di Antonio Di Siena
Era un mondo molto diverso quello del 2001. Lo sviluppo della modernità sembrava inarrestabile, si credeva che l'umanità si stesse dirigendo inesorabilmente verso un mondo nuovo e senza confini, governato da progresso e valori universali e abitato da una moltitudine di identità fluide.
Questa prospettiva apparentmente celestiale però nascondeva il vero volto della globalizzazione. Fatta di disuguaglianze, sfruttamento, privatizzazione di risorse e beni pubblici, limitazione dei processi democratici fino al loro completo annullamento.
Qualcuno l’aveva certamente compreso prima degli altri, prevedendo (con Negri e Klein) un mondo che, sgretolato nelle sue istituzioni e confini sotto i colpi di new economy e libero mercato, sarebbe stato governato globalmente nell’interesse di pochi.
Il problema della critica a questo modello però era la sua soluzione, tutta interna al modello stesso.
Perché anziché combattere per arrestare l’inesorabile avanzata della mondializzazione, si credette che fosse possibile resistervi. Guidandola verso orizzonti più umani, partecipativi e democratici. “Un altro mondo possibile”, ma pur sempre senza confini.
Una visione questa intrinsecamente “riformista” che tanto ricorda le posizioni altroeuropeiste di questi tempi. Una prospettiva miope ed inefficace che presto o tardi finisce per condannare all’irrilevanza politica e quindi all'inutilità.
18 anni di riflessioni e 10 di crisi economica non sono bastati.
Nel mondo della mondializzazione livellante che uniforma culture e tradizioni, distrugge storia e comunità, genera precarietà e miseria, mentre i popoli continuano a invocare protezione, a sinistra si continua a demonizzare l’unico argine efficace (da mezzo millennio a questa parte) allo strapotere del più forte: quello Stato-Nazione troppo frettolosamente confinato nel cestino della storia perché confuso e sovrapposto al nazionalismo.
Con l’aggravante che prima la globalizzazione almeno la si criticava. Riconoscendo l’utilità dei piccoli recinti comunitari utili a preservare stili di vita e culture millenarie, biodiversità, differenze, si lottava per la libertà e l’indipendenza dei popoli. Quantomeno degli altri. Gli Indios, il Chiapas, la Palestina, la Repubblica d’Irlanda. Oggi invece si è finito per credere che basti aprire i nostri porti per risolvere tutti i loro problemi.
Ieri come allora facendo di cause e soluzioni due facce della stessa medaglia, l’unico effetto che viene a crearsi è lasciare campo libero agli avversari. Quella destra restauratrice e conservatrice da sempre nemica del popolo che, nella fase di sgretolamento del mondo unipolare ad egemonia americana, si è imposta come guida alla resistenza in una battaglia che vede il ritorno prepotente del conflitto di classe che (è bene ricordarlo) si è sempre combattuto sul terreno nazionale. Una battaglia che, e questo la storia ce lo insegna molto bene, se non vede in prima linea le forze socialiste crea l’humus ideale (e necessario) al ritorno del fascismo.
Quello vero e non immaginario.
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