di Francesco Erspamer*È vero, non c’è più una destra e non c’è più una sinistra, entrambe dissoltesi nel brodo neoliberista. Ma ciò non significa che non ci sia bisogno di una destra e di una sinistra, anzi, di più destre e più sinistre: le une contro le altre armate perché la condizione necessaria della democrazia è il pluralismo politico, che implica separazione, non il multiculturalismo globale e conformista. Per questo non ho niente contro Meloni: se fossi di destra la detesterei in quanto è una filoamericana almeno quanto Schlein, dunque una finta conservatrice, una finta nazionalista, una finta cattolica, una finta fascista. Ma non sono di destra e non tocca a me sognare una vera destra. Se agli italiani che si sentono o dicono di destra va bene Meloni come a suo tempo andò bene Berlusconi, fatti loro.
Io sono di sinistra e mi tocca pertanto il compito, ancora più disperato, di provare a pensare una vera sinistra, che non significa antimeloniana o antifascista e in fondo neppure antiliberista: una sinistra che si limiti a essere «anti-qualcosa» non è sinistra ma una banale emanazione dell’impero delle multinazionali, all’interno del quale esiste un solo valore, il successo materiale e individuale (con i suoi culti: del nuovo, della tecnologia fine a sé stessa, della libertà come edonismo), un valore che si può ancora rifiutare (diventando irrilevanti) o dal quale, più probabilmente, ci si può far condurre alla disperazione o alla rassegnazione: nessun problema, a patto che non tentiate di contrapporgli un altro modello, nel qual caso sareste immediatamente etichettati come statalisti dalla destra e come razzisti dalla sinistra (fra qualche anno basterà l’epiteto di «putinisti») e tacciati di terrorismo.
Sì, lo scoraggiamento è comprensibile, peraltro indotto dalla macchina propagandistica più potente e invasiva della Storia (tutti gli schermi o schermini dei quali vi servite ne fanno parte). Però un ribellismo ingenuo, educato o isterico, verbale o violento che sia, non è una soluzione; al contrario, rafforza il potere: e non perché ne legittimi le strutture repressive, come accadeva una volta, ma perché lo aiuta a frammentare la società, a completarne la deregolamentazione, a cancellare le istituzioni, le culture e le tradizioni che per qualche migliaio di anni hanno bene o male (spesso, male) arginato la barbarie dell’individualismo.
Non è ancora tempo per la politica: prima occorre ricostruire la «polis», dunque delle aggregazioni sociali che si riconoscano in autonome gerarchie di valori condivisi. Condivisi. Non «universali» come pretendono i liberisti di destra o «umani» come pretendono i liberisti di sinistra, entrambi per sfuggire alla responsabilità e fatica del bene comune, che sempre comporta rinunce, sacrifici, compromessi; così più facile chiamare destino o necessità ciò che conviene ai potenti e si possa ottenere sùbito, e chissenefrega dei posteri.
Di questo vorrei discutere, dopo qualche mese di totale distacco da un ambiente, quello dei cosiddetti «social», che si è dimostrato, dopo le illusioni di qualche anno fa, del tutto omogeneo al sistema neoliberista, se non sua diretta emanazione. D’altra parte i mezzi, a differenza dei fini, non li si può inventare: ci si deve accontentare di ciò che è disponibile. Anche facebook. Purché non ci si adegui al suo formato, alla sua programmatica superficialità, alla sua ossessione per l’immediata attualità e per ciò che è di moda e in quanto tale non giudicabile. Come dicevo, penso che sia tempo di tornare a parlare di valori, di principii, di obbiettivi, di strategia. Senza alcuna speranza di ottenere risultati in tempi brevi: in quanto consapevoli delle enormi difficoltà che ci troveremo ad affrontare ma anche perché immuni dal vizio liberista della fretta.
*Post Facebook del 30 settembre 2023