di Leo Essen
Dopo che il mondo intero ha visto alla televisione le nostre miserie, fatte di figli che piangevano i padri su Zoom e di parroci che impartivano l’estremo saluto in teleconferenza, ci eravamo promessi, era maggio, che queste cose non si sarebbero ripetute, che avevamo imparato la lezione, che ci saremmo rialzati, che nelle condizioni estreme l’Italia sa dare il meglio, che dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, e altre panzane.
E invece tutto è tornato a ripetersi pari pari. Avevamo detto basta alle lezioni a distanza e basta ai contatti simulati, e invece siamo qui a parlare di mettere le superiori in didattica tele-trasmessa per decongestionare i mezzi di trasporto.
La proposta della chiusura delle superiori arriva dalle regioni prime della classe: Emilia Romagna e, a ruota, Lombardia e Veneto. Anzi, da Lombardia e Veneto, perché Bonaccini, presidente di ER, ha solo riportato ciò che ha sentito dire alla Conferenza delle regioni, anche se i suoi sostenitori, in particolare i Cattivi Maestri che ogni 5 anni danno lezioni di resistenza su Twitter e Facebook, salvo poi pentirsi e fare le anime belle per i seguenti quattro anni, giusto per rivendicare quel barlume di indipendenza a cui sono appese le loro carriere di scenografi, registi, scrittori di gialli e aspiranti direttori di scena di fiction e serie televisive, anche se, dicevo, i suoi sostenitori, questa volta, non se la sono bevuta. Viste anche le precedenti sparate sulle virtù medicali della sanità (semi-privata) emiliano romagnola.
A ricucire lo strappo ci ha già pensato Repubblica-Bologna che ha immediatamente ritirato un articolo (Google ancora lo indicizza) che probabilmente tirava in mezzo proprio il presidente dell’Emilia Romagna.
Il Cattivo maestro Bolognese – cattivo perché, quando si incazza, provoca lo shutdown dei database del social network - scrive (cito): io ti ho votato e ho fatto per te pure campagna elettorale gratis qua sopra, quindi sarò franco. Bonaccini, ma cosa dici? Sapevamo che c’era il rischio di chiudere le scuole, e sapevamo che ci si contagia sugli autobus e sui treni. Se il problema sono i trasporti, tu migliori i trasporti, mica chiudi le scuole. Ci sono stati 6 mesi per pensarci. Sono furioso, come cittadino e come genitore.
E poi giù con una filippica (che vi risparmio) sull’importanza del contatto fisico, sui giovani e la scuola, l'adolescenza e l’iniziazione e compagnia bella.
Poi che c’entra, aggiunge, se serve si fa tutto, mio nonno a 17 anni è andato in guerra. Ma non così. Non come prima mossa. Non perché il 10 ottobre ci si accorge che ci sono troppi studenti sugli autobus.
Qui mi tocca aprire una parentesi. La rivendicazione è sacrosanta. Se una cosa non va, si fa un nodo al fazzoletto, e si ritorna dopo un tot a verificare che tutto sia sistemato. Da Striscia la notizia in su, fino a Presa diretta, siamo stati ammaestrati bene. Se mancano degli autobus o dei letti negli ospedali, li si ordina per tempo, mica si aspetta che caschino dal cielo come la manna.
Il ragionamento non fa una piega. Senonché, ci si dimentica che siamo in una società capitalista. Si vedono le forze produttive – la capacità dei lavoratori di produrre autobus e letti e ogni ben di dio; si vedono le fabbriche che lavorano a meno del 75% delle loro effettive possibilità; si vedono gli sprechi e gli investimenti improduttivi; si vedono i bar e le pizzerie chiudere e tanti bravi cittadini andare a ingrossare le file dell’esercito di lavoratori potenziali; si vede la banca centrale distribuire soldi a ufo; si vedono le forze disponibile a produrre tutto ciò che serve, e non ci si spiega perché Bonaccini e Fontana non siano in grado di comandarle, se non perché sono degli idioti.
Si vedono le forze produttive, e sotto la retorica perbenista, meritocratica, tecnocratica, populista, ironica, anti-questo e anti-quello (chiamatela come vi pare), dietro questo profluvio di blablabla e deduzioni e narrazioni, si seppelliscono i rapporti di produzione – il fatto, cioè, che se non si producono autobus, non è perché manchi la volontà di produrli, ma perché il capitalismo non trova profittevole produrli; perché è ragionevole (ragionevole per il capitalismo) ridurre i costi, se si vuole stare sul mercato; perché è ragionevole buttare sul lastrico baristi e pizzaioli se si vuole aumentare la produttività globale dei fattori; perché è ragionevole sbattere fuori quanti più metalmeccanici possibile - è un dato contabile (dico un numero!), che producendo gli stessi beni con meno operai ci si merita un posto di diritto sul mercato.
La stessa retorica perbenista, meritocratica, anti-anti del Cattivo e intrepido Maestro Bolognese è solidale con il capitalismo, vuole che esso sia più efficiente, più produttivo, più celere, meno sprecone, meno corrotto, più intraprendente. Poi se serve si fa tutto, si va anche in guerra, magari una volta ogni cinque anni, armati di matita e turacciolo per il naso.
Non si tratta di essere efficienti o meno idioti, o imparare in 6 mesi quello che non si è imparato in 500 anni; si tratta di prendere atto che il distanziamento e il capitalismo non vanno d’accordo, come racconta Carlo M. Cipolla in un libro - Storia economica – stampato a Bologna nel 1974.
Nel 1590 il Tribunale della Sanità di Milano stabilì che «i facchini, i battilana, i ciabattini e altra gente simile, sia maschi che femmine, sia forestieri che del paese, in ragione della loro umiltà e povertà dormono in più di due o in più di tre persone per letto.»
Quando a Milano scoppiò la peste del 1629-30, Ambrogio Magenta scrisse che «i poveri sono i più danneggiati dalla peste per il disagio patito per scarsa alimentazione e abitazioni strette, come nelle case dette stalli, dove ogni camera, essendo occupata da famiglie numerose, causa puzza e contagio.»
A Torino, durante la stessa epidemia, il medico e ufficiale sanitario Gian Francesco Fiocchetto, nella sua relazione, annotò che «uno dei primi casi di infezione fu quello di Francesco Lupo, calzolaio, il quale abitava in una casa dove vivevano 65 tra uomini e donne, tutti artigiani.»
A Firenze, F. Rondinelli, scrisse che «quando si censì il popolo si trovò nella corte de’ Donati, dentro una torraccia antica, 72 persone, e in via dell’Acqua in una casa 94, e in quella di S. Zenobi circa 100, e uno solo che fosse per cattiva disgrazia appestato, era quasi impossibile che non contagiasse il male a tutti.»
A Palermo, durante l’epidemia di peste del 1575, il proto-fisico Ingrassia racconta al Viceré che «la peste si fa di giorno in giorno crudele, massimamente nel quartiere di Celvaccari, come è più mal disposto e pieno di gente di bassa e vile, in certi luoghi chiamati cortigli, che sono Ridotti di certe casette basse, attaccate l’una con l’altra, che molte case spesso si congiungono non avendo salvo che una entrata, con un pozzo in mezzo, comune per tutte.»
A Genova, durante la terribile epidemia di peste del 1656-57 una suora annotò: «in Genova numeroso popolo, tutto povero, ristretto in case di 10 e 12 famiglie ... abitano per lo più in una stanza 8 o più persone prive d’acqua e di ogni altra comodità.»
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