A parte la significante vittoria di Bill de Blasio alla corsa di sindaco di New York, il celebre discorso di Elizabeth Warren di sostegno all'espansione di Social Security o la dichiarazione del presidente Obama che l'ha definita la sfida più importante per il futuro,
la disuguaglianza sociale resta ancora troppo poco presente nel dibattito politico. Con questa premessa
Paul Krugman sostiene come la questione oggi non è solo quella di restaurare la crescita economica, ma preoccuparsi che i benefici da questa vadano redistribuiti alle fasce più in difficoltà della popolazione.
I numeri, sottolinea il premio nobel per l'economia, sono drammatici da questo punto di vista. Non solo gli gli americani rimangono molto più poveri oggi che prima della crisi, ma i livelli di disuguaglianza sociale stanno crescendo in misura maggiore rispetto anche alle fasi peggiori della storia economica del paese, come gli anni '30. E se si ragiona in un'ottica di lungo periodo, la disuguaglianza crescente diviene di gran lunga il fattore più importante dietro il crollo dei redditi della classe media, la ragione principale attraverso cui si può comprendere la Grande Recessione e la ripresa balbettante che si è avuta dal 2010.
E' accettato a livello generale come il debito crescente privato nel settore immobiliare sia stato l'elemento principale della crisi: aumentando, ha infatti comportato un incremento della disuguaglianza ed i due fattori sono perfettamente interscambiabili. Dopo che la crisi è scoppiata, si è assistito allo spostamento continuo di reddito dalle classi medie ad una piccola élite, che ha pesato sulla domanda dei consumi e così la disuguaglianza si è legata sia alla crisi economica che alla debolezza della ripresa che ne è seguita.
Il problema, sottolinea il premio Nobel per l'economia, è stato politico. Negli anni prima della crisi, c'è stato un consenso bipartisan notevole a Washington in favore della deregolamentazione finanziaria – un consenso non giustificato né dalla teoria né dalla storia. Quando la crisi è arrivata, c'è stata una corsa a salvare le banche, ma dopo, prosegue Krugman, un nuovo consenso è emerso, che ha allontanato le priorità dalla creazione di posti di lavoro e si è focalizzato sulla minaccia dei deficit di bilancio. Cosa hanno in comune i due consensi? Entrambi sono stati economicamente distruttivi: la deregolamentazione ha aiutato a creare le premessi per la crisi, e la scelta prematura all'austerità fiscale ha impedito la ripresa. Entrambi questi consensi hanno fatto gli interessi di un'elites economica, la cui influenza politica è aumentata in parallelo con la sua ricchezza. Questo è chiaro se pensiamo perché Washington, nel pieno della crisi economica, è divenuta ossessionata dalla presunta necessità di tagliare i benefici a Social Security e Medicare. Un'ossessione che non ha alcun senso: in un'economia depressa con tassi d'interessi bassi, il governo dovrebbe spendere di più; ed in un'era di disoccupazione di massa non è certo il tempo di focalizzarsi sui problemi fiscali potenziali del futuro.
I sondaggi dimostrano come i più ricchi – a differenza degli altri strati della popolazione – considerino i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli ad ampi tagli nei programmi di Welfare. E queste élite hanno preso possesso del discorso politico. Obama ha ragione nell'affermare che la disuguaglianza è la sfida più importante per il nostro futuro, ma, conclude Krugman, “cosa abbiamo intenzione di fare per affrontarla?”