In un recentissimo rapporto delle Nazioni Unite si possono leggere le seguenti parole: sfruttamento, serie e persistenti violazioni dei diritti umani, condizioni abitative e lavorative disumane, gravi problematiche relative alla salute e la sicurezza sul posto di lavoro, inquinamento ambientale che mette a rischio la salute pubblica. Indovinello: a quale Paese si riferisce il summenzionato rapporto?
La risposta è, ovviamente, la terza. Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite su impresa e diritti umani ha, infatti, recentemente visitato il nostro Paese, fornendo un quadro desolante, ma per nulla sorprendente per chi vive quotidianamente sulla propria pelle il funzionamento del cosiddetto ‘mercato del lavoro’ italiano.
E così, mentre la stampa italiana si crogiola sui numeri ottimistici della ripresa economica post-pandemia e sul sol dell’avvenire garantito dal rispettato governo Draghi, la durezza più cruda della realtà quotidiana della vita di milioni di persone viene a galla persino attraverso un rapporto delle Nazioni Unite.
Il primo elemento messo in luce dal rapporto è la sistematica opera di sfruttamento della manodopera migrante, specialmente in settori quali l’agricoltura, il tessile e la logistica. È un fenomeno risaputo, alimentato attivamente e consapevole da precise scelte politiche: Governo dopo Governo, in maniera sostanzialmente indipendente dal colore, si adottano provvedimenti che criminalizzano le migrazioni. Il migrante, reso ‘illegale’, è ancora più vulnerabile e alla mercé del padrone, che alimenta i suoi profitti grazie a “condizioni abitative e lavorative disumane” e salari da fame, protetto dalla “precaria situazione legale” dello sfruttato, che non può avvalersi neanche dalle forme minime di tutela previste per lavoratori ed esseri umani ‘regolari’. Con il contorno della canea aizzata dal Salvini di turno, che chiede ulteriori restrizioni per poter mettere a disposizione dei suoi (di Salvini) padroni una manodopera ancora più indebolita, frammentata e disperata.
Il rapporto mette inoltre in luce come il Governo e le pubbliche autorità siano carenti anche nel fare rispettare le leggi esistenti a tutela del lavoro e nel controllare realmente le imprese, lasciando quindi sostanzialmente mano libera allo sfruttatore nello stabilire da sé le regole del gioco sul posto di lavoro e permettendo a “produttori e commercianti di trarre beneficio dall’impiego di forza lavoro sfruttata e a buon mercato”.
Ci sarebbe, forte, la tentazione di rimanere stupiti e colpiti da queste considerazioni. Di pensare che si tratti di un’emergenza, una degenerazione patologica da curare con le ricette proposte dal Rapporto: “creare un’istituzione preposta alla tutela dei diritti umani sul posto di lavoro, dimostrare capacità di leadership globale traducendo gli impegni presi dal Governo italiano, prendere seriamente le preoccupazioni delle comunità che soffrono maggiori danni ambientali, costruire fiducia” e così via.
Neanche queste parole vuote e rituali, però, riescono a celare il contenuto e il messaggio che il Rapporto, involontariamente, veicola. Un sistema economico fondato sulla ricerca del profitto ha bisogno strutturale dello sfruttamento, dove con questa parola non si intende un concetto astratto e lontano nello spazio e nel tempo, ma una serie di fenomeni concreti, quotidiani e drammaticamente banali: dal lavoratore migrante costretto a vivere in ghetti e baracche e che raccoglie pomodori per pochi centesimi al chilo; al rider che lavora a cottimo; dall’operaio della logistica stritolato da ritmi di produzione disumani; alla lavoratrice ricattata e pagata di meno del collega uomo a parità di impiego; fino ad arrivare al depredamento dell’ambiente e delle sue risorse.
Eccola la normalità, la prassi quotidiana del capitalismo, di un capitalismo neoliberale ormai normalizzato nelle sue feroci regole da tre decenni di riformismo al rovescio che hanno minato le fondamenta del diritto del lavoro e dello stato sociale. Eccola la normalità cui si vorrebbe tornare dopo la lunga parentesi di una pandemia che non ha fatto altro che infierire su un organismo sociale già gravemente malato e marcescente, dove svalorizzazione e sfruttamento del lavoro, ritmi di lavoro soverchianti e salari da fame o del tutto inadeguati ad una vita dignitosa erano da molti anni divenute le regole generale insindacabili.
È proprio per questa ragione che la lotta contro le “condizioni abitative e lavorative disumane” a cui viene sottoposta la forza lavoro migrante, la difesa dell’ambiente e della natura, il contrasto alla precarietà e ai bassi salari devono essere le parti costitutive di uno stesso, unico progetto politico, che ha come obiettivo e nemico non soltanto una particolare forma degenerativa ed estrema del disagio e dello sfruttamento, ma un sistema economico che strutturalmente produce miseria e che prospera nelle divisioni artificiali tra gli sfruttati.
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