Spiragli per lo Yemen arrivano dalla tormentata Arabia Saudita. Ancora una volta a metterci la faccia è stato re Salman, molto più presente da quando il figlio, erede al trono, è caduto in disgrazia per l’omicidio Khashoggi.
All’annuale Consiglio della Shura il re ha dichiarato il suo appoggio al piano di pace delle Nazioni Unite.
È avvenuto ieri, giorno in cui i ribelli Houti, antagonisti di Riad in Yemen, hanno annunciato la sospensione degli attacchi contro il territorio saudita.
Dichiarazioni concilianti anche da parte degli Emirati Arabi Uniti, altro attore del complicato conflitto yemenita, pronti a trattare, ma solo se Riad “vuole la pace”. Dichiarazione sibillina per un Paese che in teoria è alleato dei sauditi.
Sono solo parole, al momento, a rischio smentita, ma sono necessitate dall’intensa pressione internazionale che sta subendo Riad per chiudere l’inutile strage.
La pubblica richiesta in tal senso da parte del governo degli Stati Uniti avvenuta a inizio novembre era peraltro puntuale e stringente (Piccolenote).
Pressione che si manifesta anche con articoli sulla guerra in Yemen da parte di giornali Usa che prima la ignoravano per non creare imbarazzi all’alleato.
Come il documentato articolo dell’Associated press, che oltre a rivelare, per approssimazione, i tanti civili morti sotto le bombe dei droni americani, riferisce l’immane costo di vite umane richiesto dal conflitto: oltre 57mila le vittime dei combattimenti, alle quali vanno aggiunti i morti di stenti.
Poi un cenno sbalorditivo: “Al-Qaida ha aderito alla battaglia contro gli Houthi e molti dei suoi combattenti sono incorporati nelle milizie armate e finanziate dalla coalizione sostenuta dagli Stati Uniti”.
Una nota buttata là, senza alcun commento critico, nonostante palesi che gli Usa si ritrovano fianco a fianco con gli autori della strage delle Torri gemelle…
A rendere più remissivi i sauditi sul conflitto in Yemen, la debolezza del suo artefice, il principe ereditario Mohamed bin Salman, inseguito dal fantasma di Khashoggi, il giornalista del Washington Post, ucciso nel consolato saudita a Istanbul (Piccolenote).
I suoi colleghi del WP non mollano la presa e ribadiscono la responsabilità del principe nel crimine, come confermato al giornale anche dalla Cia.
Tutto è ancora incerto: l’amministrazione Usa, sollecitata da Netanyahu, sta tentando di salvarlo come può: un modo è quello di comminare sanzioni agli autori del delitto, ma non a lui.
L’altro modo è il pacato disinteresse di Trump, che neanche vuole ascoltare le registrazioni dell’omicidio che i turchi hanno mandato in tutto il mondo.
Una difesa d’ufficio la sua: d’altronde non può andare in palese contrasto con Netanyahu e i neocon della sua amministrazione, che hanno nel principe ereditario un terminale cruciale in Medio oriente. Né andare contro il genero, Jared Kushner, sodale dello stesso.
Difesa accompagnata, però, da una iniziativa che mira ad aggirare la criticità: la nomina del generale Abizaid ad ambasciatore a Riad, che rompe la filiera Jared – bin Salman e introduce una variabile nuova in Medio Oriente (Piccolenote).
Tempi duri per Jared. Il Washington Post ieri ha rivelato che Ivanka, sua moglie nonché figlia presidenziale, avrebbe usato la mail privata per affari di governo.
Dopo le dimissioni di Nikki Haley da ambasciatrice Onu, i neocon avevano puntato proprio su Ivanka per quel posto chiave, di fatto consegnandolo a Jared. La nota del WP sembra ostativa.
Ps. Nel suo discorso alla Shura, re Salman ha ovviamente difeso il figlio, il cui destino regale è linea rossa (così il ministro degli Esteri saudita al Juberi) che non può essere superata. Ma il re ha anche dichiarato che i sauditi sostengono uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est.
Di fatto una sconfessione del principe, che aveva accolto il progetto del governo di Tel Aviv di fare della città santa la capitale indivisa di Israele. Segnale di cambiamenti in corso a Riad nonostante l’apparente rigidità.
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