Napolitano d’America - Breve storia di un viaggio ambizioso

Giorgio Napolitano è morto venerdì 22 settembre a 98 anni. Una lunga carriera che lo ha visto operare una torsione a 360 gradi delle sue convinzioni politiche. Da sostenitore della linea sovietica a fiero difensore del vincolo esterno euro statunitense. Il presidente della Repubblica emerito è stato anche protagonista di una importante modifica della Costituzione materiale adottando uno stile molto interventista oltre ad essere stato il primo presidente a farsi rieleggere. Una carriera, quella di Napolitano, segnata da un progressivo, inesorabile e convinto avvicinamento al potere. Per ottenerlo, era fondamentale passare per Washington.

Il contesto storico

Ancora nel 1975 la diffidenza statunitense nei confronti del PCI era ai massimi livelli. Nel corso della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, tenuta ad Helsinki il primo agosto, Gerald Ford e Henry Kissinger incontrarono Mariano Rumor, ministro degli Esteri e Aldo Moro, presidente del Consiglio. Il dialogo, riportato quasi completo dalla pagina twitter “La Storia e le idee”, dimostra la totale chiusura degli USA ai comunisti italiani. Ford e Kissinger ritenevano intollerabile un governo marxista nella NATO. Così, infatti, affermava il presidente statunitense: ‹‹Se i comunisti fossero al governo in Italia, sarebbe difficile spiegare in che modo voi possiate rimanere un membro della NATO››. Kissinger rincarava la dose: ‹‹Avere i comunisti al governo in Italia sarebbe completamente incompatibile con il proseguo dell’appartenenza all’Alleanza. Non c’è possibilità di convincerci ad essere in un’Alleanza, che dovrebbe essere contro i comunisti, con governi che includono i comunisti. Non mi interessa quello che dite››. Rumor confermava la contrarietà della DC all’ingresso del PCI al governo e Kissinger tratteggiava un parallelo con il periodo 1946-1948. Così parlava il segretario di Stato: ‹‹Siamo disponibili a cooperare per rafforzare il vostro partito ma dovete davvero lottare››.

Poco meno di un anno dopo, nel giugno 1976, Berlinguer accettava l’Alleanza Atlantica in una famosa intervista a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera. Il consenso del segretario del PCI alla NATO fu meno entusiastico di quello che una certa vulgata vuole far passare. Berlinguer affermò, in successive interviste, che l’Alleanza Atlantica, tra le numerose colpe, tollerò per anni la presenza dei regimi fascisti di Portogallo e Grecia e ciò nonostante i propositi da “protettrice delle libertà”. Quindi il rapporto tra ambienti euroatlantici e PCI rimaneva complesso ma qualcosa si muoveva. E in prima linea si trovava Giorgio Napolitano.

Il viaggio in pieno rapimento Moro

Nell’aprile 1978 Giorgio Napolitano diventa il primo dirigente del PCI ad entrare negli Stati Uniti in quanto tale e non all’interno di delegazioni interparlamentari. È l’apice di una manovra politica lunga un triennio. Nel 1975 Napolitano venne invitato negli USA ma il dipartimento di Stato gli rifiutò il visto. Da quel momento, il futuro presidente della Repubblica cercò in ogni modo di accreditarsi presso Washington. Nel novembre 1976 John Volpe, ambasciatore statunitense a Roma, riferì che Napolitano cercò per ben tre volte di incontrare Ted Kennedy nella capitale italiana. La notizia viene riportata da Stefania Maurizi, Simonetta Fiori e Concetto Vecchio in un articolo su Repubblica dell’8 aprile 2013.

Una sorta di smania filoamericana da parte di Napolitano che culmina con il viaggio negli Stati Uniti di cui fa un resoconto su Rinascita. I punti salienti sono diversi. In primis, Napolitano registra la grande attenzione della stampa, dal New York Times al Washington Post passando per Newsweek, Time e Fortune. L’attenzione si concentra sulla solidarietà nazionale e sulla linea governativa. Riguardo al tragico rapimento di Moro, Napolitano evidenzia solamente l’approvazione del mondo accademico, giornalistico e politico statunitense per la linea della fermezza. Dopodiché Napolitano racconta della visita alle università, Princeton e Harvard. Gli incontri sono numerosi e comprendono appuntamenti con la scuola Woodrow Wilson, il Comitato di Studi sull’Europa, il Centro Studi Europei, il Centro per le questioni internazionali, l’Harvard Business School, il MIT e la JFK School of Government. In conclusione, il gotha dell’atlantismo accademico statunitense incontra Napolitano. Un mondo culturale saldamente legato al complesso militare-industriale e alla classe dirigente. Una sorta di drago a tre teste con connessioni e rapporti strettissimi. Napolitano, per concludere, dialoga con i rappresentanti del Lehman Institute e del Council on foreign relations. Su Rinascita, il “ministro degli Esteri” comunista, scrisse: ‹‹…si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice››. Chiarissimo messaggio per sé stesso e per i suoi compagni miglioristi.

Un ruolo fondamentale per l’organizzazione del viaggio lo ebbe Andreotti, come riconosciuto anche da Napolitano stesso. Nell’Archivio Andreotti si trova questo messaggio, scritto il 9 maggio 2006, all’alba della presidenza della Repubblica, quasi a ricordare da dove parte il viaggio che lo porterà, nel brevissimo, a ricoprire la massima carica dello Stato: «Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati uniti: venni a chiederti consiglio nel tuo studio a Palazzo Chigi, mi assicurasti il sostegno della nostra ambasciata e a Washington mi mettesti in contatto con Dini, a casa del quale potei incontrare il rappresentante del Fondo monetario». Napolitano, insomma, rimase sempre molto grato al Divo. E di certo il viaggio del 1978 gli fu utile per gettare le basi della sua carriera istituzionale ai massimi livelli.

Il parallelo con il viaggio di Moro del '74

Quattro anni prima di Napolitano, nel settembre 1974, l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro visitò gli Stati Uniti. Con la dovuta proporzione per il diverso ruolo che ricoprivano, l’accoglienza del leader democristiano fu molto più fredda, usando un eufemismo. Moro era nel periodo della “strategia dell’attenzione” nei confronti del PCI. Dall’altra parte, l’amministrazione statunitense era decisamente in una fase di fobia comunista. Kissinger, che rappresentava l’ala più oltranzista, ebbe un colloquio durissimo con Moro. La chiusura nei confronti della strategia dell’attenzione era totale. Poco dopo il traumatico dialogo con il segretario di Stato, il politico pugliese ebbe un malore e pensò di ritirarsi dalla politica una volta tornato in Italia. Ma non lo fece e nel 1976 ricevette altri avvertimenti, più espliciti. Li ricorda Eleonora Moro, moglie di Aldo, davanti alla Commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione del marito. La frase era questa: ‹‹Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere››.

La freddezza del mondo statunitense nei confronti di Moro è storia nota così come l’idiosincrasia tra Kissinger e lo statista italiano. La lora mentalità, diametralmente opposta, fu l’innesco di un’antipatia umana che permeò anche i rapporti politici. L’ambiziosa manovra di avvicinamento del PCI, iniziata da Moro, venne però bruscamente interrotta dal suo rapimento e dal suo omicidio. Senza il principale promotore, il compromesso storico naufragò anche perché alle Botteghe Oscure via Fani fu percepito come un segnale. La conventio ad excludendum rimaneva saldamente in piedi nonostante i tentativi di Napolitano che, più che accreditare il partito, avvantaggiò sé stesso.

Una carriera lanciata

Il passaggio da Napolitano che difende l’intervento sovietico in Ungheria al “my favourite communist” di Kissinger a Cernobbio nel 2001 è un riassunto delle degenerazioni della sinistra italiana. Napolitano rappresentò l’ala più a destra del PCI, l’anima liberista che si è presa possesso del partito e lo ha distrutto. E, in questo senso, il viaggio del 1978 ha un ruolo importante. Dopo quel ciclo di visite,

il futuro presidente della Repubblica tornò negli USA con Occhetto nel 1989. Oramai era un affidabile alleato di Washington. Lo dimostra anche la grandissima considerazione in cui venne tenuto il Napolitano massimo rappresentante dello Stato. Ed egli ripagò la fiducia ergendosi a garante dei falchi euroamericani di fronte ai conti italiani e ad un Parlamento che fustigò spesso. Esempio fulgido, il suo ruolo nella caduta di Berlusconi e nella successiva salita al potere di Monti.
In un articolo del Giornale intitolato “URSS, Kissinger, Massoneria. Ecco i misteri di Napolitano” si scrive che il suo viaggio negli USA fu “misterioso”. Ma in realtà, di segreto non c’era niente. Lo scopo di Napolitano era palese: diventare l’interlocutore privilegiato di Washington. Obiettivo pienamente riuscito. Si può tranquillamente affermare che la visita di Napolitano del ’78, avvenuta in un momento drammatico del Paese, ebbe un carattere decisamente personalistico, superando la dimensione “di partito”. Lo stesso rapporto con Kissinger, sviluppato negli anni, fu una mossa che gli assicurò protezione e favori. In cambio, Napolitano garantì il totale e pieno allineamento alle direttive di Washington.

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