Nonostante le sue molteplici varianti e mutazioni, il virus che ha causato la pandemia da COVID-19 non è riuscito a soverchiare quello dell’austerità. Inscalfibile come il diamante, quest’ultima si ripropone sempre uguale a se stessa. Una malattia colpisce principalmente la scuola, i trasporti pubblici, gli stipendi e le pensioni dei lavoratori e delle lavoratrici ma che, scherzo del destino, si accanisce proprio contro la sanità pubblica. A ben vedere, l’austerità non segue i passi di un cane vagabondo, ma si muove con precisione chirurgica, e lo fa perché ogni euro in meno di spesa pubblica per la sanità apre praterie ai privati in un settore altamente redditizio.
Come avevamo avuto modo di mostrare in un nostro recente contributo, la NADEF del 2022 prevedeva una costante diminuzione della spesa sanitaria di oltre 5 miliardi in un biennio. Quando parliamo di NADEF non parliamo di scartoffie squisitamente tecniche, bensì del più appropriato strumento per valutare la direzione della politica economica di un Governo, una direzione che verrà poi elaborata con maggiore dettaglio nella Legge di bilancio. Ebbene, l’ultima NADEF ha previsto una riduzione sostanziosa della spesa sanitaria sul PIL dal 7% al 6%. Quanto questi tagli siano rilevanti lo si coglie se si pensa che tra il 2001 e il 2019, e dunque in un lasso di tempo che considera anche gli anni feroci del Governo Monti, la spesa per la sanità pubblica era stata in media pari al 6,5% del PIL, superiore a quella che il Governo Meloni prevede di stanziare a regime dal 2025.
Si potrà obiettare che la Legge di bilancio dello scorso dicembre ha aumentato il finanziamento del Fondo sanitario nazionale di circa 2 miliardi all’anno per i prossimi tre anni. Tuttavia, questi fondi andranno a coprire principalmente l’aumento del costo dell’energia per le strutture sanitarie, tant’è che hanno scontentato sia le Regioni, che chiedevano più finanziamento anche per il solo aumento dei costi dell’energia, che i sindacati dei medici i quali hanno parlato di “briciole” e minacciato lo stato d’agitazione. Secondo i Presidenti di Regione, infatti, considerando l’inflazione gli stanziamenti del Governo equivalgono a tagli alla Spesa sanitaria reale per il 13%. Facciamo un rapido calcolo esemplificativo: se per far funzionare un ospedale servivano, prima dell’impennata dei prezzi, 1 milione di euro l’anno, e oggi, alla luce dell’inflazione, ne occorrono 1 milione e 200 mila per mantenere gli stessi standard ai cittadini, un aumento del finanziamento pubblico di 100 mila euro si traduce in un taglio in termini reali di pari importo (100 mila euro di beni e servizi in meno).
Cosa significa nel concreto questo definanziamento è esperienza comune per chiunque sia dovuto ricorrere a servizi sanitari in questi anni: chiusura di ospedali e pronto soccorso, con cronica carenza di posti letto (3,1 posti ogni mille abitanti, mentre la media negli altri paesi europei è di 5 posti letto ogni 1000 abitanti, oltre il 60% in più). Tempi di attesa infiniti: si va (in media, ma in molte Regioni è anche peggio) dai 56 giorni per una visita ortopedica fino ai 74 giorni per un eco-doppler o 96 giorni per una colonscopia, tempi di attesa che magicamente spariscono per chi può ricorrere al privato, anche in convenzione. E infatti, al taglio della spesa pubblica per la sanità corrisponde plasticamente, per chi può permetterselo, un incremento della spesa privata, che arriva alla cifra di 640 euro procapite (ma mai come in questo caso la media non fa giustizia delle diseguaglianze sociali e territoriali). Un quadro impietoso della sanità italiana emerge anche dal XVIII Rapporto sulla Sanità predisposto dal Centro per la Ricerca Economica Applicata in sanità (CREA): stando a questo studio, per colmare il divario con la media europea bisognerebbe assumere 30 mila medici e 250 mila infermieri. La situazione è talmente grave da far parlare di desertificazione sanitaria. Tenendo conto della necessità di sostituire i circa 12 mila medici che vanno in pensione ogni anno sarebbe dunque necessario assumere, per i prossimi 10 anni, almeno 15 mila camici bianchi all’anno. Il raggiungimento di questo obiettivo richiederebbe un investimento di 30,5 miliardi di euro, chiaramente incompatibile con l’attuale orientamento del Governo che, invece promuovere l’ennesima stagione di tagli.
Ma non finisce qui: oltre al danno la beffa. Per sopperire alla carenza di personale, infatti, il piano del Governo non è di assumerne di nuovo ma di ritardare l’uscita del personale anziano. In pieno stile liberista, quindi, un emendamento della maggioranza al Decreto ‘Mille proroghe’ propone di alzare l’età pensionabile dei camici bianchi dai 70 ai 72 anni. Una proposta fragorosa, dato il contesto di difficoltà nel quale versa la sanità pubblica, tant’è che persino Repubblica esce con un titolo impudente: “Medici, pochi e vecchi: la metà è over 60. Emendamento per spostare la pensione a 72 anni”. Si parla di adesione volontaria, ma il segnale politico di questa proposta è chiaro, indipendentemente dalle forme che concretamente prenderà l’emendamento. L’innalzamento dell’età pensionabile dei medici, inoltre, come tutti i provvedimenti che aumentano l’età pensionabile, andrà a discapito dei giovani specializzandi che si troveranno in un contesto in cui, non solo il turnover dovuto ai pensionamenti non soddisfa il fabbisogno di personale sanitario, ma addirittura si vedranno diminuire, in virtù del ritardo nei pensionamenti, il numero di posizioni disponibili.
Ecco spiegato l’arcano: la drammatica situazione in cui versa la sanità italiana non è figlia di presunte inefficienze o sprechi, ma piuttosto del sottofinanziamento deciso e imposto dai governanti, in ossequio ad anni di austerità di matrice europea. Il Governo Meloni è l’esempio più chiaro di scelte politiche che cercano di spolpare al massimo la sanità pubblica, permettendo alla sanità privata e al profitto di prosperare. Il tutto in ossequio a un dogma molto più importante della salute e della vita umana: quello dell’austerità. Ancora una volta, la necessità di rispettare i vincoli di bilancio, espressa nero su bianco anche dalla premier Meloni, da un lato condanna la sanità e gli altri servizi pubblici al sottodimensionamento, favorendo allo stesso tempo l’iniziativa e i profitti dei privati, dall’altro fornisce al Governo la leva per applicare le retrive politiche contro i lavoratori e contro tutti i brandelli di Stato sociale che sono rimasti nel nostro Paese.
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