La vita politica istituzionale italiana, mai come oggi, riflette come uno specchio d’acqua equilibri di potere stabiliti altrove e, per essere precisi, a Bruxelles. Il 6 luglio 2021 è stato approvato dal Consiglio dell’Unione europea il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) italiano, che fissa una serie di obiettivi da raggiungere da qui al 2026 come condizione per l’erogazione delle successive tranche di finanziamento; tali obiettivi vanno a comporre una vera e propria agenda politica fitta e dettagliata per i prossimi cinque anni che vincola qualsiasi governo e qualsiasi maggioranza parlamentare all’indirizzo politico scandito dalle riforme e dagli investimenti che ci chiede l’Europa.
Il riflesso di questa cristallizzazione dell’agenda politica italiana intorno alle priorità del PNRR è stato il teatrino dell’elezione del Presidente della Repubblica: l’assetto politico istituzionale del Paese ricalca la stabilità dell’indirizzo politico, e dunque restano al loro posto il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio e tutti i Ministri a garanzia della continuità nell’esecuzione di tutte le misure previste dal PNRR.
Per questa ragione, la strategia politica di questo Governo, e di qualsiasi Governo scelga la piena compatibilità con l’Unione europea, è scritta nero su bianco nel PNRR. Studiare gli obiettivi imposti dalle rigide scadenze del Piano significa dunque visualizzare chiaramente le priorità politiche individuate a Bruxelles per il nostro Paese. Il ritmo di queste priorità è la cadenza semestrale delle tranche di finanziamento, e dunque abbiamo davanti a noi la scadenza del prossimo giugno, che individua circa 50 traguardi ed obiettivi da raggiungere per ottenere poco più di 20 miliardi di euro, tra prestiti e contributi a fondo perduto.
Il primo punto che salta agli occhi, in questa fitta agenda politica, è l’entrata in vigore della riforma del codice degli appalti, fissato nella documentazione ufficiale all’obiettivo M1C1-70. Tale riforma è descritta espressamente come “una nuova disciplina più snella rispetto a quella vigente, che riduca al massimo le regole che vanno oltre quelle richieste dalla normativa europea”. Più snella significa innanzitutto meno restrizioni ai subappalti.
Dal momento che i requisiti normativi per l’accesso da parte delle imprese agli appalti pubblici impongono tutta una serie di garanzie – che vanno dalla sicurezza sul lavoro fino all’assenza di qualsiasi traccia di potenziale infiltrazione criminale nella storia dell’operatore economico – il subappalto è lo strumento principale usato per aggirare le regole: vince l’appalto una società di facciata, pura e limpida, che poi subappalta ad imprese che operano ai limiti delle regole o fuori da esse, allungando così la catena di gestione dell’affidamento e rendendo sensibilmente meno efficaci i controlli.
Ecco cosa ci chiede l’Europa, dunque: meno controlli sul rispetto delle norme da parte delle imprese – che devono essere libere, sì, ma di accedere all’ambito bottino della spesa pubblica senza passare per il rigoroso rispetto delle norme che tutelano i lavoratori, la legalità o l’ambiente. Già, l’ambiente di cui tanto parla il nostro PNRR è oggetto specifico della dieta imposta al codice degli appalti dall’obiettivo M1C1-70, che prevede anche uno snellimento delle Verifiche di Impatto Ambientale (VIA) necessarie a sbloccare gli investimenti pubblici.
Tali verifiche servono a controllare e misurare l’effetto dei progetti pubblici sull’ambiente, in modo da considerare tale variabile nella complessiva analisi costi-benefici preliminare a qualsiasi scelta di politica economica: ad esempio, se la realizzazione di un’infrastruttura autostradale rischia di compromettere un bacino acquifero, lo Stato chiederà all’impresa aggiudicataria di considerare nel capitolato anche le spese per scongiurare tale rischio.
Dunque, il contenimento delle VIA ha un significato limpido: la tutela dell’ambiente deve essere derubricata a fattore marginale nella valutazione degli investimenti pubblici, perché quel capitolato – che contiene i costi dell’impresa privata per la realizzazione del progetto – deve essere più snello possibile. Meno costi significa più profitti. Peccato che i costi servono a tutelare l’ambiente – di tutti – mentre i profitti finiscono nelle tasche di pochi.
La medesima logica ispira l’obiettivo M2C1-13, che prevede l’entrata in vigore del decreto ministeriale sul programma nazionale per la gestione dei rifiuti. Il ruolo di questo intervento normativo richiesto dall’Europa è fondamentale: lo stesso PNRR prevede di investire oltre 2 miliardi di euro per l’economia circolare, ma prima che questi soldi siano stanziati deve intervenire la riforma che marginalizzi il ruolo delle municipalizzate (pubbliche) nella gestione dei rifiuti e apra la strada per il protagonismo dei soggetti privati.
Così, la bozza di Programma Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (PNGR) redatta il 17 marzo scorso dal Ministero per la Transizione Ecologica (MiTE), che disciplinerà il settore della gestione dei rifiuti per i prossimi sei anni (2022-2028), mette in prima pagina i nobilissimi obiettivi di “colmare il gap impiantistico, aumentare il tasso di raccolta differenziata e di riciclaggio” ma poi rende esplicito il suo reale traguardo che, come ci dice lo stesso MiTE, “mira a orientare le politiche pubbliche ed incentivare le iniziative private per lo sviluppo di un’economia sostenibile e circolare”. Se dunque si devono proprio spendere risorse per migliorare la gestione dei rifiuti, sembra dirci la Commissione europea attraverso il PNRR, è preferibile che quei soldi vadano a profitto delle imprese private, piuttosto che essere investiti nella gestione pubblica del servizio. Peccato che l’opzione di mercato, oltre a comportare un drenaggio di risorse verso i profitti privati, che non ci sarebbe nel caso di gestione pubblica, comporti una serie di rischi enormi nel particolare settore della catena dei rifiuti.
Proviamo a capire come sia possibile, attraverso un semplice piano pluriennale di gestione strategica dei rifiuti, sdoganare l’ingresso dei privati in un settore che rischia di avvelenare ambiente e popolazione.
Il PNGR funziona così: stabilisce una serie di obiettivi che devono essere conseguiti dalle amministrazioni territoriali che hanno la responsabilità della gestione strategica dei rifiuti, ovvero Regioni e Province autonome; tali obiettivi mirano a colmare le carenze strutturali di impianti e si declinano in target regionali che vanno dall’aumento del tasso di raccolta differenziata alla riduzione del tasso di smaltimento in discarica.
Dal momento che i target sono fissati su base regionale, la possibilità per le amministrazioni territoriali di rispettarli con le risorse disponibili le spinge necessariamente a focalizzare le azioni di intervento sulla realizzazione di grandi impianti: esattamente ciò che frutta profitti ai privati, esattamente ciò che prelude alla peggiore gestione dei rifiuti dal punto di vista dell’ambiente e dei cittadini che si trovano a vivere in prossimità di questi ecomostri.
I grandi impianti sono quelli che hanno un maggior impatto negativo sui territori circostanti: con la scusa di garantire adeguate capacità di trattamento dei rifiuti, si tagliano fuori proprio i piccoli impianti di prossimità, gli unici capaci di coniugare l’impiego delle tecnologie di smaltimento più avanzate con il minore impatto su ambiente e popolazione circostante.
L’agenda politica imposta dal PNRR fa così strage della sicurezza del lavoro, dell’ambiente, della salute, ma si preoccupa anche dell’istruzione e della ricerca, purtroppo. L’obiettivo M4C1-4 richiede l’adozione del Piano Scuola 4.0, ovviamente “al fine di favorire la transizione digitale del sistema scolastico italiano”, manco a dirlo. Peccato che questa ennesima riforma della scuola, che troverà il suo compimento entro dicembre con un secondo obiettivo PNRR dedicato (M4C1-5), riduca ulteriormente il perimetro del sistema d’istruzione pubblica, come nei desiderata della dottrina neoliberista. Difatti, la riforma mira – asetticamente, come tutte le misure apparentemente tecniche e non politiche – ad “adeguare il sistema di istruzione agli sviluppi demografici”.
La tecnica, però, serve solo a mascherare gli indirizzi politici più meschini: dal momento che è in atto un significativo declino demografico, dichiarare di adeguare il sistema scolastico agli sviluppi demografici significa dire (senza avere il coraggio di farlo) che si devono ridurre aule, docenti, scuole. È un attacco al sistema pubblico di istruzione, che appare tanto più odioso dopo una pandemia che ha reso drammaticamente evidenti i limiti delle classi pollaio e di tutte le carenze strutturali del nostro sistema scolastico. Eppure, ce lo chiede l’Europa.
Così come ci chiede, con l’obiettivo M4C2-17, di mettere la ricerca scientifica al servizio del profitto privato. Viene infatti finanziato il ‘Fondo per la realizzazione di un sistema integrato di infrastrutture di ricerca e innovazione’ per “facilitare l’osmosi tra la conoscenza scientifica generata in infrastrutture di ricerca di alta qualità e il settore economico (…) che colleghino il settore industriale e quello accademico”. Detto in parole povere: il privato decide in cose si fa ricerca e se ne gusta i risultati, gratis.
La logica di mercato entra a gamba tesa nel mondo della ricerca. Lo scopo è quello di finanziare la creazione di centri di ricerca nazionali, secondo una logica competitiva, che abbiano tra gli elementi essenziali il coinvolgimento di soggetti privati nell’attuazione dei progetti di ricerca. Insomma, si toglie ai privati persino l’onere del rischio! Non solo la ricerca si piega all’interesse del mercato, ma il Governo si pone l’obiettivo di regalare ai profitti i frutti della ricerca pubblica.
L’ultima delle 50 condizioni imposte dal PNRR all’azione di governo entro la scadenza tassativa (pena la perdita del finanziamento europeo) del giugno prossimo su cui vogliamo concentrare l’attenzione in questa sintesi politica è l’obiettivo M1C1-104, che ha un profilo paradigmatico dell’intero PNRR. Con questo obiettivo, il Governo si è impegnato ad “adottare obiettivi di risparmio per le spending review relative agli anni 2023-2025”.
Ne sentivamo davvero la mancanza, in questi anni di pandemia: è tornata l’austerità. Già, perché dietro a quell’anglicismo c’è la sistematica riduzione della spesa sociale, della sanità pubblica, dell’istruzione, dei servizi per i cittadini e l’altrettanto ineluttabile aumento delle tasse che servono a garantire il pareggio del bilancio pubblico, il feticcio di un’impostazione dell’economia e della società che serve a smontare lo stato sociale e favorire la sfrenata ricerca del profitto sopra ogni altro interesse. In virtù di questa rigorosa introduzione della spending review in termini di “obiettivi di risparmio” prevista entro giugno, ogni euro di PNRR concesso all’Italia porta con sé il taglio di decine di euro di spesa pubblica, un gioco al massacro per lo stato sociale, la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, le pensioni.
Ci hanno raccontato che i soldi del PNRR avrebbero consentito la ripresa dalla crisi pandemica. È la favola dell’Unione europea che cambia, chiude la stagione dell’austerità e diventa il motore del progresso sociale ed economico. La realtà, invece, è fatta di un PNRR che impone ben 528 condizioni politiche: i soldi arrivano se e solo se l’Italia introduce una serie di riforme che allargano gli spazi del mercato e smantellano gli ultimi residui di stato sociale. In questa prima metà del 2022, per avere l’elemosina del PNRR, l’Italia dovrà riformare il codice degli appalti favorendo i subappalti e dunque la deregolamentazione, imporre una gestione dei rifiuti disastrosa per l’ambiente e i cittadini ma favorevole al grande business dell’immondizia, accelerare la già evidente trasformazione della scuola pubblica in una sorta di azienda al servizio del profitto privato, a detrimento del diritto allo studio, e piegare la ricerca scientifica agli interessi dei privati, proprio mentre la pandemia ci mostra l’importanza di finanziare una ricerca pubblica orientata al bene collettivo. Tutto mentre si impone una rigida spending review che riporta la finanza pubblica nel vicolo cieco dell’austerità.
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