rinnovi.
Questo fragile equilibrio, tuttavia, pare essersi dissolto. Alla timida proposta del Ministro del Lavoro Orlando, la quale prevedeva un’estensione fino a fine agosto del blocco licenziamenti per quelle grandi aziende della manifattura che decidano di utilizzare la CIG Covid nel mese di giugno, Confindustria e Salvini hanno risposto con uno strappo, sostenendo che la deroga del blocco è inaccettabile e che non si possono ingessare le imprese che avevano già in programma di licenziare. Dunque, le proposte di uno slittamento della scadenza del blocco licenziamenti inizialmente proposte da Orlando sono state rispedite al mittente: nel DL sostegni-bis è stato deciso che il blocco dei licenziamenti scade a fine giugno per le grandi aziende e fine ottobre per le PMI.
Il principio secondo cui le imprese che usufruiscono di risorse pubbliche per la CIG a giugno fossero obbligate a non licenziare è stato recepito come un oltraggio dalla classe imprenditoriale italiana e il Governo Draghi ha sostanzialmente avallato le richieste delle aziende, sebbene con l’introduzione della CIG agevolata – a costo zero per le imprese – in cambio dell’impegno a non licenziare. Il governo dei migliori e dei competenti svela per l’ennesima volta la sua natura: un Governo apertamente di destra che rappresenta gli interessi dei padroni. Le imprese, dunque, non saranno d’ora in poi intitolate solo a usufruire della maggioranza delle risorse stanziate da parte dello Stato per fronteggiare la pandemia – si stima intorno al 75% in Italia dall’inizio dell’emergenza sanitaria – ma avranno a breve anche il diritto di licenziare per ridurre i costi e ristrutturare i propri bilanci.
E i lavoratori? Cosa succede adesso nel mondo del lavoro? La pandemia ha già comportato nel 2020 una perdita di 900 mila occupati, con un crollo delle ore lavorate (circa 5 miliardi, pari al -11), che ha riguardato in maniera sproporzionata le donne, in quanto a loro volta sproporzionatamente piegate da forme contrattuali precarie. La situazione attuale insomma è già disastrosa: tra gli occupati, i part-time involontari sono 2,7 milioni. I disoccupati sono circa 2,5 milioni, ai quali si aggiungono circa 3 milioni sono scoraggiati, persone che sarebbero disponibili a lavorare ma che hanno perso la speranza di trovare un impiego. Senza contare che la pandemia ha provocato una ulteriore crescita dei lavoratori poveri (955mila famiglie, +230mila rispetto al 2019) e dei NEET, ossia giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro né nella formazione. Ebbene di fronte a questo quadro molto più che allarmante, secondo le stime di Bankitalia e Ministero del Lavoro, l’impatto della rimozione del blocco dei licenziamenti potrebbe provocare una perdita di altri 577 mila posti di lavoro. Secondo altre stime, si sfiorerebbero i due milioni di posti di lavoro a rischio. Una tragedia.
È evidente che la classe imprenditoriale stia provando a sfruttare questa occasione per dare avvio ad una nuova profonda ristrutturazione, che, come la storia ci insegna, coincide con un enorme snellimento occupazionale. La retorica dominante vorrebbe convincerci che in realtà questo è solo un processo transitorio, facendo appello alla famosa “distruzione creatrice” per cui le imprese obsolete si ridimensionano (o muoiono direttamente) per fare spazio, in una fase successiva, a quelle più forti ed efficienti. Stando a questa velenosa narrazione, i lavoratori sarebbero coinvolti solo temporaneamente in questa trasformazione: quelli che perdono il lavoro, se saranno disposti ad apprendere nuove conoscenze e abilità grazie alle politiche attive del lavoro, troveranno una nuova collocazione. Eppure, questa favola liberista si inserisce in un contesto in cui la domanda aggregata è estremamente debole e produrrà un aumento dei disoccupati e della durata stessa della disoccupazione, con ammortizzatori sociali più brevi e, dal prossimo anno, decrescenti.
Ma perché le imprese sono disposte a rifiutare la Cassa Integrazione per i dipendenti per porre fine al blocco dei licenziamenti? Qual è l’interesse dell’impresa nel licenziare? Dietro potrebbe esserci la volontà di creare una situazione di disoccupazione dilagante e duratura per creare condizioni ancora più favorevoli alle imprese, ossia contratti di lavoro sempre più precari e con minori protezioni e, molto probabilmente, livelli salariali ancora più bassi.
Siamo sempre dentro la storia, la quale non può che presentarsi come continua riproposizione del conflitto tra interessi sociali contrapposti. Il problema del nostro presente è che il nostro avversario pare conoscere molto meglio di noi le regole del gioco: non esistono regole. Non ci sono colpi troppo bassi in questa lotta senza fine. Lo si vede nitidamente nella vicenda dello sblocco licenziamenti e si vede quotidianamente negli altri tavoli aperti dal Governo e Confindustria. Davanti a tutto ciò dobbiamo contrapporre l’interesse dei lavoratori, chiaro e limpido: da un lato, difendere ad ogni costo e con ogni mezzo necessario il proprio posto di lavoro, a cui si lega indissolubilmente la possibilità per le famiglie di sbancare il lunario; dall’altro, iniziare ad attaccare per pretendere che nuova occupazione, stabile e di qualità venga creata attraverso un piano massiccio di assunzioni nella Pubblica Amministrazione e tramite adeguate politiche industriali.
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