L'Africa e la giustizia penale internazionale

A giudicare dalle situazioni portate dinanzi alla Corte Penale internazionale (CPI) senza dimenticare i processi celebrati nell’ambito dei tribunali penali internazionali come quegli istituiti per il Ruanda e la Sierra Leone senza dimenticare analoghi casi portati davanti alla giustizia interna di alcuni Stati occidentali nell’ambito dell’esercizio della competenza universale, la maggior parte per non dire l’unanimità dei casi riguarda i cittadini africani e non a caso qualcuno ha opportunatamente rilevato che l’Africa costituisce il terreno fertile della giustizia penale internazionale. La prima sentenza della CPI resa il 10 luglio 2012 (in seguito a quella emessa dalla stessa Corte il 14 marzo 2012) non soltanto costituisce un evento storico ma appare ancora come un segnale dell’effettività di una Corte osteggiata da alcuni e considerata, nel bene come nel male, come uno strumento a disposizione di alcuni Stati per perseguire le loro finalità tramite l’istituzione dell’apparato repressivo internazionale.
La propensione dell’Ufficio del Procuratore, su rinvio dagli Stati, o dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o motu proprio, di concentrare le investigazioni su crimini internazionali commessi sul continente africano allorché medesimi crimini sono commessi altrove fornisce argomenti a chi vede “l’unidirezionalità” della condotta delle investigazioni un tentativo di “destabilizzazione” del continente. Non a caso i rapporti tra la CPI e l’Unione africana sono tesi circa l’adempimento da parte degli Stati africani degli obblighi derivanti dalla loro partecipazione allo Statuto della CPI in generale e in modo particolare l’obbligo di cooperazione con la Corte nell’arresto e la consegna davanti alla CPI del Presidente sudanese in carica, oggetto di un mandato spiccato dalla medesima Corte per crimini internazionali.
Più di una volta, la Conferenza dell’Unione africana (massimo organo dell’Unione africana formato dai Capi di stato e di governo) ha deciso di non eseguire il mandato prima a danno del Presidente sudanese, poi ha assunto la stessa decisione di non cooperazione con la Corte nell’ambito del mandato spiccato contro l’allora Colonello Gheddafi, mandato neutralizzato dalla scomparsa di quest’ultimo. Queste decisioni sono state diversamente commentate. Adottando tali decisioni (sono state reiterate nell’ambito del Presidente sudanese), l’Unione africana ha presentato una richiesta al Consiglio di Sicurezza di usare le sue prerogative per fare sospendere la procedura alzando il muro di non eseguire nessuna richiesta della CPI sulla cooperazione finché la questione non verrà esaminata positivamente in seno al Consiglio di Sicurezza. Tra i nodi di questa vicenda appare la posizione delicata degli Stati africani non membri dello Statuto della CPI e quindi non hanno nessun obbligo di cooperazione con la medesima Corte essendo Parte terza. Inoltre gli Stati africani sono confrontati al rispetto di due obblighi derivanti da diverse fonti: lo Statuto della CPI (per gli Stati africani membri) e l’Atto costitutivo dell’Unione africana (di cui tutti gli Stati africani sono parte ad eccezione del Marocco) che sancisce l’obbligo per gli Stati membri di adeguarsi alle decisioni assunte dall’Unione africana con il rischio di incorrere nelle sanzioni. E chiaro che i due obblighi non si pongono in modo gerarchico in quanto scaturiscono da due trattati diversi. L’adempimento di obblighi sanciti in un trattato o assunti nell’ambito di quel trattato può costituire allo stesso tempo un comportamento illecito suscettibile di fondare la responsabilità dello Stato per l’inadempimento dell’altro trattato. Gli Stati africani, membri dello Statuto della CPI, si trovano in questa situazione. Alcuni autori hanno avanzato la tesi che l’obbligo di cooperazione nel caso del Darfur non discende dall’appartenenza o meno allo Statuto della CPI, ma dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza con cui ha portato la situazione del Darfur alla CPI. Gli argomenti contrari a questa tesi non mancano e il Presidente sudanese sembra per ora beneficiare dello “scudo protettivo” da parte dei suoi pari africani e di una solidarietà che nasconde anche un sentimento di frustrazione. L’arresto e la consegna di BASHIR dinanzi alla CPI rischiano di creare un precedente molto pericoloso per la stabilità di tanti dirigenti africani che si mantengono al potere o che vi accedono tramite vari mezzi. Alcuni di loro sono sospettati di aver commesso crimini internazionali. Bisogna quindi interpretare la posizione degli Stati africani in più o meno due ottiche. La prima è la contestazione della giustizia penale internazionale (CPI) come esercitata fino adesso guardando solo al continente africano. Questa giustizia appare da questo punto di vista come una “giustizia del Nord verso il Sud” colpendo “piccoli pesci” e incapace di muoversi al di fuori del continente africano. Appare assai difficile, sul piano giuridico, spiegare l’atteggiamento titubante del Consiglio di Sicurezza di fronte alla situazione in Siria dove crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono portati alla luce dei riflettori. Basti pensare alla tempistica nell’intervento in Libia e la risoluzione di adire la CPI per crimini ivi commessi senza neanche che fosse istituita una Commissione internazionale per stabilire oggettivamente i fatti come è stato peraltro fatto prima nel caso del Darfur! Se la responsabilità di proteggere vale per il popolo libico, vale ugualmente per il popolo siriano. La seconda ottica è ascrivibile nella volontà dei dirigenti africani di reagire e di tutelarsi contro “l’attivismo giudiziario” della giustizia penale internazionale percepita come uno strumento che non possono controllare. Sulla scia di queste considerazioni si discute da tempo della possibilità di creare una Corte africana per giudicare i crimini internazionali commessi in Africa dagli africani. A proposito si pensa all’adozione di un Protocollo che possa affidare alla Corte africana di giustizia e dei diritti dell’uomo una sezione o una camera specializzata nei crimini internazionali. La strada appare ancora lunga. Il Protocollo del 2008 sulla fusione della corte di giustizia dell’Unione africana da una parte e la Corte africana dei diritti de l’uomo e dei Popoli dall’altra (quest’ultima è già operativa e la sua prima sentenza è stata resa il 15 dicembre 2009) non è ancora entrato in vigore.
L’idea di giudicare i crimini internazionali commessi in Africa dagli africani non è del tutto priva d’interesse, ma a patto che l’organo deputato sia dotato d’indipendenza nei confronti del massimo organo dell’Unione africana (la Conferenza dell’Unione africana) sia autorevole nella sua missione e dotato di mezzi adeguati finalizzati a sconfiggere l’impunità. Ma una corte o un organo africano nato come une reazione all’attivismo della CPI o di alcuni Stati occidentali come uno scudo africano è destinato a fallire e a non servire la sete di giustizia e la lotta contro l’impunità che invocano sempre di più tante voci in Africa e al di fuori.
KAZADI MPIANA Joseph
Dottore di ricerca in diritto internazionale e dell’Unione europea presso l'Università La Sapienza di Roma

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