A quanto pare, la scomparsa del giornalista dissidente Jamal Khassogi non è un unicum. Infatti, nell’Arabia Saudita del nuovo corso “democratico” inaugurato dal principe ereditario Mohamed bin Salman il rapimento di figure scomode sarebbe prassi usuale.
A rivelarlo è stato Khaled bin Farhan al-Saud, un principe saudita che vive in esilio in Germania ed è critico verso il nuovo corso, il quale ha raccontato all’Indipendent che anche lui stava per fare la fine di Khassoggi.
Infatti, una decina di giorni prima della scomparsa del giornalista, le autorità saudite lo avevano contattato promettendo a lui e alla sua famiglia “milioni di dollari se avesse accettato di andare in Egitto per incontrare funzionari del regime nel consolato saudita al Cairo”.
Ciò perché avevano saputo che egli si trovava in difficoltà economiche. Non solo, come sintetizza l’Indipendent, Farhan al-Saud ha affermato “che almeno cinque reali – i nipoti del re Abdul-Aziz, il fondatore della moderna Arabia Saudita – la scorsa settimana hanno tentato di esprimere la loro insoddisfazione per la scomparsa di Khashoggi e la repressione, in un incontro con le autorità dell’Arabia Saudita. I reali sono stati prontamente arrestati e la loro esatta ubicazione è ora ignota“.
Roba da regime sudamericano, insomma. Davvero una brutta storia. Peraltro, Mohamed bin Salman ha già dimostrato certa imprudenza quando rapì il premier libanese Saad Hariri.
Una mossa che nella sua immaginazione – e in quella dei suoi consiglieri – avrebbe dovuto causare un conflitto in Libano (costrinse, infatti, Hariri ad accusare Hezbollah di volerlo uccidere, per provocare uno scontro tra questi e i sunniti libanesi).
Un’improvvida iniziativa che rischiava di causare una guerra che tutti volevano evitare, compresa Israele, che pure considera Hezbollah un nemico esistenziale.
Un pasticcio che risolto a fatica dai suoi alleati d’Occidente, che lo costrinsero a lasciar andare Hariri evitando però danni all’immagine al giovane principe, che continuò a essere osannato da tutti i media occidentali per le innovazioni – più asserite che reali – che stava apportando nel Regno.
Stavolta il danno di immagine rischia di diventare inevitabile, con inevitabili criticità alla sua reggenza, che esercita all’ombra di re Salman.
Peraltro, le autorità turche hanno affermato di avere in mano registrazioni e video che proverebbero senza ombra di dubbio che Khassoggi è stato assassinato nel consolato saudita di Istambul.
Certo, i pompieri si sono messi all’opera, tanto che Ankara e Ryad stanno svolgendo un’inchiesta comune per trovare una via di uscita a questo romanzo criminale.
E Trump si è limitato a chiedere a Ryad di far chiarezza sulla vicenda (un po’ come chiedere a Pinochet di far luce sulla scomparsa dei suoi oppositori).
Per sfortuna delle autorità saudite e dei suoi svariati sostenitori occidentali, Khassoggi era un collaboratore del Washington Post.
E il quotidiano americano non sembra voler accettare quanto accaduto a un suo giornalista. Da qui un’insistenza sulla vicenda che, altrimenti, sarebbe stata presto obliata, dati i legami più che strategici tra Washington e Ryad.
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