di Fulvio Scaglione - Linkiesta
Ci voleva la rivendicazione dell’Isis per accendere davvero l’attenzione sulle stragi nello Sri Lanka, su quelle centinaia di morti (320 al momento in scriviamo) che negli scorsi giorni non sono mai state trend topic, sono apparse e scomparse dalle prime pagine dei siti, hanno provocato scarsi e distratti brividi tra gli “Easter worshippers” della nostra parte di mondo. Adesso, forse, grazie all’Isis, ci renderemo conto che quello compiuto nelle chiese e negli alberghi dello Sri Lanka è un attentato secondo solo a quello delle Torri Gemelle per numero di morti, qualità dell’organizzazione, potenza di fuoco (molte altre bombe erano state preparate, si parla addirittura di 50 kamikaze pronti a immolarsi) e ambizione strategica. E magari anche la tragedia ci parrà un po’ più vicina e importante.
La rivendicazione dell’Isis pare convincente ma non per la ragione addotta, la più scontata. È impossibile dal punto di vista tecnico che queste bombe siano una vendetta rispetto al massacro nelle moschee di Christchurch (Nuova Zelanda) del 15 marzo, quando 50 persone, tutte musulmane, furono uccise dal suprematista bianco australiano Brenton Tarrant. Un attentato articolato e complesso come quello compiuto nello Sri Lanka non può essere organizzato in un mese.
A convincere sono altri fattori. La tattica militare, per esempio, con l’impiego di diversi kamikaze su obiettivi diversi con attentati programmati in tempi successivi, tipica delle azioni di Al Qaeda e poi dell’Isis. L’acuta strategia politica, quella per cui Al Qaeda e l’Isis rispondono alle difficoltà su un fronte aprendo un fronte nuovo, scelto con cura nei Paesi che offrono linee di faglia delicate. Al Qaeda, quando fu attaccata in Afghanistan e poi in Iraq, esportò il terrorismo islamista nel Maghreb e nell’Africa del Nord, da dove poi si spostò nell’Africa subsahariana e nel Sahel. I Paesi toccati erano l’Algeria reduce dalla guerra civile degli anni Novanta, il Ciad e il Mali della rivolta tuareg, giù fino alla Nigeria per rendere ancor più micidiale Boko Haram.
Con l’Isis succede la stessa cosa. Il jihadismo è in crisi in Siria? Ecco allora l’Egitto (il Sinai della perenne insofferenza beduina) e la Libia della disgregazione post-Gheddafi. Se il Califfato crolla, ecco lo Sri Lanka, Paese che offre al terrorismo infinite possibilità. È reduce da una guerra civile (cingalesi contro tamil, Governo contro ribelli) durata 25 anni. È un Paese multietnico e multireligioso (buddisti intorno al 70%, hindù 13%, musulmani e cristiani 10%), con le inevitabili tensioni che ne derivano o che possono derivarne. E ha una posizione strategica nell’Oceano Indiano, tanto da richiamare le attenzioni della Cina, che vuole farne un gioiello del suo Filo di perle, la collana di porti che dovrebbe garantirle la futura supremazia sui commerci marittimi.
Tessendo la propria tela, la Cina è riuscita a intrappolare lo Sri Lanka in una ragnatela di debiti. E proprio il rapporto con la Cina è alla base del perenne dissidio tra il presidente Sirisena e il premier Wickremesinghe che potrebbe aver aperto la strada gli attentatori (pare che il Consiglio di Sicurezza, presieduto da Sirisena, fosse stato avvertito del pericolo ma non abbia ritenuto di informare il Governo) e che ora, addirittura, potrebbe portare a una svolta autoritaria nel Governo del Paese, visto che Sirisena ha decretato lo stato di emergenza che gli consegna i poteri speciali. Insomma, dal punto di vista dell’Isis un campo d’azione perfetto.
Il terzo fattore che rende convincente la rivendicazione dell’Isis è questo: il carattere della strage nello Sri Lanka corrisponde perfettamente all’ideologia del Califfato. Sono stati colpiti le chiese dei fedeli e gli alberghi dei turisti perché, insieme, rappresentano i cristiani. Che nell’accezione di Al Baghdadi sono crociati, uomini e donne che, all’ombra della croce, intendono portare nella umma (comunità) islamica valori e costumi estranei e pericolosi. In altre parole, avviene oggi nello Sri Lanka ciò che è avvenuto negli ultimi anni in tutto Medio Oriente.
Se questo è vero, gli eventi degli ultimi giorni riportano il problema del contrasto al terrorismo di matrice islamista alla casella del via. Al punto in cui eravamo quando, il 20 settembre del 2001, George Bush Junior proclamò la “war on terror” la guerra al terrorismo.Abbiamo militarizzato mezzo Medio Oriente, robuste porzioni di Asia e di Africa per quasi nulla.
Certo per poco. Il terrorismo islamista è vivo e vegeto. Abbiamo tagliato le ramificazioni militari (Al Qaeda, Isis) ma la sua capacità strategica e organizzativa, quella più squisitamente terroristica, è intatta. È tuttora in grado, proprio come lo era prima del 2001, di trasformare un piccolo gruppo locale di fanatici quasi innocui, come il National Thowheeth Jamath dello Sri Lanka, in una micidiale macchina di morte. Quasi vent’anni dopo le Torri Gemelle, il lavoro da fare è ancora enorme.
E anche in questo senso si torna alla casella del via. Il problema è sempre quello. Sappiamo con assoluta certezza, da infinite ricerche e dalle ammissioni di politici di mezzo mondo, prima fra tutte Hillary Clinton, che la centrale strategica del terrorismo islamista sunnita mondiale sta nelle petromonarchie del Golfo Persico, prima fra tutte l’Arabia Saudita. Bisogna intervenire lì. Ma forse, visto che la tendenza è piuttosto a ossequiarle, è più pratico rassegnarsi a tante altre Colombo. E Londra. E Madrid. E New York. E Parigi. E Bali. E Baghdad. E Cairo. E Kabul. E…
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