I deputati iracheni hanno eletto Mohammed al Halbusi Presidente del Parlamento. Elezione alquanto significativa.
In altra nota abbiamo descritto lo scenario seguito alle elezioni politiche del maggio scorso, dove i diversi partiti si sono divisi secondo una linea di faglia che vede da una parte le forze filo-iraniane e dall’altra quelle filo-americane.
I risultati del voto sembravano aver consegnato la maggioranza a queste ultime. Almeno questa la narrazione dei media d’Occidente, che indicavano come queste avessero consegnato al chierico sciita Muqtada al Sadr il ruolo di kingmaker, la cui agenda era nazionalista e anti-iraniana, nonostante il suo movimento abbia una forte connotazione sciita (ramo islamico il cui faro è a Teheran).
Ma, come accennato nella nota precedente, un conto sono i numeri, un conto è la realtà, che ha il vizio di essere più complessa di certe semplificazioni forzate.
Così, al momento di eleggere il Presidente del Parlamento, sono emersi i numeri reali. E questi hanno visto la netta affermazione delle forze che guardano a Teheran.
Da qui l’elezione di al Halbusi, che non ha mai nascosto la sua propensione affinché l’Iraq conservi un buon rapporto con il Paese confinante.
“Non accetteremo attacchi in danno all’Iran dal suolo iracheno. Dobbiamo proteggere il Paese e i nostri vicini”, ha dichiarato appena eletto. Presa di posizione netta e inequivocabile.
E che assume un significato particolare se si tiene presente che egli è sunnita, come prevede il tacito patto che vige in Iraq, per cui il presidente del Parlamento deve essere di tale estrazione, il premier uno sciita e il Capo dello Stato un curdo.
Un sunnita, dunque, che non è anti-iraniano, cosa che manda a pallino la narrazione divulgata in questi anni da tanti media occidentali riguardo il conflitto insanabile e irrevocabile tra sunniti e sciiti.
I sunniti iracheni hanno subito come gli sciiti gli effetti dell’intervento Usa diretto a “liberare” il Paese. E a quanto pare non sono tutti così entusiasti.
La dichiarazione di al Halbusi ha un ulteriore significato implicito se si tiene presente che egli è stato governatore della provincia di Anbar, area chiave per la lotta intrapresa contro l’Isis da iracheni, milizie iraniane e dalla fantomatica coalizione anti-terrorismo a guida Usa.
Evidentemente egli ha conservato un buon ricordo di quanto fatto dagli iraniani per il suo Paese, per la difesa del quale hanno versato sangue. Tanto che, peraltro, dopo la sue elezione, ha dichiarato “ingiuste” le sanzioni varate dagli Stati Uniti contro Teheran.
Resta ancora da formare il governo, ad oggi guidato pro tempore dal premier uscente Aydar al Abadi. Se nel post elezioni questo incarico sembrava sicuro appannaggio delle forze anti-iraniane, ora non è più così.
Ma questo è il futuro, sul quale incombono tante variabili. Ad oggi, il primo round del confronto a distanza tra Washington e Teheran è andato a quest’ultima.
Tanto che al Monitor può titolare un articolo sull’elezione di al Halbusi in questo modo: “Iran 1, Usa 0: l’Iraq sceglie lo speaker del Parlamento“.
Il problema per l’Iraq è che si trova in una posizione più che strategica, dato che è Paese chiave della mezzaluna sciita, che attualmente congiunge Teheran al Mediterraneo tramite Baghdad e Damasco.
Così il conflitto Iran – Stati Uniti, iniziato con la revoca del trattato sul nucleare stipulato con Teheran da Obama, non può non avere riverberi anche in loco.
Ci vorrebbe un punto di conciliazione, ma non si vede all’orizzonte. Nel frattempo, chi pensava di poter incassare facili vittorie, si sta accorgendo che la realtà è diversa da fantasie e ideologie. Anche quando sono supportate da una notevole potenza di fuoco.
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