Mohamed bin Salman, in un’intervista-fiume rilasciata alle Tv saudite, ha dichiarato: “Tutto ciò che chiediamo è di avere un rapporto buono e fecondo con l’Iran”.
“Non vogliamo che la situazione dell’Iran sia difficoltosa. Al contrario, vogliamo che [Teheran] prosperi e cresca, poiché ci sono interessi sauditi in Iran e interessi iraniani in Arabia Saudita, ed è di comune interesse portare prosperità e crescita nella regione e nel mondo intero”.
Parole sorprendenti quelle del principe ereditario saudita, da sempre avverso all’altra nazione faro dell’islam. Un vero e proprio ramoscello d’olivo, come sottolineano i media sauditi (al Arabya).
Le aperture del piccolo principe sono state accolte con favore da Teheran, che attraverso il portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh, ha risposto: “”Iran e Arabia Saudita, in quanto Paesi importanti della regione e del mondo musulmano, possono entrare in un nuovo capitolo di interazione e cooperazione per raggiungere la pace, la stabilità e lo sviluppo regionali adottando approcci costruttivi e basati sul dialogo” (Tansim).
Le dichiarazioni di bin Salman, benché sorprendenti, non giungono come un fulmine a ciel sereno. Alcuni giorni fa avevamo dato notizia di un dialogo riservato avviato tra i due Paesi grazie alla mediazione dell’Iraq. Evidentemente questo dialogo sta proseguendo e con frutto.
Nella nota in cui avevamo dato notizia del dialogo iracheno, abbiamo accennato ai motivi dell’ammorbidimento dei sauditi. Anzitutto la nuova direzione imboccata della presidenza Biden, che non solo sta cercando un accordo sul nucleare iraniano (che ovviamente ha più ampie implicazioni), ma ha anche bacchettato severamente Riad, tirando fuori dal cassetto, dove erano state riposte, le prove del coinvolgimento di bin Salman nell’assassinio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi.
Un’iniziativa, quest’ultima, che non ha avuto alcun seguito manifesto, ma che è servita, nel segreto, a far pressioni sull’alleato mediorientale. Segnale chiaro, Riad era chiamata a non contrastare gli sforzi diplomatici di Washington nei confronti di Teheran.
Indicazione resa ancor più chiara dalla decisione di chiudere il coinvolgimento degli Usa nella guerra in Yemen, dove i sauditi combattono gli Houti appoggiati dall’Iran. Anche qui alle parole di Biden non son seguiti fatti, ché la guerra prosegue e gli Usa non si sono affatto disimpegnati, troppi i venti di contrasto. E, però, come nella vicenda Khashoggi, anche solo indicare la direzione da intraprendere ha un suo peso, come hanno ben compreso a Riad.
Ci sono poi altri due fattori da considerare. Il primo è il tentato golpe in Giordania, dove i sauditi sono stati accusati, a torto o a ragione che sia, di aver tramato con i golpisti. Golpe fallito, Riad indebolita.
Il secondo è il travaglio del premier israeliano Netanyahu, che sta rischiando di perdere la sua decennale leadership. Bin Salman ha legato le sue fortune a quelle del premier israeliano, in un rapporto che non poteva che diventare di subalternità. Il momento di difficoltà del premier israeliano gli offre spazi di libertà (1). Sviluppi interessanti, anche se di incerto futuro.
(1) A proposito di Israele, la sua tormentata fase politica è coincisa con una delle più gravi tragedie accadute di recente nel Paese. Di ieri la strage avvenuta nel corso di un’affollata cerimonia religiosa, provocata da un precipitoso e caotico rimescolamento della folla, con conseguente caos e fuggi fuggi generalizzato. Ancora ignote le cause del disastro. Le vittime, al momento, sono 44.
Tragedia che interpella e che chiede risposte, non solo della Sicurezza, sulla quale si sta indagando, ma anche dalla politica, dato che il nervosismo che attraversa Israele, con manifestazioni incrociate, scontri di piazza e quanto altro, sta rendendo il Paese sempre più insicuro. E, nell’instabilità, è più arduo gestire e controllare anche un evento che avrebbe dovuto essere affatto tranquillo e privo di rischi.
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