Piccole Note
«Nessun dittatore, nessun regime, nessuna nazione dovrebbe sottostimare la determinazione americana» ha affermato Donald Trump alle truppe americane in una tappa del suo viaggio in Asia, che lo porterà in Giappone, in Vietnam, nelle Filippine e in Cina.
Dichiarazioni dure quelle di Trump, indirizzate alla Corea del Nord e al suo presidente. D’altronde il viaggio, secondo vari analisti, dovrebbe essere centrato sulla crisi coreana, che egli ha affermato voler «risolvere».
In realtà la crisi coreana non è oggetto primario di questo viaggio. Certo ha la sua importanza, ma nonostante le dichiarazioni del bullo di Pyongyang e quelle apocalittiche della controparte, sembra destinata a risolversi con la diplomazia.
Infatti, come da rivelazioni del Washington Post riportate da Alberto Flores D’Arcais sulla Repubblica del 6 novembre, «gli alti vertici militari Usa sono piuttosto compatti nell’appoggiare la linea diplomatica del Segretario di Stato Rex Tillerson: nuove sanzioni economiche, pressioni su Russia e Cina, possibilità di arrivare a colloqui diretti tra gli Usa e il regime nord-coreano».
Sotto questo profilo appare interessante la missiva inviata al Congresso dall’ammiraglio Michael J. Dumont, riportata nello stesso articolo, che spiega: «Il solo modo per localizzare e distruggere con completa certezza tutti i componenti del programma nucleare nordcoreano è attraverso un’invasione via terra».
Può apparire una risposta dettata da un qualche dottor Stranamore e forse lo è anche. Ma ciò che è insito in queste righe è che nessun attacco preventivo aereo o missilistico può dare la certezza che Pyongyang non reagisca. Con effetti devastanti per Corea del Sud e Giappone.
Tanto che sul Corriere della Sera del 5 novembre, Guido Santevecchi scriveva: che il presidente sucoreano «Moon Jae-in chiederà a Trump di esser consultato prima di qualsiasi azione contro la Nord Corea, per evitare che la penisola diventi un campo di battaglia».
Per ovviare al problema c’è una sola ed unica strada: non attaccare. Punto. Da questo punto di vista, il presidente sudcoreano sembra intenzionato ad ascriversi una sorte di diritto di veto.
Può apparire una posizione velleitaria, certo, ma quella di Seul è una velata minaccia: in caso di attacco americano, ovviamente realizzato contro la sua volontà, farà ricadere sull’amministrazione americana la tragedia che questo procurerà in Corea del Sud. Per l’amministrazione Usa sarebbe un marchio indelebile.
Insomma tutto lascia credere che, al di là dello scontro verbale, si va verso una soluzione negoziata. Che potrebbe vedere la convergenza delle tre potenze globali: non solo Cina e America, ma anche Russia.
Proprio a Putin si è infatti indirizzato l’appello del presidente Usa: una richiesta di aiuto per risolvere la questione. Una richiesta che appare scontata, ma che scontata non è affatto.
Tale appello, infatti, non è indirizzato alla sola Russia, ma soprattutto al fronte interno: nonostante i suoi avversari lo stiano mordendo ai fianchi sul Russiagate, il presidente rilancia pubblicamente la sua volontà di superare l’abisso che altri hanno scavato tra Washington e Mosca. Quel che aveva affermato più volte durante la campagna elettorale.
Una prospettiva che negli ultimi tempi era stata congelata, stante le pressioni anti-russe subite dall’amministrazione Usa. Evidentemente oggi Trump si sente più libero di tornare sui suoi passi.
Non solo Putin. L’ultima assise del partito comunista cinese ha consolidato il potere di Xi Jinping, consegnandogli definitivamente le chiavi del potere del Dragone.
Trump giunge in Cina subito dopo tale evento. Così questo incontro assume una più ampia rilevanza: ammainata la bandiera dello scontro con Pechino che aveva agitato in campagna elettorale, per Trump sembra giunto il momento di aprire un rapporto di prospettiva.
Le due più importanti potenze economiche del mondo, dunque, si rapportano sul destino del mondo. Trump oggi ha più bisogno di Pechino che non Pechino di Trump. Il presidente americano, infatti, siede su un trono vacillante, stante gli attacchi cui è sottoposto all’interno del suo Paese.
Gli serve un successo in politica estera. Pechino e Putin possono offrirglielo. In Corea del Nord o nel campo dell’economia e del commercio internazionale. D’altronde anche ai suoi interlocutori serve che l’America sia guidata da un presidente che alla polemica verbale accompagna una prassi pragmatica piuttosto che da un esponente della parte avversa, ovvero un presidente consegnato alla follia dei neocon. Può uscirne qualcosa di buono per il mondo.
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