Le conseguenze del liberismo e le dinamiche della disuguaglianza

13 Marzo 2022 12:00 Coniare Rivolta

Mentre infuriano i venti di guerra e si consumano le conseguenti tragedie umane, si iniziano a palesare con evidenza le conseguenze indirette sull’economia europea (e non solo), legate ai micidiali aumenti dei prezzi delle materie prime e alla correlata spirale al rialzo di tutti i prezzi che, in assenza di interventi decisi sui salari dei lavoratori, comportano e comporteranno gravi effetti sulle tasche della maggioranza delle persone acuendo povertà e disuguaglianze sociali. Come la crisi pandemica ha avuto, oltre ai suoi nefasti effetti sanitari, drammatiche conseguenze socio-economiche, con una crescita sostenuta della povertà, l’attuale crisi internazionale sta già scatenando i suoi effetti indiretti sulle classi sociali subalterne e sui lavoratori di gran parte del mondo.

Si tratta dell’ennesima mazzata a collettività che, in Italia come altrove, subiscono da anni le conseguenze di politiche economiche restrittive e crisi che stanno dilaniando il corpo sociale acuendo le disuguaglianze e la povertà.

Il rapporto OXFAM sulle disuguaglianze

Ogni anno la benemerita organizzazione OXFAM (Oxford Committee for Famine Relief), confederazione di ONG dedite alla lotta alla povertà in tutto il mondo, pubblica un rapporto sulle disuguaglianze. Ed ogni anno il rapporto, impietoso, registra il drammatico e inesorabile deterioramento del quadro sia in relazione ai livelli di povertà assoluta e relativa sia rispetto all’allargamento del divario tra ricchi e poveri.

La crescita delle disuguaglianze all’interno dei paesi e tra i paesi è ormai un fenomeno di lunga durata, che nella stragrande maggioranza delle aree del mondo ha avuto inizio a partire dalla metà degli anni ’80, accelerando poi negli anni ’90 e 2000.

La crisi pandemica ha dato il colpo di grazia ad una situazione già drammatica. Alcuni dati citati dal rapporto ci comunicano con nettezza la dimensione del fenomeno e la direzione delle tendenze più recenti.

Nel periodo pandemico (marzo 2020-dicembre 2021), il patrimonio netto dei dieci miliardari più ricchi del mondo è più che raddoppiato (+119%) in termini reali, superando il valore aggregato di 1.500 miliardi di dollari, oltre sei volte la ricchezza netta del 40% più povero dei cittadini adulti di tutto il mondo. Le 10 persone più ricche del pianeta detengono quindi il sestuplo della ricchezza di 3 miliardi e 200 milioni di persone più povere. E, ancora da soli, i sei miliardari più ricchi del pianeta detengono la stessa ricchezza del 50% più povero della terra. Potrebbero bastare questi due dati per scatenare un moto di indignazione e di ripugnanza sufficiente e per capire di cosa si sta realmente parlando quando si discetta di disuguaglianza, ma andiamo avanti.

I primi dieci ultramiliardari, calcola l’OXFAM, necessiterebbero di 414 anni per spendere le loro fortune al ritmo di 1 milione di dollari al giorno ciascuno. Ed ancora, se il valore della ricchezza netta dei dieci miliardari più ricchi calasse del 99,99% ognuno di loro rimarrebbe ancora all’interno del top 1% più ricco.

A seguire, un altro confronto angosciante che richiama da vicino la gestione globale della crisi pandemica e la disarmante difficoltà che decine di paesi poveri hanno avuto nel promuovere la diffusione dei vaccini: l’incremento di ricchezza, in termini reali, del solo Jeff Bezos, padrone di Amazon – che si litiga da qualche anno con Elon Musk, il ruolo di uomo più ricco del mondo – nei primi 21 mesi della pandemia (+81,5 miliardi di dollari) equivale al costo completo della vaccinazione (tre dosi) per l’intera popolazione mondiale con il costo per dose fissato al costo di produzione del vaccino Pfizer.

Nel periodo intercorso tra il 1995 e il 2021, l’1% più ricco a livello mondiale, in termini patrimoniali, ha beneficiato del 38% dell’incremento di ricchezza generatosi. Appena il 2,3% di tale incremento è andato alla metà più povera della popolazione mondiale.

L’aspetto più drammatico di tutto questo è che a fronte della sfacciata accumulazione di ricchezza da parte di un’oligarchia così incredibilmente ristretta che ne possiamo agilmente conteggiare i membri uno ad uno, si è verificato un aumento non solo della povertà relativa, ma anche della povertà assoluta. Tendenza aggravata nei due anni di pandemia appena trascorsi.

Giova ricordare che la povertà relativa è la situazione in cui una famiglia o un individuo godono di un reddito sensibilmente inferiore alla media del paese in cui vivono, per l’esattezza inferiore al 60% del reddito del valore mediano nella distribuzione del proprio paese. La povertà assoluta è invece una condizione di privazione associata ad un livello di reddito più basso di una determinata soglia tenuto conto del potere di acquisto della moneta in ciascun paese e quindi della quantità di beni e servizi acquistabili con un determinato livello di entrate.

Ebbene, in un mondo nel quale il progresso tecnologico spadroneggia, rivoluzionando i nostri modi di vivere in particolare nei campi delle telecomunicazioni, dell’informatica e dei trasporti, un mondo nel quale ogni anno i consumatori opulenti attendono l’ennesimo modello di cellulare ultrasofisticato in uscita, ebbene in questo mondo la povertà aumenta, non soltanto in termini relativi (come logica implicazione dell’aumento delle disuguaglianze), ma anche in termini assoluti.

La pandemia ha portato a un forte aumento della povertà in tutto il mondo. A seguito del periodo pandemico, dal marzo 2020 l’OXFAM rileva la presenza di 163 milioni di persone povere in più che si trovano in condizioni di povertà assoluta. Nel 2021 oltre 1 miliardo di persone, circa un ottavo dell’umanità, vive in condizioni di povertà definita estrema, cioè nell’impossibilità di provvedere ai bisogni essenziali della vita.

Qualcuno potrebbe credere che queste differenze mostruose siano in buona parte il risultato dei differenziali di sviluppo tra i diversi paesi del mondo. Per capire che non si tratta soltanto di una disuguaglianza tra paesi, entriamo, insieme ad OXFAM, nelle dinamiche distributive interne di alcuni paesi, partendo dalla culla del capitalismo globale.

Negli Stati Uniti, nel 2020, le tre persone più ricche possedevano lo stesso patrimonio della metà più povera della popolazione (circa 160 milioni di persone) e l’1% più ricco dei cittadini deteneva 15 volte la ricchezza posseduta dal 50% più povero.

Viaggiando alla periferia del capitalismo scopriamo che in Indonesia i quattro uomini più ricchi possiedono un patrimonio maggiore dei 100 milioni più poveri (su una popolazione di circa 275 milioni di persone); in Brasile un cittadino che percepisce il salario minimo dovrebbe lavorare 19 anni per guadagnare la stessa cifra che un componente dello 0,1% più ricco della popolazione riceve in un mese; in Nigeria, i soli interessi sul patrimonio percepiti in un anno dall’uomo più ricco del paese sarebbero sufficienti a liberare dalla povertà estrema due milioni di persone.

Le dinamiche della distribuzione in Italia

Rientriamo ora a casa nostra e osserviamo che in Italia l’1% più ricco dei cittadini possiede la stessa ricchezza che possiede il 70% più povero e che la ricchezza del 5% più ricco supera quella posseduta da più dell’80% dei più poveri. Nel solo periodo pandemico si sono contati, nel contempo, oltre 1 milione di poveri assoluti in più rispetto al pre-pandemia, arrivando al valore record di persone in stato di povertà assoluta di 5,6 milioni (pari a 2milioni di nuclei familiari).

Anche nel nostro Paese, la quota distributiva della parte della popolazione con i redditi più alti è andata aumentando in maniera considerevole negli ultimi decenni. Come mostra il grafico che segue, a metà degli anni ’80 il 10% più ricco della distribuzione e il 50% più povero avevano più o meno la stessa quota del totale dei redditi, all’incirca il 25%. Una situazione che già segnalava una notevole disuguaglianza, ma che era destinata a peggiorare. Da allora, infatti, le distanze tra il 10% più ricco è il 50% più povero sono andate aumentando. Nel 2020 il 10% più ricco della popolazione italiana può contare sul 32% circa dei redditi, mentre il 50% più povero deve accontentarsi di poco più del 20%.

La situazione non migliora se si prende in considerazione la ricchezza. Nel grafico che proponiamo, il confronto è tra le quote di ricchezza dell’1% più ricco e del 50% più povero. Ad oggi, il top 1% detiene all’incirca il 17% della ricchezza totale del Paese, mentre il 50% più povero della popolazione deve accontentarsi del 10%. Rapportando il tutto alla popolazione italiana, si può dire, approssimativamente, che i 600.000 italiani più ricchi hanno una ricchezza che è superiore a quella dei trenta milioni di italiani più poveri. Anche in questo caso, la disuguaglianza si è andata aggravando sempre di più negli ultimi decenni.

La disuguaglianza è una scelta deliberata

Queste cifre spaventose avrebbero un effetto dirompente e angosciante su qualsiasi lettore dotato dei più essenziali sentimenti umani, ma rischiano di rimanere numeri morti atti a suscitare un’indignazione fatalistica, se non corredati da una lucida spiegazione storica e politica.

Tutta la storia dei sistemi economici classisti (dallo schiavismo delle civiltà antiche al feudalesimo medioevale fino ad arrivare al capitalismo moderno) è una storia di sfruttamento e disuguaglianze scandite da enormi differenziali di reddito e ricchezza tra le persone.

Nella storia del capitalismo fino alla prima metà del Novecento, le disuguaglianze economiche non hanno fatto altro che acuirsi, con milioni di persone in condizione di povertà relativa e assoluta a dispetto delle enormi possibilità che il progresso tecnico offriva ed offre, grazie alle quali sarebbe possibile garantire condizioni di benessere economico per tutti.

La direzione della storia muta, almeno in parte, dal secondo quarto del Novecento, dopo la crisi del 1929, e in modo più forte a partire dal secondo dopoguerra per una straordinaria concomitanza di fattori che dà luogo ad un trentennio (1950-1980) in cui per la prima volta nella storia moderna si assiste ad una consistente riduzione delle disuguaglianze tra i paesi e dentro i paesi. In vaste aree del mondo assistiamo a rivoluzioni di stampo socialista e di rivolte anticoloniali spesse intrise di contenuto sociale. Nello stesso mondo capitalistico si assiste a un processo di convergenza che, pur non generando una società fondata sulla giustizia sociale ed economica, riduce in modo inedito la distanza tra i primi e gli ultimi nella distribuzione delle risorse.

Sono diversi i fattori che, in quegli anni, concorrono a spostare quote di risorse sociali dall’alto verso il basso sancendo la nascita di una vasta “classe media”, riducendo la povertà e assottigliando la quota di prodotto detenuta dai più ricchi. Politiche economiche incentrate su un ruolo significativo dello Stato dal lato della domanda, con l’obiettivo di una riduzione significativa della disoccupazione; una forte regolamentazione dei mercati; il ruolo attivo dell’impresa pubblica nell’economia; la costruzione dello stato sociale e di un diritto del lavoro garantista con forte ruolo dei sindacati e protezione delle economie nazionali; limitazioni drastiche alla libera circolazione di capitali.

Quando il processo si è spinto troppo in là, le oligarchie capitalistiche hanno dato vita ad una controffensiva storica senza precedenti. La controffensiva ha assunto tinte e ritmi diversi a seconda delle aree del mondo, ma si è sviluppata in modo simile con effetti visibili già a partire dalla fine degli anni ’70 ed ancora più evidenti nei decenni successivi. L’obiettivo era chiaro e semplice: bisognava dismettere a poco a poco il ruolo attivo dello Stato nell’economia tramite riduzione della spesa pubblica e privatizzazioni, deregolamentando i mercati, depotenziando il potere dei sindacati, rimettendo in discussione la forza del diritto del lavoro, mettendo le economie nazionali tra di loro in concorrenza tramite la mobilità dei capitali.

Nel giro di due decenni le lancette della storia dell’intervento pubblico nell’economia hanno iniziato a girare all’inverso, tornando allo spirito dei ruggenti anni ’20 del Novecento. E, mentre i manuali di economia e i nuovi esperti di regime decantavano le virtù dell’economia di mercato finalmente liberata dalla zavorra dello Stato e dei sindacati, promettendo crescita, benessere diffuso e libertà, i fatti e i dati, duri come l’acciaio, raccontavano una storia ben diversa. Una storia in cui gli ultraricchi si stavano riprendendo, a suon di liberismo, quel che avevano perso nei quarant’anni precedenti, e la stragrande maggioranza della popolazione perdeva invece quote distributive in termini relativi in molti casi alimentando persino una crescita della povertà assoluta.

In Italia e in gran parte del mondo, a generare queste forti disuguaglianze sono state scelte politiche volte a rafforzare i capitalisti a scapito dei lavoratori. Chiunque racconti di voler invertire le tendenze della disuguaglianza senza modificare l’apparato ideologico e di policy di stampo liberista che permea, ormai, ai livelli più elevati anche i sistemi giuridici (si pensi al pareggio di bilancio in Costituzione), sta raccontando frottole. L’unico modo per cambiare l’andazzo è ristabilire quelle tutele che gli ultimi decenni di austerità e liberalizzazioni ci hanno portato via. Per farlo, occorre mettere in discussione il discorso ideologico che dagli anni Ottanta ad oggi inquina il dibattito politico, ridotto a lotta per il predominio nell’amministrazione dell’ordinario.

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