di Pasquale Cicalese*
Dieci anni fa, il grande economista Marcello De Cecco ebbe a dire che in futuro lo yuan, la divisa cinese, difficilmente avrebbe avuto un ruolo internazionale, stante l’enorme surplus della bilancia commerciale assieme al surplus delle partite correnti.
Quest’ultimo presentava un dato mostruoso allora: 10,1% rispetto al Pil. Il modello a cui si riferiva De Cecco era la Gran Bretagna della fine Ottocento/prima decade del Novecento. La sterlina dominava il mondo grazie al deficit delle partite correnti, attutito dall’enorme surplus che la Gran Bretagna aveva allora con la colonia India.
De Cecco era dell’idea che per essere valuta internazionale occorreva aprire il mercato e avere deficit di bilancia commerciale, vale a dire più import che export, e avere deficit di partite correnti. La richiesta della valuta di tale paese sarebbe stata, per questa ragione, significativa.
Il modello inglese è stato implementato in Usa negli ultimi 50 anni con il predominio del dollaro, contraltare dell’enorme debito estero e del deficit delle partite correnti.
Quel che però l’economista italiano non poteva immaginare è che, da allora, la Cina ha azzerato il surplus delle partite correnti, portandolo da 10.1% all’1,4% dello scorso anno. Tale riduzione fotografa l’enorme sforzo cinese per sostenere l’economia mondiale, sforzo che nessun media mainstream riconosce. Rimane il surplus della bilancia commerciale, che nel 2020 si attesta a 400 miliardi.
Prima nota: Xi Jinping, due giorni fa ha comunicato che il livello dell’import cinese ad ottobre 2020 è pari a quello del 2019, contrariamente a tutti gli altri paesi che, stante la pandemia e il crollo del commercio estero, hanno visto una forte diminuzione di import.
Ma nello stesso discorso il Segretario del Pcc informava che con la “doppia circolazione”, interna ed esterna, con una forte vocazione all’economia domestica, la Cina si impegna ad aumentare fortemente le importazioni da tutto il mondo e ad azzerare il surplus commerciale.
Dunque l’economia mondiale vedrebbe una domanda cinese aggiuntiva di 400 miliardi, se non di più.
La focalizzazione sull’economia interna, che trascinerà le importazioni, si basa sull’innovazione tecnologica delle industrie (come fonte primaria di valore), sullo sviluppo dei servizi e sull’ampliamento dei servizi pubblici di base.
Architrave di quest’ultimo sarebbe la riforma sanitaria, che forse verrà comunicata durante le sessioni parlamentari di marzo. Se ciò avvenisse ci sarebbe un altro scossone cinese e di conseguenza mondiale.
L’ammontare del risparmio cinese nell’ultimo decennio è pari al 486% del Pil, a cui fa da contraltare un debito cumulato di 342% del Pil. L’offerta di servizi pubblici di base, il salario sociale, avrebbe come conseguenza l’abbattimento del tasso di risparmio “precauzionale” (i cinesi hanno fin qui risparmiato per cure sanitarie e previdenza), che favorirebbe i consumi e il settore dei servizi, nel frattempo digitalizzato.
Questo perno “sociale” costituirebbe la base dell’abbattimento del surplus commerciale e un quadro di partite correnti che sarebbe in deficit, coperto dalle enormi riserve valutare della People’s Bank of China (3.140 miliardi di dollari).
A quel punto, la divisa cinese avrebbe un ruolo internazionale, prima nel Pacifico e poi a livello mondiale, a scapito… dell’euro, che presenta enormi surplus delle partite correnti.
La vulgata della sedicente “sinistra radicale” nell’ultimo ventennio era che la Cina sosteneva l’euro come scudo contro il dollaro. Ma ora si libera, fa tutto da sé; non tocca il dollaro, anche perché si è instaurata una connessione finanziaria tra Wall Street e Shanghai, e tra City londinese e Shanghai.
Anche per capire la Cina di oggi, come per capire l’Italia, l’economista Marcello de Cecco ha ancora tanto da insegnarci.
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