Coding e “didattica esperienziale”: la scuola italiana da educatrice ad addestratrice?



di Angela Fais per l'AntiDiplomatico

Anticipando alcuni degli elementi che caratterizzeranno le nuove Indicazioni curriculari nazionali, l’intervista del Min. Valditara ha subito innescato una querelle infuocata. Sulla reintroduzione del latino e in difesa degli studi classici si è già detto. Sulla lettura della Bibbia sin dalla scuola primaria invece si resta basiti dinnanzi alle reazioni scomposte di chi vede nella proposta un attentato alla laicità della scuola. Laici si, ma ignoranti perché? La lettura della Bibbia infatti è proposta sia per coltivare il piacere della lettura, sia “per rafforzare le conoscenze delle radici della cultura italiana”. E non è un’idea così peregrina, tra l’altro, dal momento che essa insieme alle leggende nordiche cui nell’intervista si fa riferimento, è richiamata anche da visioni pedagogiche radicate e di cui sono destinatari migliaia di alunni in Italia, in Europa e nel resto del mondo, come ad esempio anche quella steineriana. Qui la lettura dei testi in questione risponde a interventi pedagogici calibrati in maniera assai precisa, anche in rapporto alle tappe evolutive degli allievi, e non certo per impartire lezioni di catechismo. Ma c’è ben altro di rilevante nella riforma.

Si dichiara infatti “guerra alla obsolescenza educativa” proponendo tramite l’integrazione delle competenze digitali addirittura di ripensare le materie tradizionali. Anche le scienze esatte. Dunque la matematica sarà ripensata per essere messa al servizio della Intelligenza Artificiale. Inspiegabilmente nessuno si è preoccupato di quella che potrebbe essere la parte più agghiacciante della riforma, la cifra che potrebbe svelare tutto il suo potenziale di pericolosità. La grande enfasi posta sulla “didattica esperienziale”, per realizzare la quale molte scuole ‘con ingenti finanziamenti’ starebbero attrezzando aule e spazi multimediali e polifunzionali, con buona pace per le condizioni fatiscenti e precarie in cui versano troppi istituti, non ha destato preoccupazioni. Nonostante qui ‘si sblocchi’ anche un ricordo grottesco, quello dei banchi a rotelle. E ci si spinge oltre, proponendo l’incremento della educazione digitale con progetti di Coding e simulazioni economiche sin dall’asilo. Dall’inglese “code”, codice: si tratta di elaborare sequenze di segni con cui programmare i computer. Senza citare alcuno studio, viene ripetuto in ogni dove che il Coding aiuterebbe a sviluppare il pensiero computazionale. Dando quindi per assodato che ciò sia un bene.

Ma sviluppare e potenziare il pensiero computazionale è realmente un vantaggio? In realtà il pensiero computazionale è un modo di pensare ‘algoritmicamente’ e la sua logica è usata per realizzare le intelligenze artificiali. Dunque si chiarisca subito: quello computazionale non è pensiero, al più è un ragionamento. Non si pensa, si calcola. Si sospende il pensiero umano e si inizia a ragionare come macchine. E’ necessario adattarsi alle macchine. E si insegna ai bambini, sin dall’asilo, a ragionare come esse. Si metta da parte il pensiero simbolico, caratteristico di quell’età, il pensiero poetico che fonda il mondo del bambino, e suvvia a ragionare e calcolare come macchine. Farsi automi. Più che istruzione o educazione sembrerebbe un addestramento. Ma si addestrano i soldati; e anche gli animali, generalmente i cani.

Ma addestrare bambini sin dalla più tenera età non sembra una buona carta di presentazione per quella che potrebbe diventare la nuova Riforma della scuola. Se il termine ‘addestramento’ può sembrare improprio, limitiamoci pure a parlare di programmazione e a dire che si programmano le macchine, non le menti; per quanto questo resti il grande sogno del potere. Così per programmare le macchine si modellerà il cervello dei piccoli programmatori, come se fossero essi stessi dei robot. Tutto questo avverrà infatti in un momento cruciale dello sviluppo evolutivo: in età prescolare, quando la neuroplasticità raggiunge la sua massima espressione, durante quello che i neuropsichiatri chiamano ‘periodo critico’: una una finestra temporale precisa nello sviluppo del cervello del bambino che ora ha il 150% delle sinapsi che userà da adulto. Le reti neurali che egli costruisce, se usate rimarranno, mentre il loro mancato uso porterà alla cancellazione, grazie a un processo di sfoltimento selettivo. E non c’è nessun riscontro scientifico che dimostri che spingendo sulla digitalizzazione si ricavi un miglioramento dell’apprendimento o delle intelligenze. Quel che disse Pestalozzi: “l’apprendimento si realizza con cuore, mente, mano. Si deve comprendere con le mani” è oggi confermato anche dalla Embodied Cognition, o teoria della cognizione incarnata, per la quale l’esperienza corporea è parte integrante dello sviluppo cognitivo. Si ribadisce la straordinaria importanza di un allenamento intensivo della motricità fine, dei giochi con le dita in età infantile. Numerose le evidenze scientifiche che dimostrano che studiare col computer non sia proficuo. Interessante uno studio condotto su 4500 bambini tra i 9 e i 10 anni dall’ NHI (Istituto Nazionale della Sanità Statunitense) che si propone di analizzare il rapporto tra uso del PC e cambiamenti del cervello.

Chi trascorre 7 ore davanti agli schermi riporta cambiamenti dell’encefalo; in particolare nella corteccia cerebrale che presenta un notevole assottigliamento; che è prematuro rispetto alla tenera età degli esaminati ed indice di un processo di invecchiamento. Inoltre, sottoponendo test di linguaggio e di attenzione ai bambini che utilizzano ogni giorno per due ore il PC o altri dispositivi informatici, si sono riscontrati risultati peggiori a livello valutativo rispetto a bambini che non adoperavano nessun dispositivo.

Se ciò non bastasse a confermare ulteriormente che quando si tratta di bambini si dovrebbe andar cauti con le sperimentazioni, c’è un ulteriore studio pubblicato su Science, una delle riviste più prestigiose al mondo, secondo il quale internet sarebbe diventato “una forma primaria di memoria esterna e transattiva, in cui le informazioni sono archiviate collettivamente fuori di noi”. Quando le persone dunque si aspettano di aver accesso alle informazioni, hanno tassi più bassi di richiamo di queste ultime. In altre parole: non ricordano, non sanno. Quando si compiono ricerche in rete inoltre occorre un prerequisito fondamentale per trovare quel che interessa: una solida cultura personale e una conoscenza acquisita nell’ambito in cui si conduce la ricerca. La competenza digitale delle nuove generazioni è solo un mito senza alcun riscontro nella realtà. Cercano solo in orizzontale, non in verticale. Senza compiere il ‘circolo ermeneutico della comprensione’, le ricerche sono superficiali. A fronte di una vasta letteratura scientifica si può dire che l’integrazione massiccia di media digitali negli asili e nelle scuole non favorisce neppure la competenza letto-scrittoria dei bambini. E non sarà sufficiente la lettura della Bibbia a riparare danni di questa entità.

Sulla scorta di queste considerazioni non si comprende in che modo la digitalizzazione possa potenziare lo sviluppo del senso critico, che è uno degli obiettivi dichiarati nell’intervista, e a chi possa giovare spingere sulla integrazione digitale. Di certo non agli alunni e per quanto riguarda gli insegnanti anche a loro sono riservati gustosi anticipi. A quanto pare infatti l’Intelligenza Artificiale agirà come assistente virtuale individuando e segnalando all’insegnante le difficoltà di apprendimento dei singoli studenti.

Qua si apre un vulnus estremamente pericoloso per il ruolo del docente, la libertà di insegnamento, la sua autonomia. Un precedente questo, checché ne dica il Ministro, che proietta un’ombra inquietante sulla funzione della IA e sul destino dei suoi rapporti con il genere umano.

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