di Coniare Rivolta
Tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre, come da tipico copione tardo-estivo, si è tornato a parlare con una certa frenesia di sistema pensionistico.
L’ormai conclamato e ufficiale ritorno in grande stile dell’austerità di bilancio impone ai governi europei di tornare con forza alle politiche di tagli draconiani che erano state in parte congelate nel periodo pandemico e post-pandemico (2020-2023).
Come sempre i bocconi più appetibili per fare cassa sono quelli dove potenzialmente c’è tanto da drenare e da risparmiare e dove le vittime designate sono le classi subalterne: sanità, scuola, servizi pubblici locali e, naturalmente, pensioni.
Il saccheggio pensionistico: un po’ di storia recente
Queste ultime sono state oggetto di una politica di spoliazione senza tregua dall’inizio degli anni ’90 in poi e continuano ad esser viste dai governi di turno come un enorme pozzo dove scavare fino a raschiare il fondo. Essenzialmente in due modi: 1. allungamento continuo dell’età pensionabile; 2. riduzione dell’assegno pensionistico attraverso una transizione accelerata al calcolo contributivo e il costante taglio delle percentuali di indicizzazione all’inflazione.
In tema di età pensionabile, con la manovra finanziaria dello scorso anno eravamo rimasti al drastico aggravamento delle condizioni della già miserrima quota 103, peggiorativa a sua volta di quota 102, peggiorativa a sua volta della misera e pro-tempore quota 100, intese tutte come misure ponte temporanee per tornare di fatto alla regola generale della Legge Fornero che, al netto degli altri strumenti d’eccezione, consente ad oggi di accedere alla pensione attraverso due canali standard: con la pensione di vecchiaia raggiunti i 67 anni di età (e 20 di contributi); oppure con la pensione anticipata (accumulo di anni di contribuzione indipendentemente dall’età, quella che una volta era la pensione di anzianità) con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e con 41 anni e 10 mesi per le donne. Fuori da questi canali vi sono, come strumenti aggiuntivi d’eccezione: Quota 103, opzione donna e APE sociale.
Quota 103 (data dalla somma tra 41 anni di contribuzione e 62 anni di età) così come rinnovata nella scorsa finanziaria presenta delle condizioni capestro così gravose che l’hanno di fatto resa un’opzione impraticabile o praticabile a costi elevatissimi. Tre sono gli espedienti punitivi che si sommano al già implicito meccanismo punitivo del calcolo contributivo (per cui al decrescere dell’età di accesso alla pensione diminuisce l’assegno pensionistico in quanto calcolato su un ammontare di anni di vita attesa più ampio).
1. Il pieno ricalcolo contributivo di quella ormai residua quota parte di pensione che, stando alla vecchia Legge Dini, avrebbe dovuto essere calcolata con il sistema retributivo, ovvero gli anni di lavoro pre-1996. Un ricalcolo chiaramente penalizzante, tanto più per le carriere più lunghe con una quota retributiva ancora significativa.
2. L’allungamento delle finestre da 3 a 6 mesi per i lavoratori dipendenti del settore privato e da 6 a 9 per i dipendenti pubblici. Le finestre rappresentano il tempo che intercorre dal momento della maturazione del diritto alla pensione al momento di effettiva percezione del primo assegno pensionistico. Mentre per la pensione di vecchiaia non vi è alcuna finestra e l’assegno lo si percepisce dal mese immediatamente successivo al raggiungimento dei requisiti, per le varie forme di pensione anticipata da molti anni è stato introdotto il meccanismo delle finestre come espediente per ridurre la spesa pensionistica senza dover intaccare direttamente il requisito contributivo-anagrafico. Il lavoratore/lavoratrice può quindi cessare l’attività lavorativa nel momento in cui raggiunge il requisito, ma dovrà attendere tot mesi prima di incassare la pensione.
3. Il terzo meccanismo punitivo di quota 103 consiste nella fissazione di un livello massimo di pensione erogabile lorda a 4 volte l’assegno minimo INPS ovvero circa 2300 euro (non più di 1700 euro netti, una cifra che non riguarda di certo classi di reddito elevate, ma, piuttosto, una quota considerevole di lavoratori con uno stipendio tutt’al più dignitoso). Tutto l’eventuale in più cui si ha diritto della propria pensione viene decurtato. Un vero e proprio furto legalizzato senza alcuna ratio se non quella del risparmio ad ogni costo.
È evidente come, con requisiti così stringenti, l’opzione di uscita anticipata con quota 103 diventi così punitiva da risultare di fatto una non opzione.
Le possibili mosse del governo: di male in peggio
Il governo medita ora se abolire o prorogare questa misura e se eventualmente sostituirla con la spesso sbandierata quota 41, cavallo di battaglia della Lega. Quota 41, nella sua formulazione originaria avrebbe dovuto consentire di accedere con 41 anni di contributi e senza alcun requisito anagrafico alla pensione. Una sorta di riforma dell’attuale pensionamento anticipato previsto a 41 anni e 10 mesi e 42 anni e 10 mesi per rispettivamente donne e uomini.
Le sirene dell’austerità di sono subito attivate al solo spauracchio che una simile misura (giudicata troppo costosa) potesse essere adottata e la Lega, senza colpo ferire, ha così sommessamente rilanciato quota 41 in versione leggera, ovvero basata, come quota 103, sul pieno calcolo contributivo. Una variante che, secondo fonti sindacali, costerebbe mediamente ai pensionati una decurtazione del 20% della pensione. Anche questa versione light, molto meno costosa non sembra appassionare un governo così fedele alla linea dei tagli per l’austerità.
Opzione donna ed APE sociale, da anni minacciate di abolizione ad ogni autunno, sembra che verranno rinnovate anche per il 2025. Tuttavia, entrambe le opzioni erano già state segnate da draconiani interventi di peggioramento delle condizioni di accesso stabiliti dallo scorso anno. Per l’APE sociale, riservata ad una platea ristretta di addetti a lavori usuranti, un aumento del requisito anagrafico di 5 mesi e la totale non cumulabilità con altri redditi da lavoro. Per Opzione donna la restrizione della platea alle sole lavoratrici caregiver, invalide, o impiegate in aziende in crisi con un’età di uscita innalzata e variabile tra 59 e 61 anni in base al numero di figli (e con 35 anni di contributi) oltre che con il, sempre previsto, solo calcolo contributivo anche per la quota di pensione retributiva.
Di fronte ad un panorama che vede le opzioni di uscita flessibile diverse da quelle standard depotenziate fino all’assurdo ed un livello di pensione attesa da fame per i futuri pensionandi (con il regime contributivo che entrerà a breve a regime pieno), il governo, non soltanto non intende porre rimedio a nessuno dei nodi drammatici che affliggono il sistema previdenziale, ma in preda ad una sete incontenibile di austerità cerca persino di allargare ulteriormente il perimetro di ciò che si può rosicchiare.
Le proposte verso questa perniciosa direzione sono due:
La prima è quella di un brusco aumento da 3 a 6 o persino 7 mesi della finestra per l’accesso alla pensione anticipata. In sostanza una finestra di 7 mesi sposterebbe da 43 anni e 1 mese (42 anni e un mese per le donne) il momento di percezione della prima pensione a 43 anni e 5 mesi (42 anni e 5 mesi per le donne). Si viaggia insomma a vele spiegate verso i 44 anni e chissà un domani oltre. Alla faccia di quota 41! Di fatto si tratta di un’abolizione definitiva della vecchia pensione di anzianità, già ristretta, oggi, ad una platea sempre più striminzita. Quanti sono in effetti le lavoratrici e i lavoratori, nel mercato del lavoro di oggi, a riuscire a raggiungere requisiti di 43-44 anni di contribuzione prima di aver raggiunto i 67 anni di età (momento di accesso alla pensione di vecchiaia)?
È molto importante, al riguardo, capire come dagli anni ’90 dello scorso secolo, sia stato stravolto, fino a ridurlo a brandelli, uno dei cardini del sistema pensionistico italiano, la pensione di anzianità, incentrata sul concetto elementare e molto civile – in una civiltà che abbia a cura il benessere delle persone – per cui dopo un numero ragionevolmente elevato di anni di lavoro si possa accedere al diritto sociale al riposo.
Fino al 1996 la pensione di anzianità era garantita a chi aveva maturato 35 anni di contributi senza alcun limite di età. Tale requisito, dai primi anni 2000, era stato innalzato a 40 anni, ma era rimasto in piedi, fino alla Legge Sacconi e poi Fornero (2010-2011), un sistema di quote che consentiva una certa flessibilità di uscita (quota 96-97, etc.) dai 35 anni di contribuzione ed età variabili (dai 57 anni). Oggi, solo 13 anni dopo da quel tempo, con una vita media attesa cresciuta assai poco, si parla della vaga ipotesi di accesso alla pensione con 41 anni di contributi (senza requisiti di età) come di una anacronistica regalia insostenibile per i conti pubblici e, si discute di come continuare a restringere, fino a farlo scomparire, ciò che resta di un’irriconoscibile pensione di anzianità.
Nella proposta dell’allungamento delle finestre per la pensione anticipata peraltro la fame di austerità si unisce ad un codardo atto di sadismo verso persone cui si promette un determinato requisito di accesso alla pensione salvo poi negare loro per mesi la fonte di sostentamento che rende praticabile e concreta tale scelta.
Il taglio alla perequazione
La seconda proposta orientata a garantire flussi di risparmi sulla pelle dei pensionati è il ventilato rinnovo (qualcuno parla persino di inasprimento) dei meccanismi di ridimensionamento della quota di indicizzazione delle pensioni all’inflazione già introdotti dal governo in carica alla fine del 2022 proprio nel bel mezzo della più grande ondata inflattiva degli ultimi 30 anni. Presentati come temporanei, tali meccanismi di riduzione dell’assegno pensionistico vengono ora riproposti ed ancora una volta usati sfacciatamente come pratico e ben oliato strumento di riduzione della spesa previdenziale. Riduzione ancor più odiosa se si pensa che la piena indicizzazione per le pensioni è indispensabile, in quanto non essendoci contrattazione è l’unico strumento per mantenere il valore reale del reddito.
Sulla base delle norme applicate negli ultimi due anni, infatti, l’indicizzazione all’inflazione (quest’anno in forte calo, prevista attorno al 1,5%), è fissata al 100% per tutti gli assegni che non superano quattro volte il minimo (2.102,52 euro lordi al mese) mentre tra 4 e 5 volte (2.102,52-2.626,90 euro) si scende all’85%, tra 5 e 6 volte (2.626,90-3.152,28) al 53%; tra 6 e 8 volte il minimo (3.152,28-4.203,04) al 47%; al 37% tra 8 e 10 volte il minimo e al 22% per gli importi superiori a 10 volte il minimo.
Si osservi che una decurtazione di quasi il 50% prevista per assegni tra 5 e 6 volte il minimo colpisce di fatto pensioni nette comprese tra 1900 e 2300 euro al mese circa. Di certo non pensioni d’oro come spesso si è voluto propagandare per giustificare una misura così ingiusta e arbitraria.
I danni economici inflitti ai pensionati tra il 2023 e il 2024 da questo schema normativo sono stati e saranno enormi.
Secondo una recente analisi del Dipartimento Previdenza della Cgil e dello SPI, la somma dei tagli del biennio 2023-2024 (con inflazione rispettivamente all’8,1 e al 5,45) e del 2025 (con inflazione all’1,5%), per una pensione di 1.732 nel 2022 ammonterebbe a 968 euro; per una pensione netta di 2.029 euro la perdita sarà di 3.571 euro, e per una pensione netta di 2.337 euro si arriverà a una perdita di 4.487 euro in tre anni. Per una pensione netta di 2.646 euro, la perdita complessiva sarà di 4.534 euro.
Ancora più impressionanti le previsioni di perdita economica su un orizzonte di vita media attesa di un neopensionato qualora lo schema normativo dovesse essere confermato nei prossimi anni. Per un importo di pensione pari a 2.300 euro lordi nel 2022 (1.732 euro netti), la perdita netta calcolata sull’attesa di vita media raggiunge un mancato guadagno netto per gli uomini pari a 8.772 euro e per le donne (a causa della maggior vita media attesa) pari a 9.541 euro. Per una pensione lorda di 3.840 euro (pensione netta 2.646 euro) si avrebbe una perdita di 40.992 euro in media per un uomo, e di 44.462 euro per una donna. Di seguito una tabella riassuntiva tratta dallo studio in questione.
Una gravissima violazione dei diritti sociali ed economici di milioni di persone che dopo una dura vita di lavoro dovrebbero vedere le proprie già striminzite pensioni (come già detto, redditi fissi non oggetto di contrattazione) tutelate dalla svalutazione comportata dall’aumento dei prezzi.
Per concludere
È così insomma che, tra scandali e gossip agostani, Il governo Meloni prono, come e più dei precedenti governi, ai dettami dell’austerità europea, trascorre le proprie settimane tardo-estive: pianificando un saccheggio di risorse sociali da sottrarre a lavoratori e pensionati sotto forma di taglio dei redditi, riduzione dello Stato sociale e disinvestimento nei settori strategici dell’economia.
I nuovi tagli annunciati alle pensioni sono soltanto una parte dei tagli che verranno resi noti nella terribile manovra finanziaria che gli italiani si troveranno tra capo e collo nelle prossime settimane con le opposizioni parlamentari che strepitano maldestramente fingendo di dimenticare, come da ormai consolidato copione, di essere state (ed essere tutt’ora) le più affidabili e certificate paladine delle politiche neoliberiste e di austerità al pari del governo che fingono di osteggiare.
Quelle politiche che, va ricordato, non sono prerogativa solo italiana, ma una vittima prediletta delle politiche europee. Si pensi alla riforma francese che ha scatenato l’opposizione in tutto il paese all’inizio del 2023, e al fatto che proprio la volontà di rimettere mano a quello scempio sia stato portato a giustificazione da parte di Macron dell’impossibilità dell’affidamento del governo a un rappresentante del Nuovo Fronte Popolare.
In Italia, un paese che sembra ormai privo di anticorpi sociali reattivi, urge, oggi che più che mai, ricompattare un’opposizione popolare in grado di far fronte alle sfide di un autunno che si preannuncia doloroso.
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