Esiste una parola che accomuna democratici e repubblicani americani e che infatti viene continuamente usata da Harris e da Trump per denigrare l’avversario. Si tratta di «un-American», privo di equivalente in italiano in quanto imputa a chi ne sia colpevole l’infamia non di opporsi agli Stati Uniti (quello che da noi sarebbe un «antitaliano») ma di non essere pienamente americano. La forza dell’aggettivo (e del conseguente sostantivo, «un-Americanism» è indubbia: l’unico modo per sottrarsi alla vergogna è negare l’accusa, ossia affermare la propria incondizionata approvazione per ciò che gli Stati Uniti si credono e vogliono apparire.
Questa è la ragione per cui domani alle elezioni voterò per un candidato indipendente: Harris e Trump sono la stessa cosa, come Schlein e Meloni in Italia. Perché l’irrinunciabile fondamento delle loro posizioni politiche è l’americanismo, ossia, a voler arrivare al suo (per dirla aristotelicamente) motore immobile, la libertà individuale. «Un-American» significa non liberista, non liberal, non libertario: dunque contrario al consumismo compulsivo (compro ergo sono), alla mobilità compulsiva (mi sposto ergo sono), all’egoismo privato (sono quello che voglio essere ergo sono). Chiunque ancora osi credere in ideali che non siano quelli della crescita finanziaria, in comunità che non siano quella globale e virtuale, in tecnologie che non siano quelle imposte dalle multinazionali e dai loro apparati mediatici, in popoli che non siano quello naturale e universale, insomma chi ancora si riconosca in tradizioni, religioni e culture estranee al culto del nuovo fine a sé stesso, è «un-American» e probabilmente un fascista o un terrorista.
Ora, che agli americani piaccia sentirsi eccezionali, unici, superiori a chiunque altro, e che per riuscire a convincersi di esserlo debbano demonizzare o criminalizzare qualsiasi dissenso, sono fatti loro. Già il concederglielo è un atto «un-American», in quanto implicitamente nega l’assolutezza della loro posizione. Il passo successivo, necessario, è che l’Italia (e tutte le altre nazioni, regioni e comunità del pianeta) dimostrino un’identica capacità di definire autonomamente la propria identità, dunque nella fattispecie di considerare non-italiano chiunque non si conformi, chiunque non voglia appartenere. La vera diversità non è l’arcobaleno, ossia la dittatura di un ristretto numero di valori politicamente corretti e identici ovunque («oggettivamente», «scientificamente»); la vera diversità è la reale indipendenza delle culture: tolleranti e curiose una dell’altra proprio perché non identiche e non in competizione.
Non smetterò di credere che questo sia possibile: da Gramsci ho imparato l’ottimismo della volontà. D’altra parte lo spettacolo di milioni di italiani che si sentono emancipati per aver sostituito la festa dei morti e quella di Ognissanti (molto «un-American») con Halloween, costringe a un sano pessimismo della ragione.
Francesco Erspamer - Post Facebook del 4 novembre 2024