di Francesco Erspamer
Il problema delle migrazioni di massa, e la ragione per cui sono sostenute sia della finta destra che dalla finta sinistra (benché con diversa retorica: la prima in nome del dogma della crescita economica perpetua, la seconda del dogma della mobilità e della «inclusione», entrambe procedure di omologazione planetaria) è che a diffondersi in Italia e in Europa non sono gruppi di nigeriani, pakistani, filippini, rumeni, siriani, colombiani, con le loro diverse caratteristiche e tradizioni, contraddittoriamente mescolate a un desiderio di integrarsi nel paese e nella cultura di destinazione; no, a muoversi sono per lo più giovani che sognano il modello americano (soldi, successo, stimoli), non molto diversamente da tanti loro coetanei europei.
È che una cultura svuotata delle sue specificità, una cultura che cancelli o addirittura rinneghi il suo passato non diventa un’altra cultura: impossibile per gli italiani, leghisti lombardi inclusi, diventare dei danesi o dei tedeschi, e viceversa: servirebbero secoli.
Una cultura senza memoria e radici diventa, facilmente e istantaneamente, una non-cultura globale, superficiale, indistinta, appiattita sul privato e sul presente. In sostanza a invadere il vecchio continente è chi cerca un nuovo mondo e il nuovo in generale; troppo difficile entrare tutti negli Stati Uniti per cui si accontentano delle sue colonie, sempre meno, del resto, distinguibili dal loro paese guida (del quale stanno acquisendo anche la lingua). E così contribuiscono, immigrati ed emigranti, all’americanizzazione dell’Europa e del mondo, che è appunto lo scopo dei liberisti che fanno finta di essere di destra (Meloni, Salvini) o di sinistra (Schlein, integralisti liberal e radicali).
Altro che festa della Repubblica («res publica»); ormai ogni giorno è una festa dell’individualismo, del presentismo e del consumismo stelle e strisce. È però tempo di scuotersi dall'alibi dell'inevitabilità: ogni cosa che avviene a livello sociale è una scelta.
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