Il Pd e il Mossad a Palazzo Vecchio

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

Apprendiamo dal Corriere Fiorentino (ed regionale del Corriere della Sera) del 8 ottobre, che la sera del 7 ottobre il cosiddetto «coordinamento delle forze di polizia presieduta dal Prefetto Francesca Ferrandino» ha stabilito di aumentare la sorveglianza sugli «obiettivi israeliani sensibili» in città; al coordinamento erano presenti anche «il console onorario di Israele, il presidente della Comunità ebraica di Firenze e il responsabile alla sicurezza della Comunità ebraica di Firenze».

Il sindaco Dario Nardella, e non c'era da dubitarne, ha dichiarato che loro sono «vicini al popolo israeliano». Ha detto anche che «Questi attacchi rappresentano una pericolosa escalation del conflitto israelo-palestinese».

Ha detto la sua anche il console onorario di Israele per Toscana, Emilia e Lombardia, a suo tempo generoso mecenate di Matteo Renzi, quel Marco Carrai - per poco, nel 2016, proprio grazie ai legami con Israele, non era finito a capo della “task force” governativa per la cosiddetta cybersicurezza che, immedesimato quanto mai nel proprio ruolo, ha parlato di «guerra terroristica iniziata dall’organizzazione Hamas nei confronti di Israele» e, chiamando a raccolta neri e bianchi, ha detto di attendersi l'unanimità per la condanna «senza se e senza ma da tutte le istituzioni», perché «non si può giocare tra chi sia l’aggressore e l’aggredito. Tra chi sia un terrorista e chi difenda libertà e democrazia». Il presidente di Toscana Aeroporti (che è lo stesso Carrai e che è ai vertici di tante altre cose, tra cui acciaierie “Jsw”, Università San Raffaele, Lumsa e Ca’ Foscari e, da qualche giorno, anche presidente della Fondazione Meyer) ha tirato le orecchie anche a quelle «comunità religiose che in passato hanno talvolta colpevolmente vacillato nel prendere le distanze dai terroristi di Hamas». Infine, a conclusione di un'omelia da Torquemada, ha praticamente messo all'indice coloro che disobbedissero all'intimazione di scendere «in piazza per difendere Israele», impartendo quindi la direttiva affinché «i comuni e le istituzioni italiane espongano la bandiera di Israele».

Ordine che a Firenze è stato immediatamente eseguito: Palazzo Vecchio ha «accolto la richiesta del vice presidente del Consiglio comunale Emanuele Cocollini, presidente dell'Ass. Italia-Israele, di proiettare la bandiera di Israele». Poco prima, Cocollini aveva scritto inorridito su feisbuc di una «guerra terroristica cominciata all'alba di questa mattina da Hamas». E aveva, anche lui, esortato gesuiticamente a «mostrare unità nella condanna a questa gravissima aggressione».

Non poteva mancare la voce del presidente regionale Eugenio Giani: «Esprimo la mia piena solidarietà al popolo israeliano per l’attacco subito».

In tutti questi “deus lo vult” alla crociata contro Hamas, l'unica volta in cui compare la parola palestinese è nella frase di Dario Nardella, che parla di «conflitto israelo-palestinese»: non una parola sulla condizione in cui è costretto a vivere il popolo palestinese schiavizzato da Israele. Ed è naturale: nella vulgata liberale, se lo stato armato fino ai denti tiene soggiogato per decenni un popolo, questo si chiama “conflitto”. Nel momento in cui quel popolo si ribella, la questione diventa “aggressore e aggredito”: non sia mai che il popolo schiavizzato osi mettere in pericolo la “pace” e la sicurezza dello stato “aggredito”; uno stato che «difenda libertà e democrazia». È la concezione “democratica” del cosiddetto “ordine” mondiale: finché quell'ordine si regge sulla galera, gli assassinii mirati, l'apartheid e il razzismo, le distruzioni di case e oliveti degli “aggressori”, sui fili spinati e le mitraglie, fino a quel momento la “pace” è assicurata. Non appena gli schiavi osano ribellarsi, diventano “aggressori” e vanno messi all'indice del consesso mondiale.

Del resto, per quanto riguarda l'accoppiata Nardella-Carrai e le loro carriere tra i circoli del cosiddetto “giglio magico” renziano, sarebbe stato quantomeno ingenuo attendersi qualcosa di diverso. Sono anni che il primo, coi buoni uffici del secondo, si reca regolarmente “in visita” a Tel Aviv, pur anche soltanto in cerca di software che consentano di rilevare «movimenti sospetti di veicoli o persone», regalando a Firenze il primato di città con più telecamere di sorveglianza per abitante. Ora, visto come la resistenza palestinese sia riuscita a cogliere di sorpresa esercito e servizi segreti israeliani, può darsi che a qualcuno, a Palazzo Vecchio, sorgano dei dubbi sull'efficienza sionista.

Ma, in quel caso, faranno sentire la propria voce consoli e consiglieri il cui cuore batte all'unisono con quelli degli “aggrediti” e non permetteranno che certe intermediazioni vadano in fumo per la sfrontatezza degli “aggressori”.

Il legame tra certi ambienti e Firenze deve perpetuarsi e la condanna «senza se e senza ma da tutte le istituzioni» deve farsi sempre più ampia. Il liberale, il reazionario, l'amante dell'ordine, come spesso amano definirsi questi individui, vede che “l'ordine” è stato sconvolto ed esige la condanna «senza se e senza ma». Lo schiavo ha avuto l'ardire di sbarellare il tavolo cui sono seduti gli “amanti dell'ordine” (pochi anni fa, Dario Nardella, di fronte all'assassinio di una persona di colore da parte di un razzista, nella “democratica” Firenze, chiese la condanna dei ragazzi di colore che, stanchi di esser presi di mira da fascisti e leghisti, avevano frantumato alcune fioriere nella “vetrina” pedonale della città) e allora, di fronte a tale spudoratezza, si deve condannare quello schiavo che ha innescato «una pericolosa escalation del conflitto israelo-palestinese».

È purtroppo da prevedere che, se non ci saranno sviluppi internazionali, la “rivolta di Spartaco”, preparata con una cura che ha messo in ridicolo la proclamata “efficienza” sionista, e maturata sull'onda dei recenti successi antimperialisti e anticoloniali, soprattutto in Africa, verrà soffocata dalle armi dei signori della guerra di Tel Aviv.

Ma, in ogni caso, a nessun democratico, a nessun comunista, verrà in mente di dire che non ne sia valsa la pena.

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