di Clara Statello
YouTube ha eliminato il documentario sui quesiti referendari, pubblicato sul canale dell’Antidiplomatico. Qualsiasi opinione si abbia sui referendum contro l’invio di armi o sul regista Michelangelo Severgnini, si tratta di un atto gravissimo di censura, anche se la rimozione fosse solo temporanea.
Una compagnia privata extranazionale ha la capacità di limitare alcuni diritti costituzionali: la libertà di pensiero e di stampa, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione, il diritto ad esercitare e promuovere l’iniziativa referendaria, prevista dall’art. 75. Il ban al docufilm “Referendum”, dunque, ci riguarda tutti perché è un’ulteriore compressione dello spazio democratico e dei nostri diritti di cittadini italiani, è una minaccia ai principi e valori antifascisti su cui si fonda la nostra repubblica nata dalla Resistenza.
I precedenti
Non si tratta purtroppo dell’unico episodio di censura sulle piattaforme internet e social. All’indomani dell’attacco russo in Ucraina, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sancito la messa al bando delle agenzie internazionali russe Sputnik ed RT. In meno di venti giorni i siti delle redazioni internazionali sono stati oscurati.
I social sono stati più solerti delle autorità europee. Facebook ha immediatamente rimosso le pagine delle testate russe e successivamente ha eliminato pagine scomode come lo stesso Antidiplomatico e Comitato Donbass Antinazista, grazie al lavoro dei “fact checkers indipendenti”.
YouTube è stato più efficiente: ha eliminato non solo i canali di Sputnik ed RT ma anche delle maggiori TV russe, come Tass, Izvestia e Zvezda.
Un gigantesco rogo dei libri 2.0
In primo luogo, l’oscuramento della stampa russa è servito ad eliminare le prove dei crimini di Kiev. Con la cancellazione di Sputnik ed RT sono stati cancellati 8 anni di guerra in Donbass, 8 anni di crimini dei battaglioni punitivi neonazisti inviati dal governo di Kiev contro la popolazione ribelle di Donetsk e Lugansk. Questo era necessario per poter ripetere i mantra su cui si poggia la propaganda di guerra occidentale: “c’è un aggressore e un aggredito”, “aggressione brutale assolutamente non provocata dell’Ucraina”.
Ma non c’è solo questo, non sono andati persi soltanto i documenti riguardanti la guerra in Ucraina. Archivi decennali di lavoro giornalistico su Cuba, sulle destabilizzazioni in Venezuela o Bielorussia, sulle guerre in Siria e Libia, sulla Cina o sulle rivolte in Cile, sono stati cancellati con un clic. E’ un fatto che si può paragonare al rogo dei libri dei nazisti, è un gigantesco rogo di libri dei nostri tempi con cui viene definitivamente eliminato un punto di vista alternativo sui fatti del mondo.
La “democrazia liberale” getta la maschera
La funzione della stampa è quella di fornire ai cittadini gli strumenti per decifrare la complessità della realtà. Questa complessità è fatta e dalla visione dell’Occidente e da dalla visione russa e di tutti gli attori coinvolti nel teatro ucraino, non soltanto di quelli portatori dei “valori occidentali di libertà e democrazia”.
La necessità di ridurre e semplificare la complessità è la necessità di imporre un unico punto di vista, quello di Washington, ed un’unica interpretazione dei fatti: quella dell’Ucraina invasa dalla Russia. E’ la necessità di legittimare la decisione politica incostituzionale di inviare armi ad un Paese belligerante. Per utilizzare una categoria che piace tanto ai liberali, come può definirsi tutto questo se non come totalitarismo?
L’espediente delle fake news
L’autoproclamato “mondo libero” si trova in imbarazzo: deve conciliare la pratica della censura con la retorica sulla libertà di pensiero e stampa. Non è una contraddizione irrilevante, poiché sul mito delle libertà si fonda la pretesa superiorità della democrazia liberale sugli altri sistemi di governo contro cui è in guerra permanente, non a caso definiti “autocrazie” o “dittature”.
Da qui l’espediente di marchiare il pensiero dissidente e l’informazione scomoda come propaganda russa. I fatti che fanno traballare la narrazione dominante sono censurati sistematicamente come fake news o “fuori contesto”. Persino il grande Mario Monicelli è tacciato di disinformazione: chi ha condiviso o riportato la sua opinione sul film La Vita è Bella, espressa poco prima della sua morte nel 2010, si è ritrovato con il cartellino giallo di Facebook. Qualcosa di simile è accaduta al documentario Referendum: ufficialmente rimosso per l’utilizzo di immagini della guerra in Iraq, forse considerate fuori contesto dall’algoritmo di YouTube.
La censura rende liberi
La situazione assume un tono ancora più grottesco poiché se la libertà di stampa è minacciata dalla disinformazione russa, allora la censura rende liberi. Per questa esatta ragione Reporters sans Frontières ha promosso l’Ucraina, che quest’anno è avanzata di 27 posizioni nel 2023 World Press Index, proprio perché “in prima linea” nella resistenza contro l'espansione del sistema di propaganda del Cremlino”.
E’ del tutto evidente che il paradigma liberale si è trasformato in una paradossale distopia huxleyana.
Dalla libertà alla persecuzione dei giornalisti
In Ucraina i punti di vista sulla guerra differenti dalle politiche di Kiev sono criminalizzati con il reato di “giustificazione dell’aggressione militare e dei crimini di guerra russi” e la propaganda anti-UE/NATO è praticamente considerata un crimine di guerra. Basta andare a guardare i bollettini periodici dell’Ufficio della Procura Ucraina o dell’SBU per constatarlo.
Il capo dell’Intelligence militare (GUR), Kyrylo Budanov, in più di un’occasione ha ammesso candidamente la responsabilità dei servizi speciali negli attentati contro giornalisti ed intellettuali russi, che Kiev considera propagandisti. Nel mirino ci sarebbero addirittura personalità come Vladimir Solovyev e Margherita Symonian. Queste odiose dichiarazioni sono tranquillamente pubblicate su YouTube, non sono soggette alla censura dell’algoritmo. Cosa accadrebbe se il capo dell’intelligence russa rilasciasse simili dichiarazioni nei confronti di giornalisti come Bruno Vespa o Maurizio Molinari?
I doppi standard
Basta affibbiare il marchio di propagandista per giustificare o addirittura annunciare la morte di un giornalista. Così YouTube e altri social consentono la diffusione dei contenuti apologetici che incitano all’odio di Budanov, mentre rimuovono i video dal Donbass del reporter Andrea Lucidi e del canale Donbass Italia, oppure il documentario Referendum contro l’invio di armi in Ucraina.
In questo caso la censura è ancora più grave perché limita la promozione di una iniziativa referendaria, ostacolando l’esercizio della democrazia diretta da parte di liberi cittadini.
Questi doppi standard possono essere interpretati solo e solo in un modo: la libertà totale di espressione è consentita esclusivamente a chi è allineato alle politiche di Washington e Kiev e alla NATO. E se c’è una certa tolleranza nei confronti di alcune voci critiche, è perché il sistema liberale per legittimarsi ha bisogno di un’opposizione funzionale. Purtroppo però, con la vicenda del dossier Copasir, l’anno scorso abbiamo visto che le black list di giornalisti non esistono solo in Ucraina.
L’unica informazione consentita liberamente è quella che si colloca nel campo dell’imperialismo statunitense, l’unico pensiero dominante deve essere quello della classe dominante. Vietato pensare in maniera differente, vietato informare in maniera alternativa.
P.s. Il film è ancora visibile su Vimeo
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